L'incontro tra Isak e la mamma di Kelvin, il bimbo ferito a Torino

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TORINO. «Grazie, hai salvato il mio Kelvin». «No. Non lo dire. Ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque. Non sono un eroe». Il mondo in un corridoio d’ospedale. Ling Quinquang e Isak Nokho. L’abbraccio inespresso. Lui vorrebbe stringerla, il Ramadan glielo impedisce. Allunga una mano: è venuto apposta da Fucecchio per questo. Lei è timida. Chissà come si esprime la gratitudine a un uomo che ha salvato la vita a tuo figlio di 7 anni. Isak si è trasformato in uno scudo, sabato sera, mentre una folla impazzita fuggiva a piedi nudi da piazza San Carlo , fra i vetri e il sangue, lontano da una finale di calcio trasformata in un carnaio.All’ospedale Regina Margherita, lunedì pomeriggio, Ling osserva quell’uomo riservato, venuto dalla Toscana, che per il suo Kelvin è stato scudo umano. Di più: un grembo. Isak ha risposto al suo appello di riconoscenza. E pensa che senza quel guscio, oggi il suo bambino non si sarebbe svegliato dal coma. Non avrebbe difficoltà a parlare per colpa dei tubi e del polmone schiacciato. Non parlerebbe proprio, dopo essere stato calpestato da centinaia di piedi in fuga. Quello, però, è un passato remoto, anche se appartiene appena a 45 ore fa. Ora, mamma e amico sono uno davanti all’altro. Ling indossa gonna e camicetta beige, giubbottino bianco. Un caschetto castano scuro incornicia un volto segnato dalla sofferenza. Tiene stretto il cellulare, mostrando a tutti le foto del suo tesoro. Isak è in jeans, maglietta nera, come un qualsiasi ragazzo di 23 anni. Ling è nata in Cina, ma vive a Torino. Isak è nato in Senegal, ma abita a Fucecchio, cuore della Toscana. Il primo contatto è intorno a una maglia della Juve, versione baby, sporca di sangue. Isak l’aveva raccolta nella confusione, convinto che fosse di Kelvin: nella fuga di massa, tutti perdevano tutto.

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ISAK COME UNO SCUDO UMANO
Isak non dimentica. Sabato sera, chi cade viene travolto. Il delirio collettivo travolge tutto. Ma non la voglia di aiutare gli altri. In mezzo a un fiume di sangue, alle grida, si fa largo l'umanità di tanti anche di Isak. Che con un altro ragazzo di colore - Mohamed, intervistato da Pomeriggio Cinque - salva il bambino. Lui coprendolo con il suo corpo, l’altro strappandolo, ormai incosciente, alla furia della folla. «Ho visto molte persone una sopra all'altra - racconta Isak emozionato a Ling - c'era anche un bambino, che poi ho capito essere Kelvin. Lì in mezzo c'era anche un mio amico, che stava per svenire. Non respirava». E così Isak ha la freddezza di piazzarsi a due passi da loro, coi suoi 195 centimetri di altezza. Lui e altri due angeli si mettono uno accanto all'altro, abbracciandosi, in modo da creare un “muro” umano per evitare che altri tifosi in fuga schiacciassero quelli che erano già distesi per terra. Kelvin compreso, che è sepolto davanti agli occhi disperati della sorella. Ma lo scudo funziona.
Isak Nokho schiaffeggia il suo amico Benito Lombardo, anche lui di Fucecchio, che si riprende, anche se è ferito. Il 23enne resta lì «fino a quando ho visto che altre persone si stavano occupando di Kelvin». Infatti c'è Mohamed che lo trascina via. Il piccolo è in coma, nella calca ha rimediato vari traumi e lo schiacciamento di un polmone. Isak, quando legge su Internet che il bambino è grave, vuole andare a Torino, per fare coraggio ai genitori e alla sorella. Il giorno prima ha raccontato il suo dramma proprio Il Tirreno. Omettendo, per pudore, i particolari su Kelvin. «Non riesco a dormire, aiutatemi. Devo fare qualcosa per quella famiglia. Vorrei andare a trovarli».

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DA FUCECCHIO ALL'OSPEDALE DI TORINO: IL VIAGGIO CON IL TIRRENO
Così Il Tirreno organizza il viaggio. Quando arriva all'appuntamento, in piazza XX Settembre, a Fucecchio, è imbarazzato ed emozionato. Ha chiesto un permesso al Ciaf di Fucecchio, un centro per l’infanzia dove svolge il servizio civile: «Non cerco pubblicità. Avrei preferito rimanere anonimo. Ma non posso sentirmi in pace finché non so che quel bambino si è ripreso». E allora vale la pena di rifare quei 400 chilometri che sabato l'hanno proiettato in un incubo: «Non sapevo neanche se andare a vedere la partita al maxi-schermo. Benito ha insistito, io sono protettivo e non volevo lasciarlo da solo. Così sono andato».
Lunedì però la destinazione è l'ospedale Regina Margherita. Durante il viaggio Isak cerca di riposare, ma non ci riesce. Il cuore batte forte. Ha bisogno di una voce piena d'amore, che lo incoraggi. Telefona alla mamma in Senegal, le racconta tutto.

Iask e la mamma di Kelvin in ospedale
Iask e la mamma di Kelvin in ospedale

oL'INCONTRO CON LA MAMMA DI KELVIN
All'arrivo a Torino, alle 19 passate da una manciata di minuti, ad attenderlo, c’è un’altra mamma che pochi minuti prima ha visto suo figlio sveglio. «Hai fatto una cosa straordinaria - gli dice Ling - tu come altri che mi hanno raccontato ciò che è accaduto e che sono venuti a trovarmi. Tu l'hai protetto, l'altro l'ha tirato fuori. Se Kelvin è vivo è merito di tutti voi». Ma Ma niente abbracci. Il Ramadan li vieta: «Avrei voluto, eccome, ma non posso».Isak è molto religioso e proprio nella spiritualità ha trovato la forza di opporsi alla folla di piazza: «Avrei dato la mia vita. Gridavo con tutta la forza che ho in corpo che non c'era alcun attentato. In quei momenti agisci col cuore, perché il cervello non funziona. Io sono adulto e quelle scene non riesco a cancellarle. In questi giorni ho sperato di risvegliarmi da un brutto sogno. Figuratevi i bimbi che cresceranno con quelle immagini nella testa». Ling lo ascolta, continua a ringraziarlo. Guarda la maglia sporca di sangue che gli ha consegnato Isak. «L'ho trovata accanto a Kelvin», le dice. Lei avverte: «Non è di mio figlio». Poco importa, resta il simbolo di questa storia: «Gliela darò, raccontandogli di te. Lasciami il tuo numero, ti chiamerà appena starà meglio. Ora è intubato, non riesce a parlare. Ma lo farà presto. Anche con te, Isak». Un'altra stretta di mano, un altro grazie. Si risale in auto, verso Fucecchio: «Ora sì, ragazzi. Sono felice».
 




abbracci. Il Ramadan li vieta: «Avrei voluto, eccome, ma non posso».».

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