31.8.11

i cani eroi del 11\09\2001


dall'inserto domenica  di repubblica  del 29\08\2011 per  i  particolari cliccate  sopra  le  foto  non sono riuscito  ad  ingrandire  di più mi  scompaginavo il  blog

16.8.11

Aspettando le monetine di un secondo Hotel Raphael: dopo Craxi, Berlusconi


dovranno passare altri 45 anni prima di ripetere quel gesto ?
Aspettando le monetine di un secondo Hotel Raphael: dopo Craxi, Berlusconi

stori di donnne altrnativa a quelle di arcore e dello show buiness

  con sottofondo  portando i  giornali alla raccolta  differenziata  della  carta  mi sono imbattuto  in questo m articolo   della settimana  prima di ferragosto  interessanti  il primo  della  nuova sardegna  o l'unione sarda   (  ?  )

Campionato di morra, il robot battuto e umiliato Così Maria Pala di Lula ha battuto e umiliato il robot super Gavin 1.0


di Angelo Fontanesi

Campionato di morra, il robot battuto e umiliato
ONIFAI. Il protagonista annunciato della sedicesima edizione del «Campionau sardu de sa murra» e della nona edizione dell’«Atòbiu internazionale de sos murradores de su Mediterraneu» svoltisi nello scorso fine settimana a Baunei, doveva essere Gavin 1.0, robot murradore, costruito da un team di allievi dell’Istituto tecnico industriale Giua di Cagliari. Un assemblato di circuiti elettronici progettato e nato per vincere tutto e contro tutti.

E così aveva fatto sino a quando sul palco di gara allestito dall’a ssociazione «Po su giocu de sa murra» ha incrociato le sue dita bioniche contro quelle corte e tozze di Maria Pala da Lula, 35 anni, da tempo residente in Baronia, prima a Orosei e ora Onifai, al fianco del fratello don Franco, parroco del piccolo centro della valle del Cedrino.
Fisico possente e occhi di ghiaccio Maria Pala, operatrice di macello di professione ma di fatto perpetua al seguito del fratello, sin da bambina la sua «quota rosa» se l’è presa senza aspettare norme o sentenze del Tar. Le piaceva la morra, imparata dal padre, e i lavori che facevano gli uomini. Donna di campagna, senza se e senza ma e anche campionessa indiscussa di murra. Davanti a quel murradore androide nessun tentennamento e nessun imbarazzo.
Le sfide per lei non sono mai state un problema, figuriamoci quella contro un robot, anche se con la berritta in testa. Le prime buttate lente, per far capire ai circuiti elettronici di Gavin la tecnica dell’avversario, un passo che non si addice a veri murradores, ma Maria ha atteso con pazienza, sino a che il ritmo è aumentato e lei è entrata finalmente nel suo terreno preferito. Quello della murra incalzante e serrata e dono solo dei grandi campioni, assolutamente imprevedibile e mai scontata. E allora via, a ghettare sa manu, dudduru, battoro, ottoottanta, treminè, chimbe, seila, murra bella..un incalzare spasmodico di numeri e dita che si incrociano.
Sino all’imprevisto: Gavin incomincia a perdere colpi tentenna, si surriscalda e infine..zoot, un filo di fumo esce laconicamente dai suoi circuiti fusi e per il robot murradore è K.O. tecnico. Le braccia metalliche gli cadono senza vita lungo fianchi, la testa gli si reclina, e sul ring sconsolati salgono i secondi, i suoi giovani progettisti, per controllare i danni della loro creatura e cercare di rimettere a posto i circuiti andati in tilt.
Lei, Maria Pala da Lula, rimane invece impassibile, guarda la scena con i suoi freddi occhi azzurri senza fare una piega. Per lei è una vittoria come tante altre e come sempre anche stavolta gli applausi sono tutti per lei. L’unica donna in Sardegna capace di giocare e vincere in un gioco tutto al maschile, robot compresi.
Al di la del piazzamento finale nella vera tenzone, dove in coppia con il dualchese Francesco Piras si è dovuta arrendere alle porte della semifinale del campionato sardo ai sedilesi Antonello Putzulu e Gian Pietro Manca poi vincitori assoluti, è stata lei la protagonista del torneo.
Maria Pala non ama parlare, ma non per boria o presunzione. È fatta così e basta. A raccontare di lei e della sua vita spesa tra il mondo agropastorale, i palchi della murra e le sagrestie delle chiese è Rosa Masala, fotografa galtellinese, da 7 anni amica, confidente e un po’ pr della «regina della murra sarda». «Maria è così - dice la donna- ma sotto quella scorza di durezza che mostra sia nel fisico sia nell’abbigliamento è sensibile, dolce e timida.
Le luci dei riflettori non le piacciono. Eppure tutti la vorrebbero, mi chiamano da tutte le parti, non solo dalla Sardegna. L’anno scorso volevano Maria a Cagliari come donna sarda di successo alla serata finale di Miss Sardegna, mentre l’estate scorsa, dopo un torneo di murra disputato in un paese della Costa Smeralda, siamo state contattate da uno sceicco arabo che voleva portare la morra e ovviamente Maria nel suo emirato. Ci chiese solo quanto volevamo per una tournée, disse che non c’erano limiti di soldi, ma Maria mi liquidò alla sua maniera: «vae vae, tue e s’e miru..ajò chi non che torramus a bidda».
E così è stato anche a Baunei, dove la stella di Maria ha brillato giusto sul palco, davanti alla coppia avversaria. Poi a bidda, lasciando la gloria mediatica ai campioni venuti da tutta l’isola ma anche da mezza Italia e anche dalla Provenza e dalla Catalogna.


