30.4.23

abuso del termine eroe i caso di Masi Nayyem Avvocato e militare, n Donbass ha perso un occhio e la voglia di vivere.

 

Avvocato e militare, Masi Nayyem in Donbass ha perso un occhio e la voglia di vivere. Oggi, a Kiev, ha fondato un’associazione per aiutare i veterani ucraini. «Tutti ci esaltano. Ma quando poi torniamo a casa - monchi, orbi, spaventati a morte - non siamo

In battaglia si uccide, l’ho fatto anch’io. Non ho provato nulla, se segui le emozioni sei già morto — Masi Nayyem

Sul tavolo del soggiorno di Masi Nayyem, a Kiev, c’è una pistola. La CZ P-10 9mm semiautomatica striker da 15 colpi, di fabbricazione ceca, riposa in una valigetta di plastica nera. «Me l’hanno restituita dopo l’incidente, è una specie di portafortuna».

Nayyem, avvocato penalista di origini afghane, militare esperto in cybersecurity, una medaglia al valore dell’esercito ucraino e una dell’intelligence, un cane con un nome da romanzo russo - Barmaley - e una passione per i testi buddisti, ha un appartamento vista parco al 7° piano di Pechersk, quartiere bon chic bon genre della capitale, e mezza faccia che gli manca.

Il 5 giugno dell’anno scorso, mentre era in missione di perlustrazione in Donbass, l’auto su cui viaggiava è saltata in aria su una mina, un suo compagno è morto. Masi, il cranio aperto a metà, è stato trasportato e operato in Germania per dieci ore. Ha perso un occhio, il destro, ma che sia sopravvissuto, dicono i medici, è già un mezzo miracolo. «Faccio fatica a prendere la mira quando mi verso l’acqua nel bicchiere, ma per il resto sono tutto intero». A dicembre, Nayyem ha ripreso a lavorare nel suo studio legale, tra i più noti di Kiev. Va in ufficio con la mimetica, «perché finché si combatterà io resto un militare».

La guerra, Masi, l’ha sempre avuta addosso. Nato a Kabul nel 1985, ha perso la madre quando aveva solo dieci giorni. È cresciuto nelle strade invase dai tank sovietici, coi mujaheddin che appendevano agli alberi chi collaborava. Quando aveva sei anni suo padre Muhammad Naim, un ex ministro afghano che si era rifiutato di lavorare per l’Urss, è fuggito a Kiev con lui e gli altri due figli, Mustafà e Mariam. Qui Masi è cresciuto, ha studiato, è diventato avvocato. Finché, nel 2015, si è arruolato nell’esercito per difendere il Donbass e i fantasmi di quando era bambino lo hanno guardato negli occhi. «Sembrava che la guerra mi inseguisse». Quando ha

ucciso un uomo per la prima volta, dice con una voce spenta, non ha provato nulla. «È come mangiare carne: non ti fa piacere, ma devi».

La sera del 23 febbraio di un anno fa, Masi stava fumando pensoso una sigaretta sul divano di casa,

la   sua   auto esplosa 
prima   dell'esplosione 
dopo una giornata di lavoro. Da un po’ usciva con una donna, stavano bene assieme. Sapeva che la Russia era pronta ad attaccare, che in caso di conflitto i riservisti sarebbero stati richiamati per primi, ma avrebbe preferito non dover partire, era stanco di morte. Eppure, all’alba dell’indomani ha chiamato il comando: «Ci sono, ditemi solo dove posso prendere un’arma». Quattro mesi dopo, in ricognizione d’intelligence vicino al confine russo, l’auto su cui viaggiava è esplosa. Lui e i suoi compagni sapevano di percorrere un territorio a rischio, ma dal comando li avevano rassicurati: “Vi diamo un blindato anti-mina”. «Macché blindato, sarà stata la vecchia auto di un politico: aveva solo i finestrini anti-proiettile, la bomba ha squarciato il pianale come fosse di burro». Quando si è risvegliato dopo l’intervento, con la testa fasciata e i medici che bisbigliavano, ha capito subito di aver perso un occhio. La prima cosa che si è chiesto, ammette con un sorriso amaro, è se le ragazze lo avrebbero guardato comunque. La seconda, se sarebbe ancora riuscito a leggere tutti i faldoni di un processo in una notte.

Ma il peggio, se un peggio c’è, doveva ancora arrivare.

Al suo ritorno a casa, Masi si è reso conto che era cambiato tutto. Non aveva più voglia di amici, di aperitivi, di cinema. Non aveva - non ha - voglia di nulla. È uscito con una ragazza, non ha funzionato. «Sto bene solo con Barmaley, il mio cane». Masi l’ha incontrato in Donbass, durante la sua prima spedizione. Il randagio viveva nell’accampamento, ci giocava tutti i giorni. Quando Nayyem è ripartito, il cane ha preso a correre dietro alla sua auto. Cinque chilometri ostinati, a perdifiato. Finché lui non ha frenato e l’ha fatto salire. «È il mio migliore amico».



Neanche casa è più casa. Nell’appartamento di design, un tempo il rifugio di un single benestante, si accumulano i cartoni della pizza. La notte tornano gli incubi: il sangue, il boato che fracassa i timpani. La psicoterapia? «Ci ho provato, con me non funziona». Masi cerca di rimediare col lavoro, fa meditazione, molto sport. Per l’anniversario dell’incidente, a giugno, punta a rimanere nella posizione della panca - sollevato da terra, poggiato solo a mani e piedi - per 100 minuti tondi, una follia. «Lo stress post traumatico è duro da guarire».

Quello che lo angoscia di più, però, è sapere che

Il mio cane è il mio migliore amico, l’unico che sa starmi accanto

— Masi Nayyem

dopo un anno di guerra gli ex combattenti nelle sue condizioni sono già centinaia. Uomini persi, che faticano a ottenere aiuto, «perché l’Ucraina non è pronta». E perché mostrarsi fragili, quando il Paese sta ancora combattendo, è un tabù. Il problema, per Masi, sta anche qui. «Smettetela di chiamarci eroi. Basta. Siamo eroi finché ci battiamo al fronte, poi torniamo, monchi, orbi, spaventati a morte, e non siamo più nessuno».

Se in Ucraina l’alcol è sempre stato un problema, oggi lo è ancora di più. E nell’ultimo anno, spiega l’avvocato, i reati sono raddoppiati. In gran parte dei casi a delinquere sono ex militari che tornano a casa e si ritrovano senza lavoro, senza amici, senza più una famiglia. «Le cicatrici della guerra non sono solo quelle che ti ricuciono in faccia».

Poche settimane fa Nayyem ha fondato Principle, un’associazione che si batte per i diritti umani dei veterani. Attraverso il suo studio legale, aiuta i militari che non riescono a farsi riconoscere l’invalidità dalla farraginosa burocrazia ucraina. In futuro vorrebbe fare molto di più: mettere insieme medici, psicologi, fisioterapisti. Lo Stato, però, deve intervenire. La settimana scorsa il suo appello è arrivato direttamente al presidente Zelensky: «Ha istituito una commissione, ci stanno lavorando».

Masi prende in mano la sua pistola, la osserva come fosse quasi un appiglio. «Siamo stati aggrediti con ferocia, ci stiamo difendendo con tutte le nostre forze. È già abbastanza, gli ucraini non meritano una disfatta della società».

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