Buongiorno. Questa è una storia da conoscere e divulgare. Mariano ha nove anni e a causa di una malattia rarissima pesa 138 chili. Con i propri genitori, il piccolo viaggia per le cure necessarie, ma in Calabria non ha diritti e sua madre deve combattere ogni giorno perché gli siano riconosciuti. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria.
«La nostra battaglia per Mariano e la sua malattia “impossibile” nella sanità che ha le mani legate»
L’odissea di Tamara De Fazio e della sua famiglia. Il giro degli ospedali tra umanità e porte chiuse. Le infinite richieste all’Asp di Catanzaro “impreparata”. «Se hai una malattia genetica rara
CATANZARO «Ho bisogno di raccontare la nostra battaglia». Tamara De Fazio parla al Corriere della Calabria. È la mamma di Mariano, bimbo di nove anni che convive con una malattia molto rara. Il piccolo pesa 138 chili e con i propri genitori va spesso fuori regione per le cure necessarie. La signora De Fazio ci ha cercato dopo aver letto l’intervista con Antonio Cavallaro, collega della comunicazione che aiuta i bambini affetti da cataratta congenita. Ci auguriamo che la storia di Mariano, molto delicata e toccante, scuota le coscienze e che il Servizio sanitario regionale possa dare le risposte dovute ai minori residenti in Calabria e ai loro familiari. «Ci sono malattie genetiche molto rare, davanti alle quali – premette la signora Tamara – la sanità e la società non sono pronte. L’esperienza mi ha insegnato che in questi casi ci si trova spesso disarmati e tanti genitori, a meno che non abbiano qualche soldo da parte, non sanno come affrontare la situazione. È come se piovesse addosso l’impossibile. Tra l’altro, non hai un autobus con cui spostarti, perché si tratta di malattie sconosciute. Oggi non è pensabile che un bambino di nove anni pesi 138 chili, che abbia difficoltà a deambulare e che debba indossare i panni di un adulto. Ogni volta che devo misurarmi con la società, devo raccontare il fatto».
Come è iniziata la storia?
«Io sono un avvocato e
ho un marito commercialista. Ho un altro figlio splendido e in salute.
Avevo quindi una carriera e una vita felice. Viene il secondo bambino:
non cercato, arrivato come un dono inaspettato, destinato a cambiare la
nostra vita. Mariano nasce stupendo e in salute, ma a cinque mesi inizia
ad avere problemi che noi genitori non riusciamo subito ad inquadrare.
Ci rendiamo conto che, diversamente dal primo figlio, questo bambino
sembra aumentare di peso in maniera sproporzionata. Soprattutto, piange
in continuazione, senza tregua. Io, da mamma, mi rendo conto che
qualcosa non torna, per cui decido di andare in ospedale, mossa anche
dalla disperazione per le lunghe e insonni notti a causa della
sofferenza di Mariano».
E dove?
«Mi presento in Pediatria, a Lamezia
Terme, e chiedo aiuto. Questo perché credo che il mio bambino non stia
bene e perché non riesco a riposare durante la notte. Si mette a
disposizione tutta la squadra del reparto, che capisce che qualcosa non
va. L’allora primario, il dottore Ernesto Saullo, che ancora oggi è
l’angelo custode di mio figlio, mi dice di preparare le valigie. Così,
partiamo per il Bambino Gesù di Roma. Il dottore Saullo mi spiega che
nel suo reparto hanno il motore di una Ferrari posizionato all’interno
di una 500. Mi chiarisce che c’è un problema e che non hanno gli
strumenti per aiutarci. Già questo ci mette in crisi».
Cominciano i viaggi della speranza.