il   secondo  sul web per  il  blog
 da  rpubblica  online del 13  agosto

Anita, la laurea della vita "Rivincita dopo il terremoto"

L'Aquila, è una dei quattro sopravvissuti della casa dello studente crollata il 6 aprile 2009. E' la prima ad aver terminato il corso di studi. "Questo risultato è anche per chi non c'è più"

di GIUSEPPE CAPORALE
L'AQUILA - La seconda vita di Ana Paola Fulcheri (  foto  a destra  ), Anita per gli amici, è iniziata più di venti giorni fa: il 21 luglio.
 Il giorno della sua laurea. Tra sorrisi, abbracci e fotografie. Ed è iniziata lì proprio dove è finita la prima: all'Aquila. Lei, 24 anni, è una dei quattro sopravvissuti al crollo della Casa dello Studente, il 6 aprile del 2009. Ancora oggi, nonostante abbia voltato pagina (e nonostante la felicità per una laurea con il massimo dei voti e la consapevolezza di essere la prima laureata dei superstiti del crollo della Casa dello studente), appena prova a ricordare quel maledetto giorno, si commuove. Piange. Riesce solo a raccontare di essere rimasta tre ore sospesa nel vuoto. Ana Paola era sveglia e spaventata, mentre una parte di quel palazzo crollava a terra (portandosi via otto suoi amici). Aggrappata a ciò che rimaneva della sua stanza. Appena oltre la porta non c'era più nulla. Nulla. "Non c'era più il corridoio...". Ricorda anche che non furono i vigili del fuoco o la Protezione Civile a salvarla.
Riuscì viva da quelle macerie grazie a quattro suoi amici, anche loro superstiti, e quasi tutti presenti il giorno dell'inizio della sua nuova vita. Il 21 luglio anche tre di loro erano lì nell'aula magna "provvisoria" dell'Università dell'Aquila, insieme alla mamma, alle sorelle e ai nonni. Per applaudirla, darle coraggio e stringerla in un abbraccio. In prima fila c'era anche il suo avvocato, Vania Della Vigna, che l'assiste nella causa
contro la Protezione Civile. Sì, perché Ana Paola, dopo la tragedia, si è costituita parte civile contro la Commissione nazionale Grandi Rischi (organo tecnico della Protezione Civile) che - secondo l'accusa della procura dell'Aquila - sottovalutò lo sciame sismico e rassicurò, invece di informare la popolazione sul rischio che stava correndo.
"I miei amici sono morti perché la protezione civile disse che non c'era pericolo, che era tutto normale..." racconta Ana con tono acceso. Adesso che si è laureata, non sa se tornerà mai più all'Aquila. Non ci ha mai più dormito da quella notte. "Mai...". "Non so dirlo se tornerò... La sensazione che provo ogni volta è quella di un grande dolore. È come se venissi al cimitero".
Non ha chiare le idee sul futuro "non lo vedo..." dice. "Il preside mi consiglia di andare all'estero, sfruttando la conoscenza dello spagnolo, ma non ho ancora deciso. È una scelta difficile". 
Si è laureata in Scienze delle Investigazioni e il preside della sua facoltà, Franco Sidoti, è entusiasta di lei.
"Ana Paola ha scritto una tesi splendida - racconta il preside - con tante citazioni in spagnolo e in inglese, mostrando una conoscenza storica, politica, professionale dell'argomento assolutamente incredibile in una ventenne. Metterò tra i documenti la relazione che il suo correlatore ha scritto per lei, in termini di apprezzamento assolutamente fuori dal normale. Le tragedie o ti distruggono o ti rafforzano: Anita è fortissima. Il suo prossimo appuntamento con il destino è nel procedimento penale contro gli imputati per la tragedia della Casa dello Studente, che inizierà in fase dibattimentale il 20 settembre 2011. Io ci sarò e spero che anche qualcun altro degli iscritti al mio corso sia presente: è un appuntamento con la verità e con la giustizia".
Ana Paola, nel frattempo, è tornata a vivere di nuovo. "Dopo due anni e mezzo di patimenti, sofferenze e ripensamenti, ho capito che la vita mi ha dato un'altra possibilità e devo coglierla. Anche per i miei amici che non ci sono più". Anche per Michelone, il ragazzo morto tra le macerie, che quella notte (durante lo sciame sismico) prima della scossa fatale, lungo un corridoio, l'abbracciò e le disse: "non avere paura...".








