continuando il proposito di cui avevo parlato nei post dell'anno scorso ovvero non esprimere pareri personali e "censurando" le mie emozioni onde ad evitare di cadere nela retorica lascio che a parlare siamo oi protagonisti che ancora sono rimasti i vita come in questo caso , ebrei e non ebrei .
La storia che riporto oggi presa da L'Espresso (repubblica.it) e da altri siti che ora non ricordo
Luciano che diventerà Lucy anche fisicamente solo a 58 anni, nasce
nel 1924 a Fossano, vicino a Cuneo, da una famiglia antifascista, di
origine emiliana che negli anni Trenta si trasferisce nel bolognese,
dove Lucy affonda le sue radici. Con le mani nodose, gli occhi liquidi e
l’ironia di chi ha sofferto molto ci fa entrare nel suo appartamento al
secondo piano di un alloggio popolare e ci accompagna nelle notti della
sua vita. Le attenzioni pedofile da parte del parroco da piccolissima:
«Sento ancora i brividi a pensarci» racconta in debito d’ossigeno:
«Oggi, quando vengono a benedire la casa, la porta non la apro. Suona
pure, dico, stai fuori».
Poi i rifiuti in famiglia: il padre non
crederà ai suoi racconti delle violenze subite. Poca cosa rispetto a
quello che dovrà affrontare più avanti. Si sente donna da sempre.
Sopravvive. Da Dachau fino al dopoguerra, dall’operazione per il cambio
di genere alla perdita della sua figlia adottiva. Di sé parla al
femminile soltanto quando racconta il dopo Dachau. Prima, dall’infanzia
alla Liberazione, ricorda Luciano. Declina al maschile le memorie di un
uomo che non c’è più. Quasi come se ci fosse un primo e un secondo atto
dentro questa storia che è una fuga da qualcosa che non si può neanche
nominare. Non ha mai voluto cambiare nome all’anagrafe. «Quante volte me
lo hanno chiesto. Ho sempre risposto no. Me lo hanno dato i miei
genitori. È sacro. Perché una donna non si può chiamare Luciano? Perché
no?».
È il 1943 e Luciano ha 19 anni. C’è la guerra nelle strade e la
guerra dentro di lui. Cerca subito di fuggire dall’esercito: «Mi
presento militare e faccio la visita. Dico: sono omosessuale, non posso
farlo. Mi rispondono: dite tutti così ma con questa guerra non c’è più
sesso». L’esperienza sotto le armi però dura poco, solo tre settimane.
L’8 settembre con l’armistizio l’esercito si dissolve. È un’altra fuga
mancata. A Vercelli viene catturato, costretto a entrare nell’esercito
tedesco. Passa qualche settimana. Luciano si adatta. È quell’istinto di
sopravvivenza che lo porterà lontano. Riesce a farsi assegnare il posto
di addetto alla fureria, cioè l’ufficio militare che si occupa della
stesura degli incaricati dei servizi giornalieri e delle licenze della
truppa. Qui, da solo, prepara le carte per tornare a casa: «Mi sono
fatto i permessi e sono arrivato fino a casa. I tedeschi mi cercavano
perché ho dato un indirizzo e un nome falso. Peggiorando la mia
situazione».
Rischia la pena di morte. Luciano è consapevole, ma
Bologna è la sua casa. Ritrova i suoi amici. Frequenta gli unici luoghi
concessi agli omosessuali del tempo: bagni, parchi, cinema in terza
visione. «Facevamo marchette. C’erano i tedeschi e pagavano anche bene.
Una volta arrivò un capitano tedesco e mi portò all’Albergo Bologna. Ma
fecero una retata. Erano tedeschi anche loro: a lui dissero “taglia la
corda”, io venni arrestato. Scoprirono tutto». Processato come disertore
dell’esercito tedesco e condannato a morte per fucilazione. «Chiesi la
grazia a Kesserling (il generale tedesco che nel 1943-44 guidò la
ritirata ndr), accettarono ma con lavori forzati in Germania. La mattina
ci caricarono su un carro merci, per poi scaricarci a Dachau».
Il campo di concentramento segna uno spartiacque nella vita di Lucy.
Entra da triangolo rosso, non rosa. Conosce un orrore che racconta con
fatica, la voce rotta da un principio di pianto: «C’erano pidocchi,
cimici, topi. Ma non riuscivamo a prenderli. Altrimenti li avremmo
mangiati». Con gli occhi lucidi ricorda la sua mansione: «Insieme a un
polacco dovevo prendere tutti cadaveri che la notte morivano e metterli
fuori, attaccar loro una targhetta con il suo numero. Perché non c’era
un nome. Poi li caricavamo sopra un carro e li portavamo al forno
crematorio». La voce si rompe, alcuni dei corpi destinati al crematorio
erano vivi: «Quello che ho visto è allucinante. Mettere un essere
vivente dentro a un forno». Come si fa a convivere con questi ricordi?
Su quale mensola della coscienza si colloca l’immagine di quei giorni,
per non pensarci più? «È dentro di me. Come quando leghi qualcosa che
non scappa. Lo leghi stretto e ti senti schiacciato. Stanotte sarà
un’altra notte».