«Sì. Il
reparto pediatrico lametino fa da ponte, perché non puoi presentarti su
due piedi all’ospedale Bambino Gesù. C’è infatti bisogno di medici che
comunichino tra di loro e rappresentino il problema. In ospedale ci
mettiamo in macchina, prepariamo una borsa, non sappiamo che cosa ci
aspetti e lasciamo tutto. Chiudiamo il nostro studio e ci presentiamo al
Bambino Gesù, dove ci attende un’altra squadra di pediatri eccezionali,
che subito decidono di fare una risonanza magnetica a Mariano,
impossibile da eseguire a Lamezia. Il bambino è troppo piccolo e nel
presidio lametino manca un anestesista pediatrico. Insomma, ci siamo
messi in macchina e abbiamo improvvisato un portafogli più o meno pieno
per Roma, in modo da ottenere i primi importanti accertamenti».
E poi?
«Ci presentiamo al Bambino Gesù e lì
restano stupiti nel vedere un bambino di cinque mesi che già pesa 30
chili. Poi fissano la risonanza, all’esito della quale un po’ tutti
tirano un sospiro di sollievo. Appena arrivati, i medici pensavano ad un
tumore al cervello. La risonanza esclude questa tragedia e gli
specialisti decidono di indagare più a fondo, addirittura inviando dei
prelievi in Inghilterra. Dopo la risonanza, i pediatri di Roma
intuiscono che qualcosa a livello centrale non si è formato in maniera
completa, a livello di ipotalamo e di ipofisi».
Allora da genitori avete un quadro più chiaro?
«Capiamo
che i “direttori di orchestra” all’interno dell’organismo umano non
possono svolgere il loro compito, che queste ghiandole non riescono a
funzionare correttamente. Mariano continua a piangere in maniera
disperata ed è praticamente morto di sete. Il suo diabete insipido si fa
sentire e il bimbo prende peso in maniera anormale. Ciò perché la sua
tiroide non funziona. Ancora, la sua vista risulta molto scarsa: i suoi
nervi ottici non si sono formati bene. È quindi un bambino, secondo gli
specialisti del Bambino Gesù, con un quadro clinico riconducibile alla
sindrome di de Morsier o alla sindrome di MOMO. Allora che cosa
facciamo, che cosa ci aspetta, quale sarà la vita di Mariano?».
Comincia un periodo difficilissimo.
«Non abbiamo
studi certi, per cui non sappiamo come sarà la vita di Mariano. Dobbiamo
navigare a vista, dobbiamo gestire gli effetti legati a questa
patologia cui non sappiamo dare un nome. È molto raro che in un bambino
non si formino in maniera completa queste ghiandole a livello centrale.
Non sappiamo se un giorno una dieta ferrea riuscirà a consentire il
mantenimento del peso; non sappiamo come andrà la vista di nostro
figlio: se diminuirà, senza rimarrà così. Sappiamo proprio nulla».
Vi trovate ad affrontare una situazione caratterizzata dalla totale incertezza.
«Intanto,
al Bambino Gesù iniziano a somministrare dei farmaci che consentono una
vita più o meno normale al nostro bambino. Mariano ha cinque mesi e già
prende il farmaco degli adulti per il diabete insipido, assume il
farmaco per la tiroide che non funziona e altre medicine a base di
cortisone. Cominciamo a fare una vita totalmente diversa e pensiamo, in
sostanza, di vivere accanto a Mariano, perché insieme campiamo bene.
Passano gli anni e a Lamezia Terme continuano a monitorare il bambino.
Lavorano in squadra, per carità, ma restano comunque con le mani legate,
nel senso che per Mariano non possono fare più di tanto. Dal canto mio,
per almeno quattro o cinque anni rinuncio alla mia professione. Non
posso fare l’avvocato e nello stesso tempo camminare accanto a mio
figlio. Devo scegliere, e scelgo mio figlio».
È quindi una vicenda che ha anche ripercussioni economiche?
«Sì.
