4.3.22

LA MIA COLPA? CHE MI HANNO VIOLENTATA Paola, messicana, economista, dormiva quando, in Qatar, un collega è entrato e l’ha stuprata. «Ho documentato tutto con le foto», racconta. E sporto denuncia. Però rischia 7 anni di carcere e 100 frustate.

  dal settimanale  oggi  


Quando venne data la notizia che sarebbe stato il Qatar a ospitare i primi Campionati del mondo di calcio in Medio Oriente, la Fifa e il Qatar presentarono un documento di 112 pagine in cui garantivano che i diritti umani sarebbero stati tutelati.




 Il Qatar, si legge, promuoverà «condizioni di lavoro e di vita dignitose» e verrà ribadito il divieto di «qualsiasi forma di discriminazione nei confronti di Paesi, persone o gruppi di persone in base a origine etnica, colore della pelle, nazionalità, origine sociale, orientamento sessuale, disabilità, lingua, religione, opinioni o qualsiasi altro status». Fatma Samoura, segretario generale della Fifa, continua a ripetere che i campionati di calcio nel novembre di quest’anno offrono «un’opportunità unica per apportare cambiamenti positivi, un’opportunità a cui né Fifa né Qatar possono e devono rinunciare».
Deve essere andato storto qualcosa se una donna messicana che lavorava all’organizzazione dei Mondiali rischia una condanna a 100 frustate e 7 anni di carcere per «sesso extraconiugale». La sua colpa? Essere stata violentata mentre era in Qatar. 

Paola Schietekat ha 28 anni, viene dal Messico ed è un’economista comportamentale che lavorava a Doha per il Supreme Committee for Delivery and Legacy. La sera del 6 giugno 2021 Schietekat dormiva nel suo appartamento. La donna racconta che un collega, che lei conosceva, si è intrufolato nella sua camera da letto e sarebbe riuscito a trascinarla a terra e violentarla, lasciandole braccia, spalle e schiena coperte di lividi. «Ho mantenuto la calma», racconta Paola Schietekat in una testimonianza a sua firma sul periodico messicano Julio Astillero, «l’ho detto a mia mamma e a una collega di lavoro e ho documentato tutto con le foto, in modo che la mia memoria, nel tentativo di proteggersi, non minimizzasse gli eventi o ne cancellasse completamente una parte». Schietekat conosce bene quella fitta di dolore e di paura, aveva 16 anni quando il suo primo ragazzo la violentò minacciando di ucciderla.

Decide di denunciare. Ottiene un certificato medico e va alla polizia con il console messicano in Qatar. Sarebbe una delle molte storie di violenza, ma il giorno stesso Schietekat viene richiamata in commissariato, tre ore di interrogatorio in cui capisce di essere passata dalla parte
dell’accusata

Le chiedono un test di verginità, vogliono controllarle il telefono per scoprire se avesse una relazione con l’aggressore che dichiarava di essere il suo fidanzato. «Tutto ruotava attorno alla relazione extraconiugale, mentre, sotto la mia abaya, la casacca che mi consigliavano di indossare per sembrare una “donna di buoni costumi”, portavo i segni, viola, quasi neri. Il mio avvocato capiva a malapena. Ho dovuto consegnare il mio