Lucy ritorna in famiglia ma viene rifiutata di
nuovo. Il ritorno è da disertore sopravvissuto a Dachau, ma in Italia
prova quello che moltissimi omosessuali hanno vissuto nel dopoguerra:
traumatizzati dalle violenze subite e dalle atrocità, vanno avanti non
nominati nelle cerimonie di commemorazione. Omessi dalla collettività ed
esclusi dalla cultura della memoria. Non sono sopravvissuti ma si sono
semplicemente salvati. «Guai a dire che ero donna», racconta: «Dicevo ai
miei: mi avete fatto voi così. Io non ho voluto nascere in queste
condizioni. Ma vi ringrazio perché a me piace essere così. Mio fratello
mi ha detto: non ti chiamerò mai Lucy, per me sarai sempre Luciano».
All’inizio
vive di espedienti: la prostituzione, sotto il nome Carmen, ma anche la
ballerina e l’attrice in uno spettacolo en travesti. Poi decide di
trasferirsi a Torino. Un’altra fuga, un’altra vita alla luce del sole.
Qui è Lucy nella sua pienezza. Assume gli ormoni, inizia ad avere il
seno, ad arrotondare i fianchi. Impara l’arte della tappezzeria e inizia
a lavorare. Una donna tappezziera, un’altra eccezione dentro quegli
anni. Ma non era più Luciano di Dachau, non era più Carmen, sotto la
Mole è semplicemente sé stessa: Lucy.
Nel 1981 si opera a Londra,
lo stesso anno in cui viene varata la legge in Italia. Un intervento
chirurgico che le ha sottratto il raggiungimento del piacere sessuale,
destino condiviso da lei e da molte altre donne trans. Dopo amori finiti
o mai iniziati. Adotta una ragazza madre di diciotto anni: «L’ho
conosciuta che era una bambina. Il padre lavorava nelle miniere, aveva
la silicosi ed è morto presto. La mamma è morta poche settimane dopo. La
bimba è venuta da me. Inizialmente faceva dei lavoretti, poi si è
innamorata di un idiota ed è rimasta incinta».
Lucy l’accoglie in casa e per non farle mancare niente torna a fare la prostituta. «Era come mia figlia. Poi è morta anche lei a 57 anni». Lucy che per istinto e talento continua a reinventarsi ogni volta, risorgere guardare la luce davanti a sé, non il buio che c’è dietro. Oggi convive a Bologna con Sahid, operaio marocchino praticante musulmano. Sembra siderale la distanza culturale tra lui che prega in direzione della Mecca e lei donna trans, ex prostituta di via Stalingrado. Ma quella con Sahid è qualcosa di più di una semplice relazione tra coinquilini: «Per me è come un nipote» dice lei. Le fa eco lui: «Quando andiamo insieme al supermercato io dico che lei è mia nonna e lei mi tratta da nipote».
È
il talento di Lucy quello di tessere relazioni per vivere: c’è Maria,
la vicina di casa che va chiederle consigli amorosi. Ci sono Ambra e
Simone. E poi la comunità Lgbt, come l’attivista storica del movimento
trans Porpora Marcasciano. La vita di Lucy è una fuga verso gli affetti:
inizia a Bologna passa da Dachau e fa il giro del mondo. Lucy non è una
militante, non lo è mai stata. Eppure, è sempre riuscita a organizzare
reti di prossimità e a vincere quella battaglia contro i fondamentalismi
di ogni sorta. È una vita piccola, illumina quelle di chi le sta
intorno, lontano dalle urla oscene di Parlamento italiano contro le
persone transgender, molto vicino alla solidarietà tra gli ultimi.
Nella
posta trova ogni anno lettere da Dachau. Sono biglietti di auguri e
inviti alle celebrazioni per la liberazione del campo di concentramento
del 29 aprile 1945. Inizialmente erano destinati a Luciano Salani. In
occasione del cinquantesimo anniversario della liberazione, Lucy si
presenta fisicamente a Monaco. L’accoglienza diventa un momento di
commozione e ovazione unico per la comunità europea. Da allora le
lettere che arrivano sono declinate al femminile. È un frammento di storia che arriva dal Novecento. Eppure, non trova spazio nei libri di scuola, nelle serie tv, nei salotti buoni. Per entrare nella vita di Lucy Salani bisogna attraversare strade, carceri, forni crematori e manicomi. Entrare in quelle fessure di un mondo che da tempo è stato lasciato ai margini, invisibile soltanto perché abbiamo deciso di non guardarlo, non vogliamo. La voce e il corpo di Lucy sono stati ripresi per mesi da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini nel film-documentario “C’è un soffio di vita soltanto”.