Laddove i soldini non c’erano, li abbiamo trovati. Sono usciti fuori
anche grazie alla solidarietà dei parenti e probabilmente anche grazie
al fatto che io e mio marito non siamo mai stati degli spendaccioni. Ho
rinunciato a quella vita perfetta e anche bella, in qualche modo, per le
possibilità economiche che ci offriva. Per circa cinque anni, siamo
sempre in viaggio. Arriva poi un momento in cui al Bambino Gesù ci
comunicano che dall’Inghilterra è giunta una sentenza che non ci lascia
ben sperare. Ci dicono che non ci sono altre cure. Quindi, il Bambino
Gesù ad un certo punto ci congeda. Nel frattempo, mio figlio cresce e
manifesta anche problemi respiratori importanti. Il suo peso aumenta e
la sua malattia è tanto cattiva e subdola che anche se io lasciassi
morire di fame mio figlio, il suo organismo tenderebbe a prendere peso,
come se mangiasse in maniera ininterrotta per 24 ore al giorno».
Come vi muovete, a questo punto?
«Noi non ci
arrendiamo. Il Bambino Gesù ci saluta dopo tutti i nostri viaggi della
speranza. Tra parentesi, durante il Giubileo straordinario del 2015, a
Roma non si trovavano posti per dormire in albergo. Perciò mio marito fu
costretto a dormire in macchina vicino l’ospedale, mentre io dormivo
sempre su un divanetto accanto a mio figlio. Ma va bene, anche questo ci
stava tutto. Allora ci rivolgiamo di nuovo ai nostri angeli, sempre con
le mani legate, dell’ospedale di Lamezia Terme, diventati i nostri
amici del cuore. Infatti, quando mio figlio sta male, io me li ritrovo
ancora tutti dietro la porta. Succede, perciò, che non gettiamo la
spugna e prendiamo contatti con altri ospedali: il Meyer di Firenze e il
Gaslini di Genova».
È un atto d’amore sconfinato. Virgilio diceva che l’amore vince tutto.
«È
ciò che ogni genitore dovrebbe fare. Allora ci rivolgiamo al Meyer e al
Gaslini, dove purtroppo ci imbattiamo in una triste avventura».
In che senso?
«Il Gaslini vuole conoscere
Mariano. Gli specialisti genovesi vogliono eseguire una nuova risonanza.
Investiamo dei soldi, perché partire non è mai una passeggiata. Anzi,
significa attrezzarsi di macchina, disporre di soldi, organizzarsi,
cercare di sistemare al meglio l’altro figlio, il lavoro eccetera. Così,
partiamo. Quando arriviamo al Gaslini, ci accoglie un fotografo insieme
al primario del reparto di Pediatria. Chiedo il perché delle foto e il
primario mi risponde che vogliono l’autorizzazione per studiare nostro
figlio nelle aule dell’università. Insomma, dopo la battaglia, arriva
anche la beffa. Quello fu uno di quei viaggi, come si dice in Calabria, “appizzati”,
cioè perduti. Avevamo investito ancora una volta dei soldi, ma per
consentire lo studio di che cosa? Volevano una cavia da esaminare?
Restammo mortificati, ottenemmo solo una visita ortopedica e
psichiatrica, poiché Mariano era un bambinone di quattro anni che non
accennava a camminare a causa del peso».
Un viaggio a vuoto. E dopo?
«Non avendo accettato
che Mariano venisse studiato, usciamo dal Gaslini con un’altra
sentenza, del tipo “rassegnatevi, cari genitori, perché Mariano non
camminerà né oggi né mai”. Quindi ringraziamo, abbassiamo la testa e
salutiamo. Però non ci diamo per vinti».
Un’altra prova di tenacia.
«Non bisogna mai
abbattersi. Allora andiamo avanti e, ancora una volta grazie agli angeli
con le mani legate dell’ospedale di Lamezia Terme, restiamo fiduciosi.