9.8.11

11 settembre 2001 11 settembre 2011

 Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano [...] »
(dal discorso di Vanzetti del 19 aprile 1927, a Dedham, Massachusetts prima  d'ssere  di 'esser  bruciato  sulla sedia elettrica )
A differenza  degli altri  articoli celebrativi  , siamo  nel decennale  dell’evento  tragico ( sia  che , come la penso io , è una cospirazione americana , sia  che  sia  realmente un attentato   esterno  )  s’inizia  già  a parlarne prima  dl solito  .  d  per  evitare  d’essere  coinvolto nel bit  \  fiume d’inchiostro  retorico  ( al 90 % )  ne parlerò in più post , riportando articoli interessanti  come  questo  tratto  da  repubblica 3 \08\2011 

IL REPORTAGE
Le Torri dieci anni dopo
ritorno a Ground Zero
Grattacieli in costruzione, cascate e due piscine al posto delle Twin Towers abbattute l'11 settembre 2001. Viaggio nel cantiere più famoso del mondo, 10 anni dopo l'attacco agli Usa dal nostro inviato ANGELO AQUARO 






 
NEW YORK - Il cielo sopra Ground Zero è limpido come quell'11 settembre ma dal 50esimo piano della Freedom Tower nulla è più come prima. Il primo aereo è sbucato da lì: dall'autostrada nelle nuvole che insegue il percorso dell'Hudson, il fiume che diede vita a New York e poi l'ha tradita a morte accompagnando al bersaglio i dieci dirottatori dell'apocalisse. Alle 8.45 l'American Airlines Flight 11 si schiantò a 600 chilometri all'ora sulla Torre Nord, che adesso è quella "vasca" che si vede qua sotto: un buco nero di due chilometri quadrati e mezzo, profondo 10 metri.

IL REPORTAGE Nel cantiere di Ground Zero

La Torre Sud, invece, fu la seconda a essere colpita, ma la prima a cadere. Il volo American Airlines 175 la centrò alle 9.04 e 61 minuti dopo era già in macerie: anche il suo perimetro adesso raccoglie una "vasca", uguale e speculare all'altra.
Sembra impossibile: ma questo cantiere infinito che romba "24/7", come si dice qui, cioè 24 ore su 24 per 7 giorni alla settimana - 10 chilometri quadrati, 5mila operai - tra un mese diventerà un giardino di meditazione. Spiega Matthew Donham, l'architetto dei paesaggi di Pwp, lo studio californiano responsabile del Memorial, che i riflessi delle cascate d'acqua nella vasca saranno la traduzione più visibile del concetto firmato Michael Arad & Peter Walker: "Assenza riflettente". Che volete: gli architetti parlano così. Poi incroci Francis Connely, 68 anni, che bazzica questo posto da quando ne aveva 26 e lavorava alle vecchie Torri Gemelle, quelle di Minoru Yamasaki.
Beh, oggi Francis continua a fare sopra e sotto per la decina di ascensori che imbragano la Freedom Tower di David Childs. E' l'operaio più anziano di Ground Zero, e altro che assenza riflettente: "Più presenza di così"
A Osama Bin Laden sono bastati meno di venti minuti per quell'uno-due che mise in ginocchio l'umanità. Dieci anni dopo la Ground Zero che verrà è ancora un'intuizione. Vergogna? La vergogna, dicono i parenti delle vittime, sarebbe stata un'altra: quella di una ricostruzione forzata dove tutto sarebbe dovuto brillare più bello e più nuovo di pria. Non è un caso che il partito fosse simbolizzato dal palazzinaro più temuto del mondo: Donald Trump. Naturalmente anche la crisi ci ha messo del suo: bloccando la corsa al mattone che tutti temevano.



