quando il passato può essere una risorsa Montevecchio, così gli ex minatori salvano cimeli e memoria

unionesarda  del 25\3\2011
Gli angeli custodi delle vecchie miniereMontevecchio, così gli ex minatori salvano cimeli e memoria

DAL NOSTRO INVIATO
LELLO CARAVANO (caravano@unionesarda.it )


MONTEVECCHIO Vanno su e giù per i vecchi cantieri, controllano, qualche volta recuperano attrezzi e macchinari, spesso trovano piccoli gioielli meccanici abbandonati nelle discariche di ferrovecchio nascoste tra le sughere che circondano Montevecchio. Per gli angeli custodi della grande fabbrica del piombo e dello zinco, un vecchio chiodo arrugginito può raccontare una storia, la ruota di una pala meccanica diventa il simbolo di un lavoro che non c'è più, la cabina di comando ridotta in pezzi della sala dell'argano di pozzo Sartori svela una piccola rivoluzione, quando nella miniera tra Guspini e Arbus fu introdotta la meccanizzazione. Oggetti che ai più dicono poco o niente, spesso buoni per essere svenduti o depredati, secondo il destino di pozzi e gallerie chiusi da un giorno all'altro. Loro invece sanno che lì c'è scritta la loro vita e quella dei padri, e magari anche dei figli, costretti spesso ad appoggiarsi alle pensioni di chi ha trascorso anni duri sotto terra finché è stato deciso che dalle viscere dell'Isola non doveva uscire più un minerale.
UN PATRIMONIO Quelli di Sa Mena hanno festeggiato da poco i dieci anni di vita. Si sono costituiti in Associazione minatori per tener viva la cultura e la memoria storica del lavoro nel ventre della terra, cioè la storia stessa dei paesi del Guspinese e dell'Arburese. Ben prima di costituirsi in sodalizio, hanno capito che era necessario darsi una mossa, subito dopo la chiusura degli impianti - dicembre 1991, una specie di tsunami sulla vita di centinaia di famiglie - per evitare che quello straordinario patrimonio di fabbricati e di archeologia industriale che si estende fino a Ingurtosu e guarda le dune di Piscinas venisse spolpato e depredato e si trasformasse, come in qualche caso è avvenuto, in un cimitero postminerario. Hanno pensato al futuro, recuperando centinaia di piccoli e grandi cimeli da esporre in un museo, per far conoscere a figli e nipoti - e magari turisti - un'epopea che non tornerà, cominciata ufficialmente quando nell'aprile del 1848 re Carlo Alberto assegnò a Giovanni Antonio Sanna la prima concessione mineraria. 