Sentivo che mio figlio poteva camminare. Sapevo che mio figlio sarebbe
cresciuto; che sarebbe diventato un bambino intelligente e per bene;
che, magari assieme a noi, un giorno avrebbe riso dei problemi di cui
sto parlando. Dunque, arriviamo al Meyer e troviamo dottori e
infermieri, tutti di origine calabrese, che accolgono nostro figlio, si
prendono cura di lui e dei suoi problemi respiratori. Con la crescita di
Mariano, i problemi con cui abbiamo dovuto fare i conti sono stati
diversi e tutti connessi all’anomalo aumento di peso. A Firenze fanno di
tutto per evitare a Mariano difficoltà respiratorie, che all’ospedale
di Lamezia non avremmo potuto gestire. Il bambino ha bisogno di un
ventilatore polmonare per il riposo notturno. L’ospedale di Lamezia, se
non è un anziano o un adulto ad avere scompensi polmonari, non è
preparato a prendere in carico un bambino con queste problematiche».
È una realtà da cambiare.
«Certo. Al momento i
genitori di un bambino in queste condizioni sono pregati di
sottoscrivere finanziarie, di fare debiti e di partire, se vogliono
salvare la vita al proprio figlio. Ho imparato che la Pneumologia di
Lamezia Terme è abilitata alle tragedie respiratorie, ma solo per l’età
adulta. Quindi usciamo dal Meyer con una nuova sentenza: il bambino
rischia di morire, per cui si prescrive l’uso di un ventilatore
polmonare. Allora vado nei vari uffici dell’Asp di Catanzaro per avviare
le pratiche burocratiche ed avere il macchinario. Con grande sorpresa
ho constatato che, all’interno di queste realtà amministrative, manca
purtroppo la cognizione di una malattia che può colpire e invalidare
tanto l’adulto quanto un bambino. Quasi sempre, mi sono trovata a dover
raccontare la storia di mio figlio; a commuovere l’impiegato o il
funzionario di turno; a precisare che il ventilatore polmonare serve a
un bambino di cinque anni; a osservare l’incredulità del mio
interlocutore. Per inciso, il problema di Mariano è rarissimo. Per avere
un’idea, in Africa, dove la gente muore di fame, c’è un bimbo con la
stessa patologia di mio figlio e con un peso spropositato per la propria
età. È un piccolo in cura al Boston Children’s Hospital, dove
noi, in ultima istanza, abbiamo mandato il carteggio del nostro bambino,
tradotto in inglese da un professore in pensione del nostro Comune di
residenza. Gli americani ci hanno risposto che non potrebbero fare di
più di quanto per Mariano fa la sanità italiana».
Nell’Asp di Catanzaro sono rimasti paralizzati davanti alla realtà?
«Quasi
sempre l’impiegato cui mi rivolgo cade dalle nuvole. Ogni volta, sono
costretta a raccontare la storia di Mariano, anche per avere i pannoloni
dall’Azienda sanitaria. Purtroppo, il concetto di pannolone è
strettamente legato all’età dell’utente. L’Asp fornisce i pannoloni
all’anziano o all’invalido adulto. Spesso sono prodotti di scarsissima
qualità. L’Asp di Catanzaro piange sempre miseria».
Però i minori hanno tutele più forti, sulla carta.
«È
vero soltanto in teoria. Purtroppo, mi tocca raccontare
sistematicamente la storia di Mariano per chiedere i pannoloni per la
notte. A causa del diabete insipido, mio figlio fa molta pipì e durante
la notte non può alzarsi per via dei suoi problemi di deambulazione. Il
bambino cammina poco e si stanca facilmente. Devo essere costretta a
precisare ogni volta di che cosa si tratta? Devo far presente a
chicchessia che siamo di fronte a una malattia rara che riguarda un
bambino di cinque anni? Devo accettare che l’Asp metta a disposizione
dei pannoloni scadenti che servono a nulla, che contengono nulla? Avevo
chiesto all’Azienda sanitaria dei pannoloni adeguati, ma poi si è aperto
un caso. Gli uffici hanno tirato fuori la necessità di un’apposita gara
d’appalto. Ho replicato che avrei rinunciato a questa specie di
giostra, che li avrei acquistati io. Mio figlio è titolare di 104, ha
l’invalidità e ogni diritto di legge. Perciò a Mariano i pannoloni
spettano. Dopo varie peripezie, sono riuscita ad ottenerli, ma l’Azienda
sanitaria me ne passa uno al giorno e a cadenza trimestrale. Non vorrei
che Mariano mandasse in dissesto l’Asp. In quanto alle traverse per il
letto, devo comprarle da sola».