corto di  di Sean Penn tratto dal film collettivo 11.09.011 qui maggiori news  e  l'elenco  dei registi  che  vi hanno partecipato 


Tutto è ovviamente provvisorio. Un primo montacarichi ti porta da terra - le quattro entrate più la buca per il metrò, che a regime inietteranno nell'intero sito 3 milioni di persone - fino al 39esimo piano. Mezzo giro e da una lobby improvvisata spuntanto altri due ascensori. Sopra a ciascuno c'è scritto col pennello: "Express" e "Local". Ma è solo un gioco degli operai. Justine Karp, la ragazza di Port Authority che fa da scorta, occhiali da sole alla Top Gun e baci e abbracci col capomastro di ogni piano, ha un modo mica da signorine per chiamare l'ascensore: ma è l'unico. Un bel calcione al portellone con gli anfibi da cantiere. L'operaio coglie il messaggio e blocca al piano il montacarichi, le pareti con gli adesivi che inneggiano a Johnny Cash (ma c'è anche un bollino "No alla moschea") e la radio che spara rock Donald Marmen fa parte dello squadrone di Som, l'internazionale degli architetti (sono più di 70 e c'è pure un italiano: Stefano Ceccotto) che innalzano totem di case in mezzo mondo, e adesso si aggira come un ispettore affacciandosi a ogni vetrata del mostro di cemento e acciaio. E' un'altra New York. L'architetto non lo sa, confessa, da dove arrivarono gli aerei, però ti mostra come intorno tutto è davvero cambiato: qui accanto non c'era la 7 Word Trade Center che è stata la prima a risorgere, lì in fondo non c'era il grattacielo curvilineo di Frank Gehry che è ancora vuoto perché gli affitti sono fermi.TJ Gottesnieder, il gran capo di Som, giura che anche questa Torre 1 sarà finita, come da programma, entro due anni. Dovremmo esserci: anche se per la verità lo scheletro d'acciaio doveva essere completato quest'autunno e invece si slitta a gennaio. D'altronde qui tutto è gigantesco e quindi anche i tempi sono ingigantiti. Per questo la Ground Zero che verrà è ancora tutta da immaginare. Là dove sorgerà la Torre 2 di David Foster, ancora niente. Ecco qui le fondamenta della Torre 3 di Richard Rogers. E finalmente si riesce a indovinare qualche piano del 4 World Trade Center di Fumihiko Maki.
Stop. Ma che cosa vedranno allora le decine di migliaia di persone che tra un mese torneranno qui per la prima volta? Come si ripresenterà al mondo il luogo profanato dall'orrore? Quando tutto sarà finito apparira così. Le due piscine del Memorial al centro, dove sorgevano le torri. La Freedom Tower a svettare all'angolo sinistro del quadrilatero che comprende tutto il sito. Di fronte, la cupola della metropolitana disegnata da Santiago Calatrava. Poi a corallo e in senso orario le torri 2, 3 e 4. Tutt'intorno alle vasche, centinaia di querce bianche. E a galleggiare tra le vasche del Memorial e la cupola della metropolitana, ecco il museo. Tra poco più di un mese al pubblico verrà aperto solo il Memorial
Sarà possibile, cioè, affacciarsi dove sorgevano le Twin Towers - i "Twins Voids", i vuoti gemelli, li chiama Matthew Donham - e leggere i nomi delle 2973 vittime incisi sul bordo:  Richard Allen Pearlman, Karen J. Klitzman, Christine Sheila McNulty... Sarà possibile passeggiare tra le querce che sono state scelte a una una nei boschi di Pennsylvania, Maryland, New Jersey e New York: "Piante che parlano del luogo in cui si trovano" dice sempre l'architetto dei paesaggi. E ci si potrà fermare a meditare sui sedili di pietra. Che come tutti i marmi di qui arrivano invece dall'altra parte del mondo: la nostra. "Si chiama Verde Fontaine e viene da Pietrasanta, una ditta italiana che si chiama Savema: il migliore riflesso di grigi e di verde che potessimo trovare al mondo". Ecco: riflesso. Riflesso è la parola d'ordine che gli architetti migliori del pianeta si sono scambiati per riempire di senso il buco nero del dolore. "Il riflesso di questi specchi sarà differente" dice Donald Marmen spiegando che la Torre del 1 World Trade Center splenderà come nessuna prima mai. Ma nel gioco di pieni diventati vuoti - e di riflessi che si inseguono sui vetri dei grattacieli - forse il vero spirito del luogo lo cogli in quella specie di antro che è destinato a diventare il museo.
Sarà pronto soltanto tra un anno ma lo scheletro a dirigibile già emerge mentre Anne Lewinson, l'architetto di Snohetta, lo studio che ha realizzato il disegno che ingloba i "tridenti" d'accio delle vecchie Torri Gemelle, controlla che gli specchi appena installati riflettano - anche qui - la giusta prospettiva. Il "dirigibile" che si vede all'esterno è solo il padiglione d'accoglienza del museo che raccoglierà i visitatori direttamente dal metrò: e li spedirà negli inferi di Ground Zero. Perché l'orrore che sconvolse il mondo verrà ricostruito quaggiù: nella caverna ricavata negli abissi delle Torri Gemell. E dove adesso, a dieci metri di profondità, passeggi intorno all'involucro delle due vasche: i due Vuoti Gemelli che nessun architetto riuscirà mai a colmare.
All'uscita sarà un sollievo ritrovarsi tra querce bianche e cascate. "Il suono delle cascate" dice Matthew Donham "isolerà dal rumore della metropoli". Qualche decina di piani più su, nella Torre più alta d'America, sciameranno i giornalisti del New Yorker, di Vogue e tutte le riviste patinate della Condé Nast, il primo big ad aver contrattato un posto lassù, per la modica cifra di 2 miliardi di dollari per 25 anni. Vacilla il trasloco della banca svizzera Ubs: troppo costoso. E pensare che questo qui sotto, dice sempre l'architetto - mostrando i marmi, le querce bianche e quel Survivor Tree, l'albero sopravvisuto agli attacchi, a cui dopo l'uccisione di Osama Bin Laden il presidente Barack Obama si è aggrappato per rendere omaggio ai parenti delle vittime - "in fondo è un cimitero". Non ci libereremo mai della sua maledizione?
Proprio gli architetti insegnano che una volta le città sorgevano intorno ai cimiteri. Per questo Matthew non si scompone quando uscendo dal cantiere un ragazzino smarrito lo ferma. "Mi sa dire dove posso trovare..." . Ma no, mica cerca il buco nero del mondo, il museo provvisorio in Liberty Street, la croce di acciaio miracolosamente trovata tra le macerie: macché: "Mi sa dire dove posso trovare il 'Century 21?'", chiede. E già. Sta cercando il megastore che porta il nome del secolo che si aprì con quell'11 settembre: quel gigantesco discount della moda proprio lì di fronte, su Church Street, dove ogni giorno alle casse c'è una fila che non finisce più. Perché, almeno in questo, all'ombra dei grattacieli che verranno, non è poi così vero che nulla a New York è più come prima.

