18.1.09

La crisi di Giulio

Le cose cominciarono ad andar male. All'inizio Giulio pensava che andassero male per tutti. Ne parlavano in giro, la "crisi" dicevano. E in effetti la crisi c'era, la sentivi nell'aria, lo vedevi al supermercato quando col tuo stipendio non riuscivi che a comprare l'indispensabile, lo capivi dalle pubblicità, quelle che ti facevano sembrare il prestito la scelta più giusta da fare quando invece sapevi benissimo che era solo ua stronzata, lo capivi dagli sguardi di solidarietà della gente, quella in fila alla posta, quella che attraversava a piedi la strada, quella che gremiva le chiese. C'era crisi ma si sopportava, era un male condiviso e stranamente se sono in tanti a soffrire della stessa pena uno si abitua a pensare che in fondo non sta così male. Invece a Giulio andò che un giorno, oltre a dover convivere con la crisi (come tutti), beh, un giorno Giulio diede di matto. In realtà non è che impazzì davvero ma a tutti sembrò così, e si sa se tutti pensano una cosa meno che uno, anche se quell'unica persona dice il vero non c'è ragionevole dubbio che tenga, i "tutti" avranno la meglio e nella storia, noi posteri, diremo: un giorno Giulio diede di matto.
C'era la crisi e la crisi piano piano crea silenzio, tanto silenzio. A volte Giulio scendeva in strada a passeggiare un po' e si rendeva conto che nessuno aveva più voglia di stare in giro. Risparmiavano, anche sui passi. Giulio però non ci stava, non voleva arrendersi alla crisi. Giulio arrotolò con le mani la carta del fornaio, quella stessa carta in cui erano state avvolte le sue due ciabattine di semola, la arrotolò a mo' di megafono. Uscì per strada e, parlando nel megafono, attento a non strozzarsi con qualche briciola sopravvissuta alla sua fame, invitò i suoi compaesani ad uscire dalle case, li invitò a partecipare a una specie di festa in strada. Da principio non ricevette risposta poi qualcuno si degnò di mettere dei passi fino alla finestra e, chi in malo modo chi più gentilmente ma con aria scostante, declinarono tutti l'invito. Sconsolato Giulio torno a casa. Mentre avanzava nell'ingresso udì il trillo fastidioso e insistente del telefono. Andò a rispondere con l'espressione stanca. Si sentiva tradito dal paese, dalla gente con cui fino a quel giorno aveva condiviso sorrisi, giornate, cene e banchetti. L'avevano preso a persiane in faccia.
"Pronto?"
Dall'altra parte del telefono Giulio distinse chiaramente un singulto.
"Giu..Giuu..Giuulioo, scusami se ti disturbo a quest'ora..."
"..."
Giulio non aveva ancora ben chiaro con chi stava parlando, aveva solo capito che era il preambolo ad una cattiva notizia.
"Giulio, sono la zia... ascolta, non esiste un modo migliore per dirlo... zio è morto. "
SDENG. Giulio percepì nella testa il suono metallico equivalente a quello di una badilata e si sedette tramortito in terra. Aveva ancora l'orecchio attaccato al ricevitore del telefono quando si rese conto che la zia continuava a parlare.
"Zia, zia, scusa... mi dispiace, ma come... stai?" Per un attimo si stava lasciando sfuggire un 'Come è successo?' ma mentre lo pronunciava si sentì un verme, uno di quelli cresciuti con Porta a Porta e la fastidiosa voce di Vespa che nelle orecchie ripeteva: "Sì, ma quanti morti? Quanti feriti? Cosa è accaduto?". Decisamente indelicato. La zia naturalmente riprese a parlare, sembrava un fiume, sembrava che nessuno glel'avesse chiesto prima di suo nipote. Le parole galoppavano, l'una dietro all'altra, veloci, precise, ordinate, sembrava che stesse leggendo invece si sfogava. E Giulio reggeva l'urto della sofferenza altrui, pazientemente, quasi fosse la sua vocazione, ascoltava. Avrebbe voluto fare di più ma in gola sentiva crescere un groppo che gli impediva di deglutire senza provare una fitta allo stomaco. Sentiva il magone allargarsi a tutta la pancia, crescergli dentro e poi salire su fino a condensarsi in pesanti lacrime. Gli restarono sull'uscio degli occhi, non vennero giù, almeno quel giorno, se ne restarono lì a rammentargli che le cose non andavano bene. Quando chiuse quella strana telefonata senza saper cosa dire, senza aver il coraggio di riattaccare per primo, si accasciò. Perse tutte le forze.

Mi girava la testa, con gli occhi lucidi continuavo a cercare di mettere a fuoco le mani che si tormentavano cercando una risposta. La risposta al perché tutto mi andasse così male, la risposta al perché proprio a me, la risposta alla tristezza, al senso di colpa che provavo nell'esatto istante in cui pensavo alla mia tristezza e non a quella della zia, la risposta ai miei stentati tentativi di dialogo al telefono. La testa si faceva sempre più pesante e avevo bisogno di respirare a pieni polmoni. Così uscii in strada e una volta in strada sentii chiara la necessità di correre e mentre correvo mi fu immediato chiudere gli occhi, allargare le braccia e lasciare che dalla mia bocca uscisse un suono rauco e persistente. Continuai a urlare con la stessa intensità per tutta la mia corsa, anche quando incespicavo, anche quando andai a sbattere contro il lampione, anche allora, non mi fermai che un attimo per accorgermi che piangevo e ripresi a fuggire dalle responsabilità, dalla crisi, dalle crisi.

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