Incredibile e drammatico.
«Non è finita qui. Di
recente chiedo una sedia a rotelle per mio figlio, perché ogni tre mesi
lo porto in ospedale, dagli angeli con le mani legate, per i prelievi e
per accertare se le cure funzionano. Mariano deve fare lunghi percorsi,
prima di arrivare in Pediatria, a Lamezia. Purtroppo, non c’è una sedia a
rotelle all’ingresso. In realtà non ci sono neppure posti per
parcheggiare la macchina, per far scendere comodamente Mariano davanti
all’ingresso dell’ospedale. Lui ha un problema ad una gamba, causato dal
peso. Perciò zoppica e fa fatica a camminare. Quindi, quasi sempre noi
cerchiamo disperatamente una sedia all’ingresso, che quasi mai troviamo.
L’ultima volta abbiamo trovato una sedia, ma non c’era il sedile.
Insomma, ci siamo organizzati con una coperta, con una soluzione di
fortuna. C’è veramente da ridere e da piangere. Abbiamo comunque
posizionato Mariano su questa sedia mezza rotta e l’abbiamo portato in
Pediatria. Da lì, mi decido ad avviare anche una pratica per chiedere
una sedia a rotelle».
Come è andata a finire?
«L’Asp si mette a
disposizione e mi assicura questa sedia a rotelle. Quando completo
l’iter burocratico, però, mi viene detto che la sedia deve essere su
misura e per un certo peso; mi viene precisato che l’Asp non copre i
costi per un ausilio del genere, che non ha aggiornato i codici, non ha
stanziato le risorse e non ha niente. Gli uffici mi rappresentano che
dovrei partecipare almeno per 1600 euro e io replico che va bene, ma che
la mamma di un altro Mariano potrebbe non avere questi soldi e nemmeno
lacrime per piangere. Chi potrebbe portare in braccio un figlio di 138
chili?».
Ci sono altri disagi?
«Sì. La macchina con la
quale affrontiamo i viaggi della fortuna richiede una spesa importante
per il bollo, pari a 350 euro all’anno. In virtù della legge 104 di mio
figlio, chiedo di essere esentata dal pagamento di questo bollo. E da
avvocato vado direttamente in Regione, per chiedere quali documenti devo
produrre. Ebbene, dalla Regione mi viene detto che poco importa se
questa macchina è necessaria perché Mariano raggiunga i vari ospedali
d’Italia; poco importa se su questa macchina Mariano ha difficoltà a
salire, ha difficoltà a scendere. Mi viene poi rappresentato che Mariano
l’esenzione non può averla, a meno che l’automobile non presenti i
requisiti, le caratteristiche della macchina destinata ai disabili.
Quindi, come per il pannolone e come per lo pneumologo, anche il
concetto di disabilità in Calabria viaggia di pari passo con quello di
adulto. Sei disabile e forse hai qualche diritto, ma solo se sei un
adulto. Se sei disabile in età pediatrica e se la tua disabilità è
frutto di una malattia genetica rara, non c’è possibilità, non c’è
speranza, non c’è niente, niente di niente».
Avvocato, ma la Repubblica non deve rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana?
«Certo.
Perciò da avvocato non ho pagato i vari bolli auto. Allora ho ricevuto
le cartelle dell’Agenzia delle Entrate e mi sono difesa davanti alla
Commissione tributaria di Catanzaro, ottenendo l’annullamento delle
cartelle e l’esenzione dal pagamento del bollo auto. La Regione
pretende, però, il versamento delle quote del bollo, il che è
un’assurdità. Tra l’altro, quando chiesi alla Regione Calabria la
modulistica per le esenzioni, mi dissero che l’auto doveva essere
intestata a Mariano. Giudicate voi. L’Asp, invece, sanzionò nostro
figlio per la mancata presentazione ad una visita, intimandogli
addirittura di pagare 25 euro, senza tenere in considerazione le
difficoltà di spostamento del nostro bambino».
