stanco delle solite tesi ultra retoriche , quasi vicino alla stucchevolezza , ed nazionalistiche che sfociano vedere le tesi di riportate qui su www.http://www.difesaonline.it o nel mio post precedente in tesi ultra revisioniste ( uso del revisionismo quando non è necessario perchè un evento è già stato svisceratoi ed analizzato in tutta la sua interezzza è non c'è più niee d'ìaggiungere \ rettificare ) lascio con ampio piacere la parola a questa intervista a
Paolo Rumiz torna nei luoghi di Caporetto a cento anni dalla disfatta dell'esercito italiano. "La strada di Rommel" è il racconto di quella battaglia vista dalla parte del vincitore. Il dvd del viaggio sarà in edicola dal 24 ottobre
da http://ilpiccolo.gelocal.it/italia-mondo/2017/10/21/news/
ROMA. Caporetto, 24 ottobre 1917. Le truppe tedesche infliggono la più grave sconfitta della storia all'esercito italiano. A guidarle c'è un non ancora 26enne Erwin Johannes Eugen Rommel, primo tenente del battaglione Fucilieri da montagna del Württenberg. La futura “Volpe del deserto” nazista racconterà le sue gesta più tardi, nel ’37, nel libro Fanteria all’attacco. Paolo Rumiz ha letto il testo e, a cento anni di distanza, ha ripercorso le orme del protagonista dello sfondamento austro-tedesco. E’ andato sui luoghi dell'offensiva , tra crinali, trincee, montagne: 2.500 metri di salita e 800 di discesa, da Tolmino fino alla vetta del Matajur, a quota 1.641. Ne è nato un documentario, La strada di Rommel, diretto da Alessandro Scillitani. Il dvd è in edicola da martedì 24 ottobre con i quotidiani locali del Gruppo Gedi.
Rumiz, ancora oggi Caporetto è la nostra sconfitta per antonomasia. Come è nata l'idea di raccontarla secondo l’ottica del vincitore tedesco?
«Intanto dal centenario. Lo sfondamento tedesco, la distrazione degli alti comandi italiani, il susseguirsi degli eventi, la ritirata disastrosa: tutto il quadro di insieme è stato mille volte studiato, mentre a me interessava fare la moviola delle prime ore, dei prime attimi, perché proprio i primi attimi hanno segnato questo evento ciclopico: non dimentichiamoci che è stata la più grande controffensiva della Prima guerra mondiale se si esclude il fronte russo. La capacità luciferina di Rommel di infilarsi ovunque meritava un racconto».
Qual è la stata la strategia dei vincitori?
«Rommel è un combattente di enorme modernità, i suoi movimenti anticipano la Seconda guerra mondiale. Capisce immediatamente che in una guerra che è stata sempre frontale tutto ciò che ti compare da dietro assume una dimensione irreale. I tedeschi che si materializzavano alle spalle erano visti come fantasmi dai nostri soldati. Quando le truppe italiane in prima linea vengono bombardate, Rommel sale immediatamente per il bosco ripidissimo con tutta la sua truppa di uomini allenatissimi, specializzati per la montagna, ed esce dal bosco cogliendo di sorpresa la seconda linea, facendo cadere ai nostri soldati le armi letteralmente di mano. In tedesco si dice “Auftragstaktik”, che significa: 1, meticolosa preparazione dell’azione militare; 2, fulminea esecuzione; 3, elasticità dei comandi».
Cosa l’ha colpita di più dalla lettura del testo di Rommel?
«Mi ha colpito il rapporto completamente diverso tra alti comandi e soldati italiani e alti comandi e soldati tedeschi: la differenza, ancora attuale, è che il soldato italiano non era invitato a pensare, doveva eseguire ciecamente, mentre anche l’ultimo dei tenenti tedeschi era autorizzato ad agire in autonomia, se questo permetteva di raggiungere l’obiettivo. Nell’esercito tedesco le fucilazioni sono state un decimo rispetto a quelle italiane, questo non significa solo che era più ubbidiente ma anche più motivato».
Scrive Rommel: “Ovunque notiamo un gran numero di italiani sbandati, che in gran parte vengono catturati”.
