11.3.11

Siamo creature

Questo giorno 11, così maledetto. Sempre ricorre, ultimamente. E dopo, solo il silenzio. Una strana, forse stolida consolazione, nello stordimento afasico di Hiroki Azuma: "Faccio lo scrittore - egli afferma - ma non sono ancora stato capace di mettere in parole ciò che stiamo vivendo". E, quando tace l'artista, tace l'uomo.

Sconvolto il Giappone da un tremendo tsunami e un altrettanto tremendo maremoto, che ha mietuto cinquemila vittime accertate. E poi, l'incubo nucleare. A Fukushima si sta verificando un principio di fusione. Il resto, per questo popolo che così dignitosamente subisce e galleggia su un infiammato lago di dolore, non riusciamo a immaginarlo. Affermare, come Azuma, che "niente sarà più come prima" non è un'espressione sciatta del linguaggio medio-quotidiano; è semplicemente vero; e la verità è nuda, cruda, scabra, materica.

Noi continueremo a scrivere, per sentirci vivi. Perché siamo obbligati, dannati all'esistenza. Perché non ci è lecito arrenderci, dopo l'ennesimo sfregio alla natura. Natura e cultura costituiscono i due cardini sui quali cresce il vilucchio della persona umana. Scinderli, allo stesso modo in cui avviene una scissione atomica, è contrastare, sovvertire il nostro status.

Rievoco, sgomenta, i miei autori. Il primo, senza dubbio, è Akira Kurosawa che, in quel lussureggiante affresco in celluloide dal titolo Sogni, aveva previsto la catastrofe nucleare. La Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, dove il protagonista viene punito con la morte-in-vita per quel gesto di malvagità totalmente gratuita. Un simbolo, l'assassinio dell'albatro, della nostra invidia d'un volo perduto: quello dell'anima.


La profezia di Kurosawa: nel lungometraggio del 1990 era il vulcano Fujiama a risvegliarsi, provocando un'ecatombe nucleare. In basso, l'episodio finale del film: l'umanità riscopre la semplicità e il dialogo con la natura.

Ma, più ancora, mi tornano alla mente versi franti, anch'essi scissi, sbocconcellati, come ruderi immoti dopo un'immane rovina. Sono una creatura di Ungaretti. Sì, egli la compose sotto le armi, mentre infuriava la guerra. Ma anche noi, oggi, siamo in guerra. Contro la nostra stessa ragion d'essere, contro la madre che abbiamo rinnegato.

"Sono una creatura" è un attestato, un vocabolo denso, delicato e donativo, relazionale, sponsale: è forza e fragilità. E' riconoscimento della propria natura, in un contesto del tutto scarnificato e isterilito. Della dipendenza da un'origine. Ma ricapitola, anche, quella cultura, quel progresso, quel futuro che può verificarsi soltanto col riconoscimento del proprio limite. Altrimenti, come il volo d'Ulisse, rimane follia, baratro, mare di fuoco su una terra desolata.

E non ci resta che questo stordimento, questa solitudine tremenda. Siamo creature; lo riconosciamo; come l'aveva riconosciuto l'epilogo del film di Kurosawa. Sono creature le vittime del lontano e vicinissimo Giappone, nostro autentico fratello in questa Terra ormai divenuta limbica, trasparente.



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