31.7.22

certa gente pensa solo al denaro ed all'immagine che alle persone con problemi di disabilità le pressioni a L'eco di barbagia che denuncia con un filmato la difficoltà dei disabili di accede alle spiagge

foto   simbolo

 certa  gente   pensa  più  al  denaro   e  al marketing     che alle  persone in  difficoltà  . infatti   leggete  qua 


lui  non si è perso  d'animo   e  va  avanti. 

Va a vivere con un uomo di colore senza l'approvazione del padre: dopo 70 anni, sono ancora felicemente sposati

leggo ieri o avant'ieri   su  facebook quyesta    storia.


 

 Suo padre le disse: "Se sposi quell'uomo, non metterai mai più piede in questa casa. "Mary apprese presto che la maggior parte delle persone provava lo stesso. I primi anni del loro matrimonio vissuti a Birmingham furono un inferno, nessuno voleva parlare con loro, non trovavano un posto dove vivere perché nessuno avrebbe affittato a un nero e non avevano soldi.
Ma non si sono arresi.Gradualmente la vita diventò più facile. Mary ottenne un lavoro da insegnante, finendo come vicepreside. Jake trovò lavoro in una fabbrica e poi di seguito in un ufficio postale. Piano piano si fecero degli amici, ma non fu facile. Mary diceva alla gente: "prima di invitarvi a casa mia.... devo dirvi che mio marito è nero. " Alcuni non le parlarono mai più.L'anno scorso hanno festeggiato il 70° anniversario e sono ancora molto innamorati, e non si sono mai pentiti di quello che hanno fatto.

-- Autore sconosciuto



Credendo si tratti delle  solite  bufale   o leggende  mentrepolitane    ho fatto delle  ricerche  ed  ho  trovato questo  è del 2021  

https://www.guardachevideo.it/video/36539/va-a-vivere-con-un-uomo-di-colore-senza-l-approvazione-del-padre:-dopo-70-anni-sono-ancora-felicemente-sposati

Ci credereste mai se vi dicessimo che l'amore è un sentimento talmente forte che, se onesto e sincero, è capace di travalicare ogni difficoltà, ogni montagna che sembra inizialmente impossibile da superare, ogni ostacolo? Un sentimento così vero e così puro ha la straordinaria capacità anche di poter unire due cuori in uno solo, due cuori che appartengono a due persone che si trovano a chilometri e chilometri di distanza geografica, ma che battono all'unisono l'uno per l'altro.

Questa è la commovente storia di Mary e Jake Jacobs, una coppia che è sposata da oltre settant'anni coronando un sogno che nei decenni passati gli era stato negato più e più volte da amici e parenti. Mary era nata e viveva in Inghilterra, mentre Jake era originario di Trinidad, nel Centro America, e si sono conosciuti per la prima volta durante gli anni '40, quando lui prestava servizio militare in territorio britannico durante la Seconda Guerra Mondiale.

Di quel periodo, Mary Jacobs ha raccontato: "Eravamo nello stesso istituto tecnico. Stavo prendendo lezioni di dattilografia e stenografia e lui era stato mandato lì per l'addestramento dall'Air Force americana. Era con un gruppo di amici neri e inizialmente hanno chiamato me e la mia  amica per parlare con loro. Non sapevamo nemmeno che parlassero la lingua inglese, ma alla fine io e Jake abbiamo chiacchierato; lui per conquistarmi mi citava Shakespeare, cosa che ho adorato!"

Le settimane passavano, e Jake e Mary iniziarono a frequentarsi in maniera sempre più seria, fino a quando però una donna che passava vicino ad un parco mentre stavano facendo un picnic ha segnalato al padre di Mary che sua figlia stava frequentando un nero: "Due ragazze inglesi con un gruppo di uomini di colore erano un'immagine molto scioccante per il periodo, così lei mi ha segnalato a mio padre, che mi ha vietato di vederlo di nuovo."Una volta che la guerra era finita, Jake tornò a Trinidad e per tantissimi anni non poté più vedere la sua amata Mary, ma si scambiavano quando potevano delle bellissime lettere d'amore; poi, qualche anno dopo, lui decise di tornare in Inghilterra per chiederle la mano e convolare a nozze; in quell'anno, Mary aveva soltanto 19 anni.Quando la ragazza disse a suo padre che avrebbe sposato l'uomo da Trinidad, lui le rispose: "Se sposi quell'uomo non metterai mai più piede in questa casa!" Un'affermazione piuttosto dolorosa per Mary, che negli anni successivi ha sofferto per la mancanza di supporto della sua famiglia e dell'ostracismo della società del tempo che non vedeva di buon occhio matrimoni interraziali.Quando si sono trasferiti a Birmingham la vita non è stata facile per la coppia; sposati e registrati all'anagrafe nel 1948, hanno vissuto momenti decisamente non facili"I primi anni del nostro matrimonio trascorsi a Birmingham sono stati un inferno: ho pianto ogni giorno e ho mangiato a malapena. Nessuno ci parlava, non riuscivamo a trovare un posto dove vivere perché nessuno affittava a un nero e non avevamo soldi.", ha continuato Mary.

Con il tempo, le cose sono andate meglio, Jake e Mary hanno iniziato a fare amicizia con i nuovi vicini, anche se l'ostracismo della società inglese del periodo era sempre un'ombra che vegliava sulla coppia; il papà di Mary, con cui lei si era riconciliata pur non avendo mai approvato il matrimonio con Jake, venne a mancare quando la figlia compì 30 anni. Un grande dolore personale che non è mai andato via.Adesso, questa coppia straordinaria e che si ama molto ha superato i 70 anni di matrimonio, e nonostante le grandi delusioni, sofferenze e difficoltà della vita, non hanno mai vacillato ed hanno continuato a stare assieme come marito e moglie. Non importa che abbiano un colore della pelle differente, Jake e Mary si vogliono bene come fosse il primo giorno in cui si sono incontrati.Congratulazioni a questa coppia straordinaria da cui dovremmo imparare tantissimo!

Se vogliamo che aumenti la consapevolezza, deve cambiare la narrazione delle violenze stradali.

in  sottofondo  \  colonna  sonora
Canzone per un'amica (nota anche come In morte di S.F.)     


  Grazie   della segnalazione al gruppo sulle  vittime della strada     Giustizia per Davide Marasco curato 
immagine simbolo 
dalla madre,  Maria  Grazia Carta  ,  ne  ho racconto    su  questo  blog  la  sua  storia e   lo pure  intervistata.Concordo   con  il post  riporto  sotto  perchè  si è passati  da  un ecesso    opposto     dal  silenzio  \  tabu   vedere  la   censura e le pressioni  da   parte di  quello  che   all'epoca  si chama  L'ANAS,  che  fece pressioni per evitare una cattiva pubblicità in tema di sicurezza stradale.    che dovette subire Guccini per Canzone per un'amica (nota anche come In morte di S.F.) . Adesso è ora di cambiare   la narrazione di tali   eventi .

P.s 
lo  so    che mi  contraddico    visto che  metto  tale     canzon e come   colonna  sonora  del post  ,  ma  non  ne  trovo  altre   che parlino    in maniera  poetica   , psiclogica  e   non banale  ( o  quasi   )     di  tali eventi  
  


Una narrazione sbagliata «Cambiare il racconto delle violenze stradali per cambiare cultura»

Caro direttore, «Sara, vittima di una strada maledetta»; «morta travolta da un’auto»; «il conducente ha affermato di essere rimasto abbagliato dal sole»; «una ragazza è stata investita sulla Grevigiana prima delle 20»; «stavolta ha incontrato un destino crudele e ingiusto» sono alcune delle parole usate dai giornali per raccontare lo scontro che ha ucciso Sara Bartoli, meravigliosa ragazza di 30 anni che stava allenandosi correndo lungo la Grevigiana. Parole che fanno parte di una narrazione sbagliata in essere ormai da tempo con grande coerenza in molti media quando si parla di violenza stradale, che ha delle caratteristiche ben precise e delineate:

1) si deresponsabilizza il guidatore umanizzando il mezzo e quindi Sara è morta perché un’auto l’ha travolta. Chi guidava l’auto è nel retro-pensiero;

2) si giustifica il guidatore. L’abbagliamento è uno degli argomenti più usati, come se fosse un qualcosa di imprevedibile, occasionale. Intorno alle 20 in quella posizione, in questo periodo dell’anno la situazione con quella posizione del sole si ripeterà per settimane. Come fa a essere una giustificazione? Sarebbe come dire ho buttato un fiammifero ma sono rimasto sorpreso che il bosco fosse secco in questo periodo;

3) la colpa è di altre cose inerti, come la strada, questo agglomerato di asfalto che probabilmente è lì da secoli e che, per il suo essere senza movimento è comunque maledetto;

4) l’assenza di arbitrio; nessuno poteva fare qualcosa di diverso per evitare che una giovane vita fosse cancellata dalla terra. È stato il destino crudele e ingiusto. Da questa lettura nasce anche la parola usata per descrivere questi scontri mortali: incidente, che nella sua etimologia implica l’avvenimento di un evento per caso senza responsabilità degli attori;

5) la colpa delle vittime nascosta nell’uso intenso del passivo. Si scrive Sara è stata investita invece che scrivere un automobilista ha investito Sara. Da oggetto passivo di uno scontro, il pedone diventa spesso soggetto di una frase a costruzione passiva, come se il suo ruolo fosse quello più importante. Non a caso gli inglesi chiamano il passivo the exonerative tense.

Non sappiamo come sono andate le cose ma questa narrazione non ci aiuta certo a lavorare perché altri giovani non vengano uccisi sulla strada. La strada, il sole, il destino non c’entrano niente nella morte di Sara. C’entrano solo i comportamenti di chi guidava l’auto e quelli di Sara. Studiarli, capirli e raccontarli in maniera giusta può solo servire a cambiare una cultura della mobilità che uccide soprattutto gli utenti vulnerabili, che hanno il diritto di usare la strada come e forse di più delle auto. Perché la strada è di tutti. E tutti abbiamo il diritto di usarla senza perdere la vita.

*associazione Lorenzo Guarnieri Onlus

Il cellulare: simbolo non più di uno status ma della dimensione esistenziale, del mutamento antropologico ormai avvenuto. La morte di Alika Ogorchukwu di Carmen Pellegrino

 



Non volevo vederlo quel video. L'ho visto.
Un uomo inerme è morto ammazzato da un altro uomo, poi quest'altr'uomo gli ha pure preso il cellulare. Il cellulare: simbolo non più di uno status ma della dimensione esistenziale, del

mutamento antropologico ormai avvenuto. La morte di Alika Ogorchukwu (chiamiamolo con lo stracazzo di nome seguito dal cognome, non nigeriano, non mendicante trentanovenne), come tante altre, conferma una delle modalità del morire all'epoca dei social su cui postare presto i propri sensazionali video mentre, ripetiamolo, un uomo inerme - inerme - muore ammazzato da un altro uomo che, forse, quel giorno non aveva altro da fare per la sua rabbia repressa che ammazzare un uomo inerme che chiede l'elemosina tenendosi da presso la stampella che lo aiutava a camminare.
Quelli intorno, cellulare alla mano, riprendono, gli dicono di smetterla, sembrano suggerire: ti sei sfogato abbastanza, mo' basta, arrivano le guardie, uè uè tu lo ammazzi...E quello infatti lo ammazza.
Si dirà: be' vorrei vedere te davanti a una scena del genere, avresti fatto lo stesso, saresti rimasta a guardare, che potevi fare?
Ha ragione la scrittrice Grazia Verasani quando più o meno dice che siamo una società di gente che guarda il vicino dallo spioncino, ne conta entrate e uscite, ma la sua vita non gli riguarda, se gli succede qualcosa fatti suoi.
No, io non sarei rimasta a guardare. Cominciamo a dirlo che non si può sempre restare a guardare. Che se non si interviene mentre un uomo uccide un uomo inerme stiamo omettendo soccorso. Io non sarei rimasta a guardare, lo voglio dire e me ne assumo la responsabilità. Almeno un calcio nei reni glielo avrei dato e lo so che avrei corso il rischio di finire come Alika Ogorchukwu, ma a quel punto non me ne sarebbe fregato niente.
La paura della violenza, della fame, o di ogni altro male estremo, è una malattia dell'anima. Questa nota di Simone Weil la portai con me a Genova, nel 2001. E sempre per non "farmi i fatti miei" ancora mi curo un braccio e un ginocchio.
No, non sarei rimasta a guardare, lo so con certezza.
Eppure anch'io "tengo famiglia", ma i fatti miei non mi interessano più davanti a un uomo inerme che viene ucciso mentre chiede l'elemosina da un altro uomo a cui quel giorno giravano così.

30.7.22

può una eventuale condanna per diffamazione far riaprire il caso di giovanni Ianelli una vicenda archiviata troppo in fretta nonostante prove schiaccianti ?

 Leggi  prima  


Breve  sunto    per  chi  non  avesse  letto i  post  precedenti o  gli avesse  dimenticati  di  cui  trova    sopra  gli url   dei miei   post  precedenti 

  da  https://ilquotidianoditalia.it/cronaca/un-giusto-processo-per-la-morte-di-giovanni-iannelli/

Il giovane corridore pratese Giovanni Iannelli è stato ricordato, sabato 16 luglio, durante l’iniziativa ‘Pedalando in sicurezza’ che da piazza del Duomo a Prato è terminata davanti al murales di Carmignano, dedicato proprio al ciclista che viene sempre menzionato da tutti con grande affetto e stima, perché era un ragazzo esemplare e rispettoso nei confronti delle persone. Una quindicina di chilometri percorsi in bicicletta con la partecipazione del papà di Giovanni, l’avvocato Carlo Iannelli che non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia sull’assurda morte del figlio, avvenuta il 7 ottobre 2019, dopo due giorni dal tragico incidente a Molino dei Torti (Alessandria). 
Infatti, il 5 ottobre, Iannelli durante la volata finale a ranghi compatti, cadde rovinosamente sull’asfalto dopo aver battuto la testa su un pilastro sporgente di una civile abitazione in via Roma nel medesimo paesino, e a 144 metri dal traguardo di una competizione dilettantistica con la linea d’arrivo che si trovava davanti al municipio, luogo delle istituzioni, della liberta, e soprattutto della legalità. Papà Carlo non si arrende, e chiede la riapertura delle indagini per accertare fino in fondo, eventuali responsabilità da parte degli organizzatori che avrebbero potuto proteggere meglio le insidie lungo il percorso cittadino con delle transenne o altre barriere di protezione, considerando che l’arrivo era previsto ad una velocità di circa 70 orari, in una strada senza marciapiede e in leggera discesa con una serpentina ad “S” che attraversava le abitazioni lungo il tracciato.
I sogni e le speranze di un giovane di 22 anni si sono spezzate a causa di una tragedia che andava evitata, ma la battaglia della famiglia Iannelli dovrà servire anche per prevenire qualsiasi altro incidente mortale, lottando quotidianamente nel chiedere maggiore sicurezza in tutte le gare ciclistiche.
 [....]

Ora  le  persone citate nel  documento  riportato   sotto    sono  a processo per  ingiuria  e diffamazione     verso  il padre del ragazzo  



 e  qundi  mi chieso  e   spero   come  da  tittolo       che una  eventuale   sentenza   di  condanna  possa  mettere  in evidenza    sempre    più e  portatre   ad  una nuova  indagine    e  far riaprire  l'inchiesta   vergognosamente  e scandalossamente  archiviata  .  Perchè Se un ingegnere sbaglia il suo lavoro, va incontro anche al carcere, ma riguardo alla morte di Giovanni, seppur accertateed  provate   le mancanze relative all’adeguamento della sicurezza in gara, nessuno è stato recluso, se non alla  ridicola  pena   di  6 mesi di sospensione, ed una multa da mille euro.
E’ morto Giovanni, un ragazzo ha perso la vita per le mancanze altrui, non è mandare in carcere i responsabili che lo riporterebbe in vita, ma significherebbe che Giustizia sia fatta ed  quersto che si chiede  



29.7.22

ipocrisia funebre el caso della povera diana Pifferi

     di cosa  stiamo parlando




I funerali della piccola Diana, l'urlo della nonna: "Non ti abbiamo mai abbandonato". L'arcivescovo Delpini: "Orrore".

I funerali della piccola Diana, l'urlo della nonna: "Non ti abbiamo mai abbandonato". L'arcivescovo Delpini: "Orrore".
(ansa)
Il feretro della bambina di 18 mesi lasciata morire di stenti dalla madre, Alessia Pifferi, è arrivato in chiesa accompagnata dagli applausi. La nonna: "E' tua madre che è una pazza". Gli abitanti del quartiere: "Giustizia senza conti"  repubblica  29\7\2022




ha  ragione  l'amica    \  compagna  di strada  facebookiana   Angela Marino

La bara di Diana Pifferi, bianca e piccolissima, sembra quasi un giocattolo, una ricostruzione di una bara vera, un oggetto di scena, tanto è minuscola. E invece dentro c’è il corpicino senza vita di una bimba vera, una bimba che fino a qualche settimana fa, dormiva, mangiava, sorrideva (poco). È al

centro di una chiesetta altrettanto piccola di Ponte Lambro dove i presenti sono per lo più giornalisti o sconosciuti che hanno voluto partecipare così il proprio sgomento e dolore per questa tragedia. Eccola qui la collettività, la comunità, quella che si rivolta atterrita di fronte a un crimine aberrante, ma non si fa scrupolo a guardare dall’altra parte quando qualcosa non va. La bambina assente e immobile nel passeggino di Alessia Pifferi l’hanno vista praticamente tutti. Hanno commentato, forse, così come avveniva per le stramberie della Pifferi, per le sue menzogne, le sue invenzioni. Di Alessia erano tutti concordi nel dire che mentiva su ogni cosa, che non era possibile in nessun caso capire se dicesse o meno la verità. Ebbene, questo non è un elemento sufficiente per segnalare le proprie preoccupazioni sul genere di tutela e di accudimento esercitati sulla bambina? Perché quando era viva, Diana, nessuno l’ha protetta? Leggo molti commenti in questi giorni in cui si dice che non possiamo fare i poliziotti segnalando i comportamenti degli altri, che siano genitori o no. Ma perché leggere l’intervento legittimo a tutela di un minore come un modo di ficcare il naso, di non farsi gli affari propri? Perché non leggerlo come un gesto di amore e protezione nei confronti di una bimba che vive nel nostro quartiere, condominio, nella nostra comunità? Sarebbe finalmente giusto e utile se comprendessimo che occuparci delle negligenze o difficoltà degli altri, reali o presunte, nelle dovute sedi e con i giusti mezzi, è un gesto di altruismo e civiltà, non un’interferenza molesta. Avrebbe molto più senso che andare al funerale di una bimba che ci siamo limitati a osservare da lontano, scuotendo la testa.


io   non  riesco ad essere  diplomatico 

festival dell'ipocrisia e della falsità . se dicono che non l'hanno mai abbandonata perchè la bambina era solo per giorni ? se la madre lo aveva già fatta perchè non l'hanno segnalata ai servizi sociali o cazziata , o chiesto loro di prendersi cura della piccola ? #lacrimedicoccodrillo #indifferenza #ipocrisia #Omerta #silenzio #piccoladiana

a piedi dalla baviera a barletta stesso percorso del padre ex deportato militare nei lager nazisti ed altre storie

 chi mi  dice   che  per  post  come questi  debbano essere  pubblicati  solo  il  il  27 genaio    non  sa che  .....  sta  dicendo  .  certe  vicende  non  hanno  (  in teoria  non dovrebbero  avere  )    date  fisse   ,  vanno  soprattutto  quando c'è  ancora  gente  che  lo nega  e coltiva ancora  certe  ideologie    già  condannate  dalla  storia  

"Un'idea nata nella notte della grande nevicata del 1956, mio padre mi parlò per la prima e ultima volta di questo lungo viaggio. Quelle notizie me le sono portate addosso per 66 anni e ora che lui non c’è più da 34, voglio ripetere quel percorso". Pasquale Caputo ha 73 anni, è di Barletta e il 6 maggio partirà dalla Puglia per ripercorrere le orme paterne: rifare a piedi la strada da Monaco a Barletta che diede a suo padre, un deportato di guerra in Germania, la libertà. 1700 chilometri per 68 tappe che lo riporteranno a casa a luglio. Pasquale dall’età della pensione a oggi ha già corso 25 maratone. Per tutto il suo cammino, sarà monitorato da strumenti innovativi di telemedicina messi a disposizione da AReSS Puglia

Pasquale Caputo ha 73 anni. E’ partito lo scorso 8 maggio da Monaco di Baviera per rivivere il viaggio che suo padre Francesco e migliaia di soldati italiani fecero al termine della seconda guerra mondiale per tornare nelle loro case. Un viaggio per riflettere e fare memoria. Oggi l’ultima tappa a Barletta, la sua città



«Durante le notti passate in Baviera ci sono stati dei temporali. Mi svegliavo all’improvviso e pensavo ai miei “ragazzi”, li sentivo vicino». Pasquale Caputo non trattiene la commozione. Il suo viaggio sta per terminare, eppure dentro di lui echeggiano ancora i passi che dall’8 maggio lo accompagnano in questo lungo percorso alla scoperta del passato. Ma dentro di sé esplodono anche i passi di coloro che lo hanno preceduto, che hanno compiuto il suo stesso, identico, percorso, molti anni prima. Perché Pasquale, che di anni ne ha 73, ha ripercorso il tragitto che suo padre, Francesco, compì alla fine della seconda guerra mondiale da un campo di concentramento tedesco alla sua casa di Barletta. Come suo padre e le migliaia di soldati italiani che al termine del conflitto tornarono a piedi alle proprie abitazioni, anche il pensionato è partito da Monaco di Baviera per rivivere la loro esperienza percorrendo 1700 km, suddivisi in 68 tappe che lo hanno fatto passare per i luoghi della Resistenza italiana al nazifascismo. In tutte le città ed i presidi in cui è stato, in particolare nelle sedi dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, ha ricevuto accoglienza e riconoscimento per l’iniziativa che ha intitolato “Sulle orme di mio padre e di tutti gli Internati Militari Italiani”.




«Mio padre ha perso dieci anni della sua vita tra il 1935 ed il 1945, tra il servizio militare, il richiamo, l’entrata in guerra ed i due anni trascorsi nei campi di concentramento» racconta Pasquale Caputo nella tappa che lo ha accolto nella sua Puglia, a Foggia. «Non mi rendevo conto della forza che aveva avuto per tornare a casa in quelle condizioni. I soldati erano stracciati, ammalati, denutriti ed ho compreso in quali condizioni disumane si trovavano ed il coraggio che hanno avuto per fare ritorno dai loro cari». Anche per questo, Pasquale ha documentato con foto e parole sulla pagina facebook del progetto tutto il viaggio. Suo padre Francesco nacque a Barletta il 21 maggio 1917. Da soldato, era in forza al Reggimento di Cavalleria di Ferrara. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, fu catturato a Verona e deportato nei campi di prigionia tedeschi, andando a far parte di quella schiera di IMI (Internati Militari Italiani) ritenuti traditori dall’ex alleato nazista. Dopo la detenzione nei campi di Moosburg, Memmingen e Kaufbeuren nei dintorni di Monaco di Baviera, il padre di Pasquale e gli altri sopravvissuti iniziarono un lungo cammino a piedi per tornare nelle loro città.




Francesco Caputo giunse nella sua casa paterna di Barletta il 27 luglio 1945. Ma non tutti riuscirono a tornare a casa. Molti persero la vita nei campi di concentramento, durante il difficile viaggio per tornare a casa, spesso affrontato in condizioni di salute assai precarie. Per questo, il viaggio di Pasquale, oltre a raccontare attraverso il ritmo dei passi la vicenda di suo padre, vuole essere un’occasione per fare memoria, per riflettere sul tema della guerra, delle discriminazioni razziali, delle persecuzioni e dell’immigrazione. Tutte tematiche ancora tristemente attuali.
«Questo lungo percorso mi ha fatto pensare anche a tutti i popoli che oggi sono in marcia per cercare un futuro migliore, a chi attraversa il Mediterraneo, a chi il deserto africano per finire nei lager libici, al popolo ucraino in fuga dalla guerra. E’ stato un modo per essere vicino a tutta questa gente». Dopo oltre 70 giorni di cammino, Pasquale deve affrontare l’ultima tappa. Gli ultimi metri di un percorso che gli ha provocato un misto di emozioni e sentimenti. Oggi arriverà a Barletta, la sua città, la terra di suo padre da cui tutto ha avuto inizio. Ad accoglierlo ci sarà tutta la sua comunità e, probabilmente, confuso tra la folla, anche il sorriso del padre con le braccia aperte per abbracciarlo.



Superstite di Auschwitz incontra i nipoti del soldato che la salvò 

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Di euronews
Superstite di Auschwitz incontra i nipoti del soldato che la salvò
Diritti d'autore  Richard Drew/Copyright 2019 The Associated Press. All rights reserved.




Ottantacinque anni dopo l'esperienza del campo di sterminio di Auschwitz una sopravvissuta incontra i nipoti del militare statunitense che le regalò un biglietto di auguri. Lily Ebert venne prelevata coi suoi dalla loro casa in Ungheria e portata in Polonia. Stessa sorte di centinaia di migliaia di ebrei, rom, omosessuali e oppositori politici, finiti nella mostruosa follia nazista."Quel soldato mi augurò buona fortuna, fu una cosa straordinaria, non me lo aveva detto nessuno". Un messaggio di speranza rimasto scritto su una banconota tedesca, che Lily ancora conserva. "Per la prima volta qualcuno ascoltava la mia storia e non voleva uccidermi, ma solo ascoltare: questo ha fatto una grande differenza".

Alla liberazione di Auschwitz, da parte dei soldati dell'Armata Rossa, Lily aveva 16 anni. Nel campo da cui lei è uscita viva, i nazisti hanno ucciso milioni di persone. "Nessuno pensava che saremmo state liberate, da quel posto si poteva uscire solo attraverso il forno".




A far incontrare la donna e i nipoti del suo salvatore è stato uno dei suoi nipoti, che ha pensato di pubblicare la sua storia su una rete sociale. "Mi ha toccato il cuore quel messaggio, sono solo dieci parole: "Inizia una nuova vita, buona fortuna e felicità". Che emozione scoprire un gesto di gentilezza".
Il soldato statunitense non ha vissuto abbastanza per ricontrarsi con Lily. I suoi familiari lo hanno fatto al suo posto, trasformando un semplice gesto di cordialità in una notizia. Settantacinque anni dopo questa donna ha potuto ringraziare i discendenti del soldato che scrisse il suo nome su una banconota. Un inconro casuale in tempo di guerra, un messaggio che ha viaggiato nel tempo, e due famiglie che ora vogliono rtornare a vedersi.

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

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