È ospite di una vecchia alcolista che oggi, a vent'anni dall'ultimo bicchiere, va quotidianamente in tour tra i 200 utenti (come li chiama lei) che vivono in dieci paesi del circondario: marginali, malati di mente, schiavi della bottiglia. Per conto di una coop sociale che l'ha assunta dopo quindici anni di volontariato, gira su un furgone portandosi dietro qualche “paziente” che ha bisogno di assistenza-extra. Altri li tiene a casa, dove ci sono marito e tre figlie che le fanno da spalla. La fuga dall'alcol si sconta vivendo e Simonetta, 44 anni,ha appaltato la sua esistenza al prossimo. È un gigante, e nemmeno lo immagina.
Alessandra vive bene con lei. Si sono conosciute una decina d'anni fa. «A quell'epoca avevo già il delirium tremens. Mi prendevano certe crisi ma certe crisi, credevo di morire: tremore, tachicardia, ansia, allucinazioni e una paura che ti stringe fino a toglierti il respiro. Tutto finito, grazie al cielo: da cinque mesi non sfioro un bicchiere. Della malattia mi è rimasto solo il terrore dei ragni. Quando stavo male sognavo che mi venivano addosso, un esercito con le zampe nere...».
Della violenza da ragazzina illumina solo qualche squarcio. Per esempio, la mattina che sono venuti a prenderla i carabinieri. «Ero a scuola. Avevo presentato la denuncia da qualche giorno. Non mi aspettavo quella specie di irruzione. E soprattutto mai e poi mai avrei immaginato che si sarebbero portati dietro l'uomo che mi violentava, quello che mi diceva sta' ferma che ti faccio le coccole».
Passato remoto. Peccato tuttavia non essere riuscita a riprendersi almeno il diario che aveva consegnato proprio al maresciallo.«C'era tutta la storia». L'aveva riempito dai sei ai tredici anni con una grafia che si è fatta via via sempre meno incerta. Mentre ne parla accende l'ennesima sigaretta e butta il fumo sulla bocca del camino. «Non bisogna inquinare l'aria».
Com'è finita?
«Dopo il processo, sono stata portata via da casa e consegnata alle suore di un collegio nell'Oristanese. Regole durissime, sono scappata. Mi hanno ritrovata dopo due giorni e riportata nell'appartamento dove ero stata abusata. Giravo di stanza in stanza con un coltello nascosto nella manica. Fosse riaccaduto, ero pronta a morire».
Poi?
«Altro istituto, a Gonnesa. Suore meravigliose. Ma io avevo cominciato a bere. Il battesimo con l'alcol risale a quand'ero bambina. Era un Natale che non ricordo. Dalla cucina ho rubato bottiglie di spumante e le ho scolate. Mi ci sono addormentata sopra».
Le suore non s'accorgevano?
«Non potevano, bevevo solo quando uscivo dall'istituto. Ho cominciato a portarmi la roba dentro che avevo già 17 anni. Un pomeriggio mi scoprono, intontita dalla birra farfuglio risposte confuse. Quando sento la Superiora chiamare al telefono la mia famiglia, non esito un istante: via, via subito».
Via, dove?
«Mai avuto un posto fisso. Ho dormito sulle panchine, sotto i ponti. Per sfamarmi, chiedevo lavoro nei ristoranti: aiutocuoco o lavapiatti. Ma venivo puntualmente cacciata perché arrivavo al lavoro ubriaca. Iniziavo a bere alle sei del mattino, smettevo quando le gambe mi tradivano. Il mio record personale è di 26 bottiglie di birra in un giorno».
Una botte umana.
«No. Perché l'alcol toglie l'appetito e ti fa fare pipì a fiumi. A vent'anni ero un'alcolista vera. Giravo a caso da un paese all'altro e un giorno mi ritrovo davanti alla comunità di don Sguotti a Carbonia. Sapete come funziona, no?»
No.
«Ti vengono incontro, ti fanno intravedere una prospettiva, la salvezza. Accetto con entusiasmo, riprendo gli studi alle Magistrali ma mi accorgo dopo qualche settimana che sto andando a scuola con una bottiglia di birra in borsa».
Allora?
«Bisognava avere il coraggio di dire basta. Vado al market, frugo tra i detersivi, scarto la varechina perché non mi ispira sicurezza, scelgo la soda caustica e torno in comunità. Decido di morire il giorno del mio compleanno: a sei mi hanno ammazzato in un modo, a ventuno mi ammazzo io in un altro».
Chi la salva?
«Nessuno. La fregatura è che il giorno del mio compleanno mi fanno una sorpresa: torta, candelina e grande festa. Capisco che non è bello rispondere uccidendosi, perciò decido di rimandare a 24 ore dopo. Il 16 gennaio 1992 entro in bagno, riempio il bicchiere di soda caustica, mi guardo alle specchio fino a che vedo la mia immagine dissolversi. A quel punto butto giù il mio veleno. Ospedale, coma, intervento chirurgico per una perforazione dell'esofago e dell'intestino, lunghissima degenza».
Comunque viva.
«Certo. Decido di restare sobria e per due anni, mentre vago per la Sardegna, ci riesco. Poi però riattacco a bere. Un giorno a Cagliari incontro un vecchio mentre stavo in panchina».
Facile immaginare cosa propone.
«Sono rimasta con lui sei mesi. Mi comprava da bere. In cambio chiedeva prestazioni sessuali ma io, giuro, non gli ho mai dato nulla. Gli uomini non mi fanno impazzire di desiderio. Il vecchio si vendicava facendomi dormire sul pavimento. Un modo come un altro per punirmi».
E costringerla a cedere.
«Il fatto è che io non smettevo d'essere ubriaca. Finché un giorno mi chiama una buonissima suora che avevo conosciuto anni prima. Chiede come sto e glielo spiego. Ti mando un'amica, mi dice: si chiama Simonetta, ascoltala».
E lei?
«Metà di me diceva sì perché di quella vita non ne potevo più, metà di me diceva no perché la sola idea di fare a meno della birra mi faceva star male. Alla fine decido di accettare».
Simonetta Uccheddu, 44 anni, arriva a Cagliari di buon mattino e va all'appuntamento con Alessandra. Avevano deciso di vedersi tra i banchi della basilica di Sant'Anna. «Le dò un'occhiata e mi rendo conto che è a pezzi». Non si perde d'animo, forte del suo passato di alcolista, ma soprattutto di una resurrezione conquistata coi gruppi di auto-aiuto. Cosa sono? Assemblaggi di disperazione collettiva, dolori e drammi individuali che si intrecciano ad altre storie difficili e fanno assemblea. I gruppi di auto-aiuto sono una sorta di squadroni dell'infelicità che, messi insieme, scatenano una formidabile voglia di rivincita. E magari succede che, col tempo, i pazienti diventano volontari, sostengono i nuovi arrivati e danno forma a una straordinaria catena umana di solidarietà. Così è nata l'associazione "Amici per la vita", che ha un responsabile scientifico (il dottor Giorgio Madeddu, alcologo) e per colonna portante quella che verrebbe facilissimo chiamare Simonetta dei miracoli. «So cosa sta provando Alessandra, sobria da pochi mesi, perché io ci sono passata prima. E ho fatto pure meglio di lei: bottiglie di birra grandi, in un giorno, me ne facevo anche trenta». Succedeva in un'altra esistenza, sepolta ma non dimenticata. «Gli utenti sono ancora adesso la mia terapia, la scommessa - vent'anni dopo l'ultimo bicchiere - che vincere la guerra è possibile». Alessandra, che non smette un attimo di fumare, è d'accordo, in perfetta sintonia: come non è mai accaduto prima. Soprattutto per colpa di una variabile che non aveva considerato, una sorpresa che dall'inferno la può riportare in terra.
Che è successo?
«Un attimo. Prima devo dire di una catena di lavori avviati e interrotti perché a una cert'ora non ero più in grado di stare nemmeno in equilibrio. A niente è servito farmi disintossicare in una clinica cagliaritana e ripetermi, giorno dopo giorno, che la birra non m'interessava più».
Quanto si resiste?
«Pochissimo. Una mattina a Sassari vado sul ponte Rosello per fare hara-kiri: il coltello ce l'ho, la voglia anche. Programmo di squartarmi e, subito dopo, volare giù. Prima però decido di chiamare al telefono Simonetta per l'ultimo saluto».
E tutto finisce in gloria, giusto?
«Mi ha preso la polizia che non avevo manco cominciato il rito. Fermata, identificata, denunciata: a maggio ho il processo per porto di coltello di genere proibito. La mia vita però è cambiata proprio quel giorno, anzi quella sera».
Perché?
«Perché conosco un ragazzo e me ne innamoro all'istante. Colpo di fulmine. Una storia bella e intensa. Anche se non gli perdono le cose terribili che mi diceva quand'era ubriaco».
Alcolista pure lui?
«Lei crede che mi sarei potuta innamorare di un sobrio impiegatuccio?»
Com'è finita?
«Nel migliore dei modi. Sono rimasta incinta».
Non ha pensato di abortire?
«No, per due ragioni: innanzitutto perché sono cattolica e poi perché quel bambino lo volevo a tutti i costi. Sapevo che poteva nascere malato ma non me ne importava niente. Sentivo che avrebbe dato un senso alla mia vita».
È andata così?
«Bimbo sanissimo. Tutto a posto salvo che i Servizi sociali non volevano lasciarmelo: come pensa di mantenerlo, signora?, dove pensa di farlo dormire, signora? Ero disperata. Ed è allora che mi è tornata in mente Simonetta».
Che c'entra Simonetta?
«C'entra moltissimo. Ha chiesto di incontrare i Servizi sociali, ha discusso a lungo con loro trovando grande comprensione. Alla fine è stato raggiunto un accordo che mi ha fatto piangere di gioia: le hanno dato in affidamento mio figlio. Siamo tutt'e due suoi ospiti. Proprio vero che la vita è un'altalena».
Il suo compagno?
«Finita. È un bravo ragazzo ma non abbiamo più nulla da dirci. Ha chiesto di vedere il bambino e io non ho nulla in contrario: sarà il giudice a decidere».
Cosa racconterà a suo figlio?
«Tutto. Chiederò aiuto a uno psicologo: voglio che conosca la verità da me e non da velenose chiacchiere di paese. Saprà chi è la madre, quando e perché ha scelto di morire, quando e perché è riuscita a tornare in vita».
Futuro?
«Farà ciò che vuole. Spero che studi, che non si fermi come me alla licenza media. Avrà tutto quello che io ho perso».
Nessun commento:
Posta un commento