Ora come sta Mariano?
«Nonostante tutto, a
quattro anni e mezzo si è messo a camminare, malgrado i problemi di
vista. La sua è una vita un po’ condizionata, perché comunque deve
rispettare degli orari per assumere dei farmaci in maniera corretta. E
non è la vita di un bambino comune di nove anni. Mio figlio non lo vedrò
mai cadere da una bicicletta o correre in piazza con i suoi amici. Va
bene, però ci sono le gite, ci sono le uscite a scuola, no? E allora,
ecco, c’è lo scuolabus. E a me sembra normale che ci sia un autobus con
la pedana, per consentire a Mariano di salire a bordo, visto che non può
fare i gradini, anche perché non ha il senso della profondità. La
scuola si è messa a disposizione. Nella nostra vita, devo dire, ho avuto
la grande fortuna di conoscere dei medici meravigliosi e delle persone
di grande umanità, che si sono subito legate a mio figlio».
E con l’autobus che cosa è successo?
«In Calabria
non esistono autobus attrezzati con pedana, nel senso che non è facile
reperirli, a meno che non ci si rivolga all’agenzia di una città
capoluogo di provincia. Allora un bambino disabile è destinato a non
andare in nessun posto?».
Come l’ha presa Mariano?
«Ha reagito bene. Si è
accostato alla parrocchia e, frequentando il catechismo, ha espresso il
desiderio di servire messa. Mariano legge in maniera eccellente,
nonostante il filo di vista che ha. Secondo i signori del Gaslini, non
ci sarebbe mai riuscito. Non solo, mio figlio scrive in maniera
meravigliosa. Nella parrocchia di Sant’Andrea di Vena, un bel giorno
Mariano si presenta in chiesa e trova una pedana che gli permette di
salire direttamente sull’altare e quindi di servire la messa. Lì gli
hanno fatto trovare un’altra pedana, con la quale Mariano può entrare in
una stanza per il catechismo, per la preparazione alla prima comunione.
In questo caso non ho dovuto chiedere alcunché: hanno fatto tutto in
parrocchia, dimostrando enorme sensibilità. Domenica scorsa, per
esempio, Mariano ha servito messa con una tunica su misura fornita dalle
catechiste e con una sedia a portata di mano. Infatti, tutti sanno che
il bambino non può rimanere in piedi per più di dieci minuti. Ecco, nel
piccolo c’è l’immenso. Questa è la storia di Mariano».
Tante difficoltà ma anche prove di umanità concreta.
«Sì.
L’umanità di tutto il personale del reparto di Pediatria dell’ospedale
di Lamezia Terme, dell’ex primario Saullo e del suo successore, la
dottoressa Mimma Calogero. L’umanità, aggiungo, dell’anestesista
Marcello Mura, della scuola primaria di Vena di Maida che Mariano
frequenta, della dirigente Sabrina Grande e degli insegnanti, come
dell’insegnante di sostegno, Maria Bruno. Il sostegno è un aspetto
fondamentale, perciò i docenti che se ne occupano dovrebbero essere
stabili e spero che qualcuno a Roma mi ascolti, al riguardo».
Capisco che la lotta prosegue con una forza straordinaria.
«Oggi,
davanti alla patologia del mio guerriero, la grande sfida è contro
l’obesità. A causa del peso di Mariano, infatti, nessun medico si sente
di intervenire per un bypass gastrico o per rimettere a posto la gamba
sinistra, che appare deformata. Il suo metabolismo, dato il deficit
dell’ipotalamo e dell’ipofisi, resta indifferente a qualunque regime
alimentare. Perciò il bambino va tenuto sotto stretto controllo: non
avendo il senso di sazietà, mangerebbe senza sosta». Però abbiamo
lanciato dei messaggi chiari, che più di qualcuno riceverà. Grazie per
il coraggio. E per l’esempio. (redazione@corrierecal.it)
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