«Le truppe italiane andavano allo sbando là dove non c’erano i comandi. Rommel ha sempre avuto una triplice visione: italiani ottimi soldati, mediocri ufficiali e pessimi generali».
L’Italia non studia la geografia a scuola – annota Rommel – i tedeschi sì. Il non conoscere le mappe quanto ci ha penalizzato?
«Quando i tedeschi sono arrivati alla spicciolata nella valle dell’Isonzo e dintorni, la prima cosa che hanno fatto è stato un esame millimetrico del terreno, anfratto per anfratto, con aerei, con cannocchiali. Hanno rifatto, da capo a piedi, le mappe austro-ungariche, perché non si fidavano nemmeno degli austriaci loro alleati. Quando Carlo Emilio Gadda venne fatto prigioniero si rese conto che anche l’ultimo dei sottufficiali tedeschi aveva al collo una mappa a colori, mentre i soldati italiani spesso non sapevano nemmeno dove si trovavano. Per l’esercito italiano contava il numero, non la qualità. Di contro i tedeschi hanno messo in campo un esercito preparato».
Che cosa ha pensato mentre ripercorreva il cammino dei soldati?
«Ho capito molto il libro di Curzio Malaparte La rivolta dei santi maledetti, uscito la prima volta nel 1921 con il titolo Viva Caporetto!. Malaparte dice che i soldati italiani erano stanchi di una guerra insensata, con alti comandi lontanissimi e spesso incapaci, stanchi dei raccomandati e della propaganda inutile. Malaparte è l’antitesi di Gabriele D’Annunzio che mitizza la guerra. Malaparte se la prende con gli imboscati che campano sulla guerra senza farla. Mentre i tedeschi si succedevano in prima linea a intervalli regolari ed equi, da noi gli imboscati stavano sempre dietro e quelli che si facevano il mazzo stavano sempre avanti. È lo specchio dell’Italia di oggi che va avanti grazie alla buona volontà di chi fatica. Per questo Caporetto è così attuale: ancora oggi siamo un popolo mal rappresentato, tra chi ci comanda c’è una negativa selezione della specie. Il generale Badoglio fa una carriera fulminante nonostante gli errori di Caporetto, la sua ascesa continua col fascismo fino a diventare maresciallo d’Italia, questo perché Badoglio è un massone».
E Cadorna?
«Caporetto ha una doppia lettura: da una parte è tutta colpa di Cadorna, dall’altra è colpa degli italiani che non sanno combattere. Non è vero né l’una né l’altra. Cadorna fece molti errori, non capì come muoversi, ma a Caporetto aveva dato disposizioni per rafforzare le difese. Ha impedito che la ritirata fosse meno tragica di quanto avvenuto: ha dato ordini per consentire alla terza armata, quella del Carso, di ritirarsi in modo ordinato senza grandi perdite».
Nel suo viaggio, ha incontrato studenti in visita delle trincee, agriturismi sempre pieni, la casa-museo dove ha dormito Rommel: come le è sembrato questo turismo della “memoria” ?
«La memoria italiana a Caporetto è gestita molto meglio dagli sloveni che non dagli italiani. Dalla nostra parte hai poche e misere cose, cartelli che stanno cadendo a pezzi, invece in Slovenia, quel punto della valle trasuda un amore per il territorio e per la storia. Caporetto per gli sloveni è patrimonio e business, mentre da noi non se ne interessa nessuno. Sull’autostrada tra Gorizia e Monfalcone passa il fornte dove sono morti centinaia di uomini e non c’è nemmeno un cartello che lo dica. Vergognoso. Su quel tratto dell’Isonzo, il politico Zdravko Likar ha creato un’aurea leggendaria intorno alla valle, attirando un sacco di visitatori. Il museo di Caporetto creato da lui è uno dei più belli sulla Grande guerra ed è un atto di fede per l'Europa. Lì un italiano che pure ha perso in quell’offensiva sente raccontare le storie dei suoi soldati con più emozione che non in Italia».
Qual è l’immagine più forte che le resta di questo suo viaggio tra presente e passato?
«L’eternità dell’Isonzo. Questo fiume, fra i più belli e limpidi d’Europa, continua a scorrere, materno e tranquillo, con l’indifferenza dei millenni di fronte alle tragedie umane».
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
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