sempre sullo stesso fatto
È spirata anche lei, alla vigilia del giorno della Madre, alla vigilia
della scuola. Reham aveva ventisei anni, era insegnante e s'è fermata
sulla soglia, in perenne attesa. Il suo cuore ha ceduto dopo la perdita
ancora senza giustizia del figlioletto Ali, 18 mesi, arso vivo in un
incendio causato da estremisti
israeliani. E ha seguito il marito Saad,
anch'egli deceduto pochi giorni fa per
le ustioni. Di questa famiglia, quasi una sacra rappresentazione
musulmana, non è rimasto più nulla. Peggio: è rimasto Ahmed, l'altro
figlio. Quattro anni gettati nel mondo. Quattro anni che ancora ignorano
di dover camminare da soli, e per quali vie. Le esistenze non sono
quadri, anche nell'orrore c'è sempre una sbavatura, un surplus di pena,
una vigilia di catastrofi, un bimbo solo. È soprattutto a lui che, ora,
il mondo deve stringersi. E far sì che la cenere del ricordo non divampi
nel fuoco dell'odio inestinguibile. Per contemplare, un domani,
quell'incompiuta Trinità in nome dell'amore, dignitoso e austero, che vi
traspariva. Non oso invocarlo, quell'amore. Nemmeno sperarlo. Non ne ho il diritto. Della distruzione di questa famiglia siamo davvero responsabili tutti. E non possiamo condannare la vendetta che s'invocherà. Ma dobbiamo, dobbiamo assolutamente garantire ad Ahmed di superare quella vigilia, d'entrare in una vita piena, innocente e gioiosa, d'innamorarsi, di completare l'opera iniziata dai genitori e dal fratellino. Altrimenti quell'immagine, già torta dalle fiamme, verrà completamente distrutta; si perderà, come tanti martiri, nel fumo oblioso del tempo, sconosciuta e dannata. Basta fissarla un attimo, e domandarsi: possiamo arrivare a questo punto?
© Daniela Tuscano
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