5.8.11

Umano, solo umano

È, decisamente, l’estate delle sorprese. Il giovane segretario (…) del Pidielle, l’ex ministro enfant prodige Angelino Alfano (il quale, con raro senso di modestia, ebbe a dire: “Mi considerate troppo giovane? Ricordatevi di Bob Kennedy”) s’è infatti rivelato “nientepopodimenoché” un pugnace comunista. Anzi, un umanista a tutto tondo. Sentite cos’ha dichiarato l’altro ieri in Parlamento: “Da quando in qua sono i mercati che scelgono i governi? Da quando in qua la tecnocrazia s’impone sulla politica? Noi crediamo all’antico e sempre valido criterio per cui spetta ai popoli designare i loro rappresentanti!” (a seguire, scroscio di applausi e di vistosi cenni d’approvazione col capo da parte dei notabili del partito).



Poteva il suo vecchio mentore essere da meno? Nossignori. Non poteva. E infatti ecco uno dei giornali di famiglia spiattellare la clamorosa notizia: “Silvio sfida i mercati”. Incredibile! Già lo immaginiamo, il Cavaliere lancia in resta contro i poteri forti, contro i regimi plutocratici e reazionari che umiliano il “popolo” (o queste definizioni appartenevano a qualcun altro, anch’egli apprestatosi a dichiarare qualche guerra?...). I mercati come il male assoluto, la “tecnocrazia” il nuovo nemico da abbattere. Sono diventati umanisti: evviva!


