Dieci anni fa moriva a Milano Fabrizio De André. Ripropongo qui sotto il ricordo che scrissi allora per l'occasione, consapevole che uno come lui, di là da ogni retorica, ci accompagnerà lieve e silente per tutto il migrare dei giorni.
Fabrizio De André ci ha lasciati con una sensazione di levità, di dolcezza, di gentilezza. Di famiglia. Perché Fabrizio era la famiglia.
La sua certamente, innanzi tutto. Così presente, e nello stesso tempo così discreta. Così, direi, patriarcale. Con Fabrizio De André non occorrevano molte parole, bastava uno sguardo, un sorriso, un cenno. Il resto era tutto lì, nella secolare saggezza genovese, nei labirinti di una città arcana, obliqua, imprendibile, nel sontuoso (e talora scostante) scarlatto dei palazzi patrizi come nei recessi dei carruggi. Era lì che il giovane Fabrizio fuggiva, o forse si rifugiava, per cogliere il senso vero della vita. E lo trovava fra le pieghe graziose di una ragazzina di strada, nell’allegria insensata di una pazza, nel sorriso storto di un mendicante. Gente nuda. E la gente nuda, si sa, non ha confini né nazione, è apolide per sua natura. Perché è universale, umanità nella sua scaturigine, primavera di creazione. Dappertutto sempre uguale, dappertutto diversa, respinta come diversa. Quanto doveva sembrare limitante, a De André, la gente “perbene”. Poco interessante. Inutile. Di loro non c’era nulla da dire perché nulla manifestavano. Erano, al più, voci, o meglio, dicerie. Suoni senza eco inghiottiti dal vento salmastro. A De André, invece, interessavano i corpi, e il suo compito era quello di tradurre in musica – la più ineffabile delle arti – il linguaggio inarticolato ma vivo di quella gente nuda.
Infatti uno dei suoi capolavori era La buona novella (anche se io l'ho scoperto e amato con Amore che vieni amore che vai, cfr. il sottostante video). Il paesaggio immoto e senza tempo della Palestina non poteva costituire sfondo migliore per dipingere la sua umanità nuda, scarnificata come il Forese dantesco.
“Non voglio pensarti figlio di Dio, ma figlio degli uomini, fratello anche mio”, è il verso che conclude il suo lavoro. Un incontro che, in apparenza, non avviene. De André, alla fine del viaggio, non incontra Cristo. Ma gli basta Gesù: “Non voglio pensarti figlio di Dio”, perché non sei, non ti voglio lontano da questa umanità nuda. Non sei che l’umanità vera, perfetta perché dolente, ingenua, maltrattata, umiliata, sciocca. Sciocca e ingenua come solo i profeti, e i bambini, sanno essere.
Cosa importa se l’uomo Gesù ha sbagliato? Ciò che conta è che ci sia stato, qui, su questa terra. E che questa terra lo abbia partorito, questo è già, comunque, motivo di speranza, ed è uno sguardo sull’infinito, consapevole o meno che sia. Tanto più inconsapevole quanto più vero. L’unica certezza, per De André, era la vita stessa, il respiro, il soffio. In questa sua attenzione, in questo profondo rispetto per l’individuo terreno si trovano i germi della spiritualità. Attraverso i “suoi” poveri, il borghese De André ha compiuto un cammino a ritroso alle origini di sé. Si è denudato con loro. Sapeva ascoltare, De André. Ecco perché i suoi dischi uscivano con parsimonia, quella parsimonia ligure che sembra scontrosità ed è invece solo meditazione. Fabrizio era così profondamente genovese, ma anche tanto saggiamente zen. Così sensualmente persiano. Così stupito e fiducioso come un bimbo.
Ci ha lasciati con un disco, Anime salve. Ancora una volta gli amatissimi “poveri”, tra cui spicca la transessuale Princesa. Ancora una volta, dantesco. Il cammino di De André si è concluso perché, come Dante, ha avuto il privilegio di percorrere da vivo non l’Inferno, che per Fabrizio non esiste, ma quel Purgatorio che, nella sua intimità, è il regno della speranza, di quelle anime elette (“O ben finiti, spiriti già eletti”, Purg. III) in attesa del definitivo ritorno a casa. Ecco perché De André era famiglia. Perché è stato veramente il padre (soprattutto), il fratello, l’amico, l’amante di tutti e di ognuno. E a tutti e a ognuno si è donato con la sua nudità di uomo e di poeta. Fabrizio De André era il cantore del già e non ancora, l’unico modo di assaporare l’eternità concesso a noi mortali. L’amore, invece, è inesprimibile. Fabrizio non aveva più bisogno di sperare. La speranza termina quando sopraggiunge l’amore. E l’amore non ha più bisogno di parole né di musica, perché basta a sé stesso.
Daniela Tuscano (pubblicato anche su MenteCritica )
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