Filosofia come compagna di vita, come narrazione di se' e non solo del Se', come autobiografia, occasione per raccontarsi, romanzarsi, "poetarsi": questo il filo portante del lavoro di Cristian Porcino, intitolato "Pensiero riflesso".
Cioè in vista, confessione scagliata e vibrante, carnale, esplicitata quasi con impudicizia. Urlo di rabbia, anche. Idea non nuova, anzi inserita nel solco della grande tradizione filosofica. Siamo noi contemporanei ad aver confinato la filosofia fra le materie astratte, o forse aride, e in una forma espressiva - quella saggistica - che richiama a un periodare pedante, scolastico e impersonale. Occorre ricordare che per gli antichi era tutto l'opposto? Che Socrate aveva appreso l'arte fra le braccia di Diotima e che i suoi trattati portavano il nome dei suoi allievi? Erano innanzi tutto dialoghi, fra un triclinio e un sospiro di passione. Perché la filosofia è spirito; quindi materia. Rinnova la materia. Non v'è separazione fra i due, ma nobilitazione della seconda grazie alla prima. E per questo Porcino riesce a intessere un inno alla vita malgrado gli schiaffi ricevuti, la considerazione che, in un mondo come l'attuale, il pensiero autentico, composito, "riflesso" (sincero) non solo non è apprezzato ma osteggiato. Si prediligono i tuttologi, che in realtà non dicono nulla, i raccomandati, i salumieri dell'affabulazione. Porcino esordisce con una silloge poetica assai pregevole (a mio parere, la parte migliore del libro) con echi vagamente ungarettiani (da "Sentimento del tempo") dal punto di vista stilistico e tributario, nei contenuti, di Bukowski e Busi. In verità, non ne possiede il disincanto e il cinismo, semmai la dolente passione. Tra le composizioni più riuscite primeggiano "Chi salverà il mondo" e "I maestri dell'esistere" (e tra questi ultimi figurano anche maestre donne, finalmente!), "O-Dio" e la catulliana "Amo e Odio" dove lo scrittore reclama una fede che non ha trovato, ma che gli spetta, in certo senso, di diritto: la fede nell'umano, la speranza. Il discorso prosegue nel suo secondo volume, "Tutta colpa del whisky": in esso Porcino rivendica un sapere "aristocratico" (nel senso etimologico di migliore) che non può essere per la massa, ma per chi riesce a indagarne e apprezzarne la profonda poliedricità (di qui un ironico, ma non troppo, "Elogio del lei" da contrapporre a un tu non più sinonimo di eguaglianza e comunione, ma d'omologazione dozzinale). Un folle, ma non per le folle, come sottolinea in un altro passo. Non è facile uscire dalla spersonalizzazione della società post-consumistica, che dona solo l'illusione di potersi esprimere liberamente, e che invece - lo ha sottolineato di recente Umberto Eco - permette a qualsiasi imbecille di sentirsi un "maître-a-penser". Chi invece orienta la cosiddetta opinione pubblica, e i gusti artistico-letterari, sono sempre roccaforti (fili spinati?) di baroni ben decisi a difendere la loro inespugnabilità. Cristian prova a fendere alcune sane "picconate" col "whisky" del suo sapere, genuino ed entusiasta, col nerbo d'un giovane che malgrado le ferite non è disposto a lasciarsi domare, e spazia dal card. Martini a De Crescenzo ai grandi filosofi orientali - anche in tal senso, la consapevolezza che la Sofia vive pure nell'altra sponda del Mediterraneo, non solo tra le nebbie del Nord o in un malinteso neoclassicismo -. Del resto, Cristian è siciliano: e nessuno sfugge alle proprie radici.
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