Ma basterebbe sfogliare distrattamente un vecchio manuale di storia di quarta liceo per scoprire, con buona pace di Alfano che lo ha dimenticato o, quel che è peggio, forse lo ignora davvero, per scoprire che “i mercati” scelgono i governi da almeno tre secoli: da quando, cioè, si è affermata la società liberista e consumista, basata non sull’uomo, non sulla politica, ma sull’accaparramento finanziario. “La strategia neo-liberista per distruggere gli Stati nazionali – osserva Tomás Hirsch [in basso, con Evo Morales] nel suo appassionante La fine della preistoria (Nuovi Mondi, 2008) - si è concentrata su due fronti: screditarli in modo sistematico davanti all’opinione pubblica e indebolire sempre di più il loro potere decisionale. L’immagine pubblica negativa dello Stato è la conseguenza di una campagna mediatica intensa e durata anni, grazie all’uso della tribuna di massa quasi monopolistica fornita dai mezzi di diffusione controllati dal potere economico. Contribuisce a questa ‘crociata’ anche l’endemica venalità della classe politica, che risulta regolarmente implicata in scandali di corruzione con fondi pubblici. La riduzione della capacità decisionale dello Stato è stata un’operazione un po’ più complessa: si è andati dall’estorsione esercitata dal capitale finanziario internazionale ai danni dei paesi, subordinando qualsiasi investimento o credito al mantenimento di certi equilibri macro-economici e a drastiche riduzioni della spesa pubblica, fino all’installazione nella burocrazia statale di una casta di tecnocrati, con l’esplicito mandato di eseguire alla lettera le politiche neo-liberiste, anche passando sopra ai governanti eletti dal popolo. Ecco com’è finito il vecchio e possente Stato, glorioso vertice della ragione umana, massima realizzazione dell’Idea secondo le parole di Hegel, ridotto a un signor nessuno (secondo l’espressione coniata dalla poetessa cilena Gabriela Mistral) dalla spietata combriccola di rozzi mercanti da strapazzo che hanno dominato il mondo e ora degradato alla condizione di un potere prigioniero. È uno spettacolo penoso e deplorevole, difficile da mandar giù per qualsiasi spirito davvero repubblicano. […] Se i governanti [d’una democrazia], una volta eletti, rinnegano questo sacro mandato e si sottomettono, per debolezza o convenienza, a un potere illegittimo (come il potere economico), commettono un gravissimo tradimento politico, riducono la democrazia a una pura formalità e la convertono in un rituale vuoto, spogliato del suo attributo fondamentale”.


Ma questa è esattamente la strategia portata avanti fino a tre minuti fa dalla combriccola berlusconiana al potere, e pour cause, incarnando Berlusconi l’emblema più rumoroso e smaccato del capitalismo in salsa nostrana. Colui che ha massacrato lo Stato piegandolo ai propri interessi di bottega, colui il cui unico dio è il denaro, che ha elevato a valore uno stile di vita reificato ed edonista (e intollerante: in ossequio al più vieto darwinismo sociale, prevalgono i forti e i prepotenti sui deboli e i “diversi”: al capitalismo si affianca sempre il perbenismo borghese da cui il primo è nato, seguito a ruota dal Vaticano, in Italia suo potentissimo e irrinunciabile complice) ora si erge ad alfiere della “volontà popolare”! Si tratta dell’ultima farsa di prestigiatori da strapazzo, ora decisamente frastornati ma, proprio per questo, più incanagliti e pericolosi.


L’agonia è mondiale. Parafrasando Nietzsche, Dio è morto, ma il mondo ancora lo ignora. È morto il dio-capitale, è morto il sistema-liberismo, sono morti i mercati; è finalmente morto, stramazzato, questo falso idolo putrefatto, ma il mondo dei suoi adepti ancora non lo sa. Anzi, ostenta una costernazione ben poco sincera e s’inventa palliativi d’ogni tipo per rianimare quel corpaccione ormai verminoso; mascheramenti patetici, come il capitalista che recita di combattere sé stesso, imbraccia un ridicolo umanesimo di facciata e brandisce l’arma giocattolo d’una pretesa “difesa dei popoli”. No. Qui non occorre alcun Superuomo e stiamo attenti, in Italia, a non lasciarci sedurre dall'ennesimo salvatore della Patria, reiterato esperimento-Frankenstein di questo cadavere in decomposizione: “Putet, quatridauna est!” (puzza, è un cadavere di quattro giorni!). Qui occorre riscoprire, anzi, scoprire l’uomo (declinato anche, e soprattutto, nei due sessi), in tutta la sua interezza e potenzialità. Siamo noi, ancora, il vero continente da esplorare. Umanizzare la Terra: e far piazza pulita delle vetuste maschere che ammorbano ancora il cammino degli individui verso la piena, autentica libertà.




