Strage di Cisterna, le parole di Antonietta: "L'odio e il rancore non hanno vinto. La mia vita è un miracolo"., Milano, aggredita in metro perché portava il velo: la storia di Houda, tra razzismo e solidarietà., ed altre storie


Strage di Cisterna, le parole di Antonietta: "L'odio e il rancore non hanno vinto. La mia vita è un miracolo"




Il messaggio alla comunità carismatica "Gesù è risorto". La donna era stata ferita dal marito, che dopo aver ucciso le loro due figlie, si era tolto la vita

                            di FLAMINIA SAVELLI



Ha rotto il muro del silenzio Antonietta Gargiulo, ferita da tre colpi di pistola lo scorso 28 febbraio dal marito, Luigi Capasso. Il carabiniere che dopo averle sparato al viso, alla spalla e all'addome poi si è barricato nel loro appartamento di Cisterna di Latina e dopo aver sparato alle due figlie di 7 e 13 anni si è ucciso.
La donna dopo un lungo ricovero all'ospedale San Camillo di Roma è stata trasferita in un centro di recupero vicino Napoli. Sono stati i familiari, una volta risvegliata dal coma, a darle la terribile notizia sulla morte delle figlie.Strage di Cisterna di Latina, il messaggio di Antonietta: "La mia vita è un miracolo"


Parla dunque per la prima volta dopo quel terribile giorno. Affidando la sua voce alla pagina ufficiale della comunità dei carismatici "Comunità Gesù risorto". Un audio in cui spende parole di perdono e ringraziamento: "Ciao a tutti cari fratelli, sono Antonietta e oggi voglio ringraziare ognuno di voi per le preghiere e per l'amore. La mia vita oggi qui è un miracolo e ringrazio Dio ogni istante.Il vero miracolo, ancora, è l'amore che ha circondato me soprattutto le mie bambine. Il vero miracolo, è che l'odio, il male e il rancore non hanno vinto nei nostri cuori. Ma regna un senso di pace, pietà e misericordia. Regna l'amore che sta estendendo a cerchi concentrici come da una goccia e sta arrivando lontano".
Il messaggio si conclude con un ringraziamento a tutti coloro che hanno pregato per la sua famiglia e l'invito a partecipare al convegno di pregare in calendario alla fine del mese



Milano, aggredita in metro perché portava il velo: la storia di Houda, tra razzismo e solidarietà


In un lungo post sul suo profilo Facebook una studentessa universitaria di 20 anni, nata in Marocco e da 17 anni in Italia, ha raccontato gli attimi di terrore vissuti alla fermata della metropolitana di Porta Garibaldi e ha ringraziato i tanti che l'hanno aiutata




Una mattinata di un venerdì come tanti altri, alla stazione della metropolitana di Porta Garibaldi a Milano. Houda ha 22 anni, è marocchina, vive da 17 anni in un paesino in provincia di Varese. E' una di quel milione di giovani italiani di seconda generazione che lo scorso 4 marzo non hanno potuto votare, perché senza cittadinanza.
Come ogni giorno ha preso il treno che da Travedona Monate arriva a Porta Garibaldi ed è scesa ad attendere la Metro 2 per andare in università, alla Statale, dove studia giurisprudenza. Ha lezione alle 8 e 30. Rischia di arrivare in ritardo, sono le 8 e 17. E' questione di un attimo: il treno sta arrivando, Houda si sente spingere. Sbatte contro la porta del convoglio, ancora in movimento. Si riprende, si guarda in giro, vede l'uomo che l'ha aggredita. E che additandola continua a minacciarla...
Il racconto di Houda, postato sulla sua pagina Facebook, comincia qui: ed è il racconto della paura che inizialmente la immobilizza, dell'odio cieco che muove il suo assalitore nei confronti del colore della sua pelle e di quel suo velo rosa confetto, ma anche e sopratutto della solidarietà della gente che la circonda e la protegge su quel treno.


Houda Latrech
6 aprile alle ore 21:346 Aprile 2018, ore 8.17 metro linea 2, fermata di Milano Porta Garibaldi, interconnessione con metropolitana numero 5, e con treni S3, S4, S5, treno diretto ad Abbiate Grasso, ferma in tutte le stazioni.
Ore 8.17, sono agitata, stanca e nervosa, svegliarsi alle 6 del mattino per andare in università, passare più di un’ora in un treno affollato, in ritardo. Ho lezione alle 8.30, accelero i passi, cerco di salire sul primo convoglio che passa per arrivare in tempo. Odio arrivare in ritardo. Ore 8.17, qualcuno mi spinge, mi si gela il sangue nelle vene, mentre temo di finire contro il treno in movimento, riprendendo l’equilibrio mi giro a guardare chi abbia potuto fare questo, un uomo mi osserva con uno sguardo di folle lucidità, mi addita, e comincia a inveire contro di me. Tremo di terrore, non so cosa fare, il panico sale inaspettato e io che sono sempre forte, sempre sicura di me stessa, io che so resistere alla tempesta mi trovo in un attimo travolta da essa. Fai qualcosa, fai qualcosa mi ripetevo incessantemente, senza riuscire a muovere un muscolo. Fai qualcosa, mentre sentivo le ossa gelare e paralizzarsi, un dolore salire dal profondo e infiammare tutti i miei capillari. Ore 8.17, cerco di non piangere, cerco di coprirmi le orecchie, di confondermi con la massa, mentre mi investe la bufera. Ore 8.17, fisso il vuoto cercando di allontanarmi dall’uomo, che non si ferma un attimo, continua a urlare, alzare le mani, mentre frasi sconnesse continuano a fuoriuscire dalla sua bocca, mi intima di tornare a casa, mi accusa di essere un’assassina, mi accusa di violenza, mi minaccia, cerca di raggiungermi mentre mi faccio più piccola pur essendo appariscente nel mio metro e settanta. Ore 8.17 sento un nodo alla gola formarsi e stringere sempre di più, io che parlo sempre senza freno, non ho più la capacità di esprimere nessun verso, investita da quella violenza inaudita, da quella rabbia cieca. Ore 8.17 cerco di essere razionale, non mi succederà niente, sono circondata da persone, se mi allontano piano dalla porta della metro dove mi continua a spingere, se mi posiziono tra le altre persone, se mi faccio proteggere, se scompaio. Non riesco più a trattenermi, ma non gli darò la soddisfazione di vedermi piangere, lo so, in fondo al mio cuore, so che non cederò. E così sorrido, gli sorrido, lo guardo negli occhi e sorrido. Il mio sorriso sembra scatenare la solidarietà delle persone che ho accanto, l’uomo davanti a me mi dice di ignorarlo, si sente in dovere di scusarsi, mi dice che anche noi italiani eravamo discriminati, che in America ci chiamano mafiosi, che la ruota gira per tutti. Ma non voglio essere un raggio di questa ruota, lo ringrazio di cuore, gli stringo la mano, mentre le lacrime cominciano a scendere, calde sulle mie guance, deve scendere, si scusa ancora un’altra volta, e io perdo la mia barriera, l’uomo è davanti a me direttamente, senza nessuna protezione, avanza minacciosamente, il panico si impossessa del mio corpo, raggela tutte le mie vene, mi farà del male, le sue parole sono sempre più minacciose, dovete morire tutti, dice e sembra pronto ad attuare il suo piano. Piango, ormai e retrocedo, ferita nel profondo, una ferita che ormai sarà indelebile,inguaribile.
[... continua  qui  https://bit.ly/2Eufkgs  sullla  sua bacheca    ]
Abbiamo sentito Houda. Ha scritto questo post perché, spiega, "non riuscivo a tenermelo dentro". Non per alimentare le paure, né per sottolineare le discriminazioni che pur ha già
 vissuto nella sua giovane vita ("Mai così, però"). Solo per scrivere, "perché a me piace scrivere", di solidarietà."Non ho paura perché ho capito che ci sarà sempre chi mi aiuterà", si legge nelle ultime righe del suo post, "perché finché ci saranno più persone da ringraziare che da incolpare so che andrà tutto bene, e che sono ancora a casa". 

l'ultima  storia   è  questa  

Riccione, in classe c'è un bimbo con l'epilessia: ogni compagno ha un ruolo per le emergenze
Il piccolo ha 9 anni: la maestra ha spiegato ai suoi amici come rendersi utili in caso di crisi


Riccione, in classe c'è un bimbo con l'epilessia: ogni compagno ha un ruolo per le emergenze


RICCIONE - C'è un bambino di 9 anni che ha l'epilessia. E compagni di classe pronti a soccorrerlo quando lui ne ha più bisogno, perché la maestra ha spiegato loro cosa sia questo problema di salute, che conseguenze e che manifestazioni abbia, e come occorra intervenire, con lucidità e rapidità. E' stata la mamma del bambino a raccontare in una lunga lettera su un gruppo Facebook come l'insegnante abbia deciso di rendere ciascun compagno di classe consapevole di poter essere d'aiuto: ha affidato a ciascuno di loro un ruolo, nel caso il loro amico abbia una crisi in classe. I genitori del piccolo hanno scoperto quel foglio di istruzioni quasi per caso, andando ai colloqui.


Se il ruolo di regista dei soccorsi spetta ovviamente all'insegnante, c'è




"chi prende il farmaco..chi avverte i bidelli...chi prende dall'armadietto il cuscino", ed è prevista persino una turnazione degli incarichi, mese per mese, e sostituti, perché non manchi mai sostegno al bambino. In questo modo, spiega la madre, i suoi compagni si preparano "ad essere utili e a reagire in caso di necessità. Io mi sono fortemente commossa", scrive. "La maestra ha compiuto un gesto di estrema importanza perché li ha resi partecipi e preparati per una cosa importantissima: Aiutare. Questo è un grande insegnamento di solidarietà. Questi bambini un giorno per strada si fermeranno ad aiutare chi ha bisogno e non si volteranno dall' altra parte! Io ho il magone in gola perché so che in classe non vedono l'ora di avere il nome scritto lì sopra. Noi famigliari insegnamo a casa certi valori e principi ma poi è di fondamentale importanza che anche la società
segua un certo percorso. Questo foglio per me è la Vita, è amore per il prossimo", scrive a caratteri cubitali, "è altruismo. Quando una maestra può fare un enorme differenza. Mio figlio sta vivendo tranquillo non solo per noi a casa che cerchiamo di fare un cammino amorevole ma anche perché ha risposte così meravigliose dall' esterno ma che è sempre un ambiente dove vive. Grazie è poco maestra Elena Cecchini".

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