Il film è disponibile su SKY Documentaries e NowTV, in concomitanza con la Giornata della Memoria. Lucy Salani, la “nonna trans” d’Italia sopravvissuta a Dachau prima e all’Italia omotransfobica dopo, oggi ha 98 anni e abita a Bologna. Una storia tutta italiana ma ignota alla narrazione mainstream. «Quello che ho visto è allucinante. Mettere un essere vivente dentro a un forno». Come si fa a convivere con questi ricordi? Su quale mensola della coscienza si colloca l’immagine di quei giorni, per non pensarci più? «È dentro di me. Come quando leghi qualcosa che non scappa. Lo leghi stretto e ti senti schiacciato. Stanotte sarà un’altra notte». Ogni anno non manca il suo pellegrinaggio in quell’inferno, dove si è consumato la fine dell’umano. Di fronte a quello che resta del campo di Dachau una certezza: «È la nostra volontà che comanda il mondo». La storia di Lucy è un soffio di dolore, certo, eppure di luce che esplode nel sorriso di chi non si arrende, non lo farà mai. In un mondo ideale sarebbe celebrata e indicata come una coscienza che ci guida. In Un Soffio di vita soltanto ha raccontato di essersi prostituita. In quegli anni era l’unico modo per le persone transessuali di mantenersi ? «Sì, è stata una necessità perché le persone come me, per colpa dei pregiudizi della gente, non riusciva a trovare un lavoro. Nonostante spesso le stesse persone che criticavano me le ritrovassi la notte come clienti. La prostituzione comunque è qualcosa di umiliante, non di certo una salvezza».
Il film è disponibile su SKY Documentaries e NowTV, in concomitanza con la Giornata della Memoria. Lucy Salani, la “nonna trans” d’Italia sopravvissuta a Dachau prima e all’Italia omotransfobica dopo, oggi ha 98 anni e abita a Bologna. Una storia tutta italiana ma ignota alla narrazione mainstream. «Quello che ho visto è allucinante. Mettere un essere vivente dentro a un forno». Come si fa a convivere con questi ricordi? Su quale mensola della coscienza si colloca l’immagine di quei giorni, per non pensarci più? «È dentro di me. Come quando leghi qualcosa che non scappa. Lo leghi stretto e ti senti schiacciato. Stanotte sarà un’altra notte». Ogni anno non manca il suo pellegrinaggio in quell’inferno, dove si è consumato la fine dell’umano. Di fronte a quello che resta del campo di Dachau una certezza: «È la nostra volontà che comanda il mondo». La storia di Lucy è un soffio di dolore, certo, eppure di luce che esplode nel sorriso di chi non si arrende, non lo farà mai. In un mondo ideale sarebbe celebrata e indicata come una coscienza che ci guida. In Un Soffio di vita soltanto ha raccontato di essersi prostituita. In quegli anni era l’unico modo per le persone transessuali di mantenersi ? «Sì, è stata una necessità perché le persone come me, per colpa dei pregiudizi della gente, non riusciva a trovare un lavoro. Nonostante spesso le stesse persone che criticavano me le ritrovassi la notte come clienti. La prostituzione comunque è qualcosa di umiliante, non di certo una salvezza».
Uno dei momenti più felici della sua vita?
«Sicuramente i momenti con Patrizia, mia figlia. Non era mia figlia biologica, ma un’adolescente rimasta orfana che è venuta a vivere a casa mia. L’ho cresciuta io. Lei mi chiamava “mamma” e per me era come una figlia. In tutte queste vite, sono stata anche madre».
Quanti amori ha vissuto?
«Ho avuto diversi fidanzati, sia da giovane, sia quando ero più grandicella. Conservo molti bei ricordi. Poi qualcuno mi ha lasciata, io ho lasciato a volte, qualcun altro è morto. È la vita».
A 96 anni, come si vede nel documentario, è tornata a Dachau. Che significato ha avuto tornare in quel luogo, molti decenni dopo, da sopravvissuta?
«È sempre difficile rivedere Dachau, quel luogo sa di sofferenza. Ci sono tornata tre volte e, ogni volta, rivedo davanti ai miei occhi quelle orribili scene. Ma non posso e non voglio dimenticare perché ho molto rispetto per la Memoria».
Oggi 27 gennaio è la Giornata della Memoria. Che cos’è per lei?
«La memoria è un dono, un’eredità di cui dovremmo far tesoro. L’ho fatto io in passato e ora molte persone lo stanno facendo con la mia storia e questo mi dà speranza. Senza la memoria la nostra comunità commetterebbe ancora più facilmente gli errori del passato».
La memoria purtroppo non ha valore per tutti: un assessore toscano nei giorni scorsi ha paragonato le regole anti Covid stabilite dal governo al nazismo.
«Finché certi discorsi verranno fatti ancora in luoghi istituzionali, saremo molto lontano dall’avere una speranza. Mi auguro che la memoria e il lavoro delle nuove generazioni potrà salvare la nostra comunità».
Dopo quello che ha visto a Dachau, pensa che valga sempre la pena vivere?
«Oggi, arrivata a quasi cento anni forse no, per me non vale più la pena, ho visto già tutto sia nel bene che nel male, ed è tempo per me di esplorare altri mondi».
Quante vite ha vissuto, Lucy?
«Decine di vite diverse: sono stato bambino, figlio e figlia, soldato, disertore e prigioniero, madre, prostituta e amante. Ma qualsiasi persona sia stata, posso dire con convinzione di essere stata sempre me stessa».
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