MINATORE-SCRITTORE L'elenco è lunghissino. Un'infinità di piccoli attrezzi manuali, perforatrici, una vecchia fune di canapa dell'argano di Piccalinna, una miniatura di un mulino a sfere, la bilancia per pesare i minerali, la sirena di pozzo Sartori che scandiva le lunghe giornate di lavoro, ma anche gli allarmi aerei o l'annuncio di un incidente mortale. Telefoni, picconi, lampade a carburo. «Ci davano il carburo col contagocce, guai a sprecarlo», racconta Mario Fadda, vicepresidente, nato e residente a Montevecchio («Sono rimaste settanta famiglie, come fantasmi»). E poi la perforatrice a mano, la pisita , micidiale attrezzo che lavorava all'asciutto, in uso fino a metà del secolo scorso (solo più tardi arrivò la macchina a getto d'acqua, che consentiva l'abbattimento delle polveri). «Me l'hanno regalata dicendo: ecco cussa chi ha boccìu mera genti », ricorda Serafino Leo, 76 anni. «Sa perché ci regalano i vecchi attrezzi? Perché sanno che finiscono in buone mani», aggiunge il minatore autore di “Sa vida mea in sa mena” (ricordi di una vita in miniera scritti prima in sardo poi tradotto in italiano).
«Il nostro obiettivo è di tenere viva l'attenzione sul mondo delle miniere e anche di stimolare le amministrazioni, affinché si pensi a utilizzare e gestire il patrimonio restaurato anziché lasciarlo chiuso», dice Ugo Atzori, presidente dell'associazione Sa Mena, un centinaio di soci, quasi tutti guspinesi.
ACCORDO STORICO Atzori ha creduto da subito alla possibilità di dare una nuova vita alle miniere. Ha fatto parte di quel manipolo di sei minatori che per 28 giorni, tra aprile e maggio 1991, si rinchiuse a 300 metri di profondità nel buio del pozzo Amsicora, mentre centinaia di compagni aspettavano in superficie, per scongiurarne la chiusura. Uscirono solo quando la Samin, società dell'Eni che gestiva le miniere, firmò un impegnativo accordo che metteva la parola fine all'epopea dei pozzi ma apriva un nuovo scenario tra Montevecchio, Ingurtosu e Funtanazza: trasformare le miniere in un'occasione turistica e culturale. Quei minatori vedevano lontano. Pensavano al futuro, ai loro figli, sulla scia di altre esperienze europee, di città e paesi che sono riusciti a sopravvivere alla fine della civiltà che tra Ottocento e Novecento ha segnato la storia e il paesaggio in Francia, Germania, Inghilterra, Belgio, Sardegna. «Pensavamo a un futuro di alberghi, ristoranti, centri sportivi, ippovie, musei. Ci hanno ascoltati? Direi di no», aggiunge Atzori.
IL SOGNO-ILLUSIONE Il sogno è rimasto tale, forse adesso si è trasformato in un'illusione. E dire che Guspini aveva tracciato la strada per tempo. Edifici e percorsi restaurati (su tutti lo splendido palazzo della direzione), visite guidate nelle gallerie e nei vecchi impianti. Poi qualcosa si è inceppato. Non ci sono più idee, i soldi in cassa sono sempre meno, non c'è più la convinzione di un tempo? Chi non manca all'appello sono loro, quelli di Sa Mena, quelli della miniera. A vent'anni dalla chiusura sono sempre lì. A organizzare mostre e incontri (l'anno scorso il raduno regionale dei minatori), a raccontare ai giovani cos'era la vita nel buio delle gallerie, a proporre dimostrazioni sul lavoro, prima che storie e conoscenze vadano perdute. Su richiesta, accompagnano anche i visitatori. Continuano a proporre iniziative, invitano i minatori ad aderire all'associazione e portare il loro contributo, stimolano le amministrazioni a rompere gli indugi: «Regione, Parco geominerario, Comunità del parco, cioè i Comuni, devono uscire dalla fase di stallo - afferma Ugo Atzori - noi come sempre offriamo la massima disponibilità». Sono stati loro a far nascere il primo nucleo del museo minerario, senza il loro contributo il regista Gianfranco Cabiddu non avrebbe potuto girare le immagini del documentario - con centinaia di comparse - che nelle intenzioni doveva costituire la spina dorsale del percorso multimediale da offrire ai turisti. Ma il progetto si è misteriosamente bloccato. E dire che in quei giorni sembrava che Montevecchio fosse tornata a vivere. «Purtroppo era una finzione, solo apparenza», dice Egidio Cocco, esperto di minerali e amministratore dell'Associazione.
L'ESEMPIO DI ROSAS I minatori in pensione continuano a credere che il futuro sia qui, tra Montevecchio e Ingurtosu, dove l'unica novità in questi anni è stata la scommessa, finora vinta, di tanti agriturismo e bed and breakfast che accolgono visitatori incantati da questi paesaggi ma spesso spaesati perché non trovano un punto di ristoro o di informazioni aperto. Si guarda con un misto di ammirazione e rammarico all'esperienza di Narcao, dove l'amministrazione comunale ha avviato la riconversione della miniera di Rosas coinvolgendo i minatori in pensione: il vecchio impianto è accogliente, ci sono un bel museo e il percorso multimediale, bar, ristorante, le case degli operai ospitano i turisti a prezzi ragionevoli. «Il Comune di Narcao ha avuto massima fiducia nei vecchi minatori», afferma Atzori.
EMOZIONI E RIMPIANTI Montevecchio, miniera di emozioni , recitava lo slogan di un tempo. Ora l'emozione sta lasciando il posto al rimpianto per il tempo sprecato. Eppure la suggestione, per chi visita questo straordinario patrimonio di archeologia mineraria, è sempre la stessa. E poi ci sono loro, gli angeli custodi di Montevecchio e dintorni. Controllano e vigilano. Salvano, quando possono, ricordi e cimeli. Pensionati con una sola passione: non far morire la loro vecchia miniera.

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