2.8.11

Dalle aule di tribunale alle Vespe d'epoca Meglio l'officina della carriera forense e dello studio da commercialista

 dalla  nuova  del 1\7\2011di Felice Testa
Carlo Sanna e Nicola Manai,
CAGLIARI.
Dalle pandette ai carburatori è solo un passo breve per la decrescita felice: la libertà in cambio della carriera. L'alternativa ai falsi miti della professione liberale, cucinati con la salsa amara del praticantato gratuito, della precarietà e della noia, è salire in sella a una Lambretta SX 200 o a una Honda Four 750, perfettamente restaurate.
Carlo Sanna e Nicola Manai, trentenni con laurea, in Giurisprudenza e in Economia e commercio, sono a modo loro due indignados in scooter. Di fronte alle residue opportunità offerte dal mercato, il lavoro hanno preferito inventarselo: duecento metri quadrati in via Ada Negri, per una passione trasformata in mestiere all'Ottonero Garage, premiata officina di recupero e «customizzazione» di motociclette, Vespe e Lambrette. Laboratorio meccanico nato in proprio, senza finanziamenti, dando fondo ai risparmi e saltando a pie' pari le offerte truccate delle politiche giovanili e l'intercessioni dei potenti di turno per un posticino a tempo che "prima o poi si stabilizza".
All'ingresso dell'Ottonero Garage, omaggio alla palla da biliardo portachiavi della prima Honda di Carlo Sanna, si presentano, nell'ordine, una fila di Vespe 50 rimesse a nuovo, un frigo bar Ichnusa con birra autoctona e tedesca, un tavolino con computer e, sopra due ponti, il telaio di una Honda 400 e una Lambretta in fase di restauro. Nel piazzale, appena fuori, una Gilera 124 con il serbatoio bianco e rosso, Lambrette e giapponesi, Suzuky e Yamaha, di trent'anni fa, trasformate in gioiellini custom: via la plastica e i pezzi tamarri per una nuova vita con serbatoi di pregio, forcelle e ammortizzatori ritarati.
«Dopo la laurea ho fatto pratica in alcuni studi legali - racconta Carlo Sanna, occhiali da avvocato e mani nere da meccanico - senza mai vedere una lira, secondo il principio che "non è la politica degli studi pagare i praticanti". Ho lavorato come interinale all'Inps, poi un periodo a Belfast per uno stage alla "Price water house Coopers", la Mc Donald della revisione contabile nel mondo. In realtà, avrei voluto fare il penalista ma non c'erano grandi prospettive. Ho portato la moto dal meccanico, mi ha chiesto un sacco di soldi e non me l'ha neanche aggiustata, allora ho pensato: "posso farlo da solo" e ho cominciato a trafficare sui motori. Il mio apprendistato - spiega divertito - è stato uno scambio di competenze. Per qualche tempo ho fatto da consulente legale al guru delle Lambrette, Giorgio Bertagnolli, il mago indiscusso delle due ruote a Cagliari, e lui mi ha insegnato qualche segreto per far rinascere una moto o uno scooter d'epoca, soprattutto degli anni '70 e '80. Il resto lo abbiamo appreso con lo studio. Non improvvisiamo nulla, impariamo dai manuali, facciamo ricerche in Internet, ci teniamo informati sulle tecniche e sui modelli che dobbiamo trasformare o recuperare».
Nella realtà, il destino della generazione precaria, è marchiato nel dna di un laureato di trent'anni. Carlo Sanna e Nicola Manai sono, a tutti gli effetti ancora "apprendisti" sotto la direzione di un maestro artigiano: diventeranno meccanici certificati fra tre anni, praticamente una laurea breve in alesaggio, saldatura e lamieristica. La burocrazia ha sempre un prezzo da imporre anche a chi ha talento e titolo di studio.
Presidente dello Scooter club Vespagang, area movimento Mods, Nicola Manai segue l'etica cinese del lavoro: otto ore di officina, otto ore dietro il bancone del pub, otto ore di riposo. Abbassata la saracinesca dell'Ottonero, si dirige, in Vespa, al "Vespaio", per vestire gli abiti del barman nel locale che gestisce al quartiere della Marina.
«Ho cominciato nel sommerso, aggiustando gratis lo scooter di qualche amico, poi si sparge la voce, aumentano le richieste e pensi sia venuto il momento di trasformare un hobby in un lavoro. L'incontro tra me e Carlo è stato quello tra un appassionato di Vespe e un'appassionato di moto, siamo complementari. Io, in particolare faccio il verniciatore, il lamierista e il saldatore. Appena finito l'università mi ero iscritto all'albo dei commercialisti per fare pratica. Ho cominciato in uno studio dove mi hanno messo, per nove ore, davanti a un computer a passare fatture. Naturalmente, per imparare non è prevsito compenso. Ho pensato: "Non è la mia vita" e ho deciso di investire nel garage. Abbiamo aperto da poco più di un mese e il lavoro non manca. Compriamo tutti i pezzi su internet, soprattutto da due rivenditori tedeschi, due fratelli di 30 anni, che ci forniscono i materiali originali: in cinque giorni i ricambi arrivano in Sardegna. Per le moto ci riforniamo quasi esclusivamente in Olanda e Gran Bretagna».
I prezzi di una moto o scooter d'annata restaurati, variano su una scala da duemila a settemila euro, fino a «uno sproposito», per i modelli più rari: è il costo di un amore che vive di passione: «Ho sempre amato le moto - confessa Carlo Sanna - e, devo ammetterlo, sono un feticista delle targhe. Per una motocicletta d'epoca targata Cagliari sono disposto a fare follie».

L’iraniana Ameneh Brahami accecato con l’acido rinuncia alla vendetta della legge del Taglione prdono vro o costretto ?

  Vero  prdono o  prono indotto  ?

Teheran 
La legge del taglione, quella del codice di Hammurabi, si sarebbe realizzata alla lettera oggi a Teheran, `occhio per occhio…´. Ma chi l’aveva invocata, una giovane donna, accecata 7 anni fa dall’uomo che aveva rifiutato di sposare, ha rinunciato all’ultimo minuto. «L’ho fatto per Dio, per me stessa, per il mio paese», ha spiegato. L’anestesia era già pronta, in ospedale: 5 gocce di acido nel destro, 5 nel sinistro, e la luce si sarebbe spenta per il resto dell’esistenza di Majid Mowahedi. L’uomo avrebbe scontato così la violenza brutale con la quale aggredì nel 2004 Ameneh Brahami, sfigurandola e accecandola (  foto  a  sinistra  )
 da un occhio con dell’acido lanciato in pieno volto. Della ricostruzione di quei momenti, resta nitido un dettaglio, che ha probabilmente contribuito a tener vivo l’odio per il carnefice: «rise in modo sprezzante, dopo avermi resa cieca», raccontò una volta la vittima, che ha scritto anche un libro con una casa editrice tedesca, `Occhio per occhio´.
La voglia di vendicarsi è cresciuta poi negli anni davanti allo specchio, che ogni giorno ha restituito ad Amene l’immagine della tortura subita. La donna, sfigurata, ha sostenuto fino all’ultimo minuto il suo diritto a vedere l’aggressore cieco a sua volta, dopo aver subito lo stesso trattamento. La `quisas´, un istituto giuridico della Sharia cui si ricorre molto raramente, le aveva consentito di assistere alla realizzazione della rappresaglia, per vie legali. E così si arriva ad oggi, il `gran giorno´. Ameneh Brahami si è recata dunque con una scorta in ospedale. «Quando mi ha vista – ha raccontato – mi ha insultato: tu vacca, tu vecchia zitella». Piangendo le anche ha detto: «Fra me e te non c’è alcuna differenza. Pagherai per quello che stai facendo».
E Ameneh ha reagito senza mostrare alcuna esitazione: «Pagherai prima tu però. Io pagherò dopo di te», come riferisce lo Spiegel Online. Affiancata dalla famiglia, la donna ha lasciato quindi che i medici preparassero anche l’anestesia per l’uomo, e li ha fermati solo all’ultimo minuto, annunciando all’avvocato di aver deciso di rinunciare all’esecuzione della sentenza. Majid a questo punto si è lanciato verso di lei, le ha baciato mani e piedi: «Poi mi ha detto, ti prego sposami. Voglio essere tuo servitore per sempre». Ma Ameneh non si è lasciata confondere: «Non fare scene adesso. Io non ti sposerò mai. Non l’ho fatto per te, l’ho fatto per me». «Ho preso questa decisione sette anni fa – ha raccontato poi – ma nessuno lo sapeva. «l’Ho fatto per diverse ragioni: per Dio, per me e per il mio paese».
«Tutti aspettavano di sapere cosa avremmo fatto qui». Il repentino cambiamento d’idea ha però destato qualche perplessità. Non è escluso che Ameneh, che tuttavia nega che ciò sia avvenuto, abbia subito delle pressioni dal regime, preoccupato di mostrare al mondo intero che ricorre ancora a sistemi medievali di giustizia. In passato anche diverse organizzazioni internazionali hanno premuto perché lei rivedesse la sua posizione. «Voleva assolutamente che la sentenza fosse eseguita», ha detto l’avvocato Ali Sharafi, mostrandosi stupito di un epilogo inatteso. La Bahrami non rinuncerà, però, al risarcimento in denaro, 150 mila euro che serviranno a un’operazione chirurgica per riappropriarsi del suo viso. «Non ho mai avuto intenzione di togliergli la vista. Ma ai soldi non rinuncio». E Mowahedi, in carcere da 7 anni, dovrà rimanervi finché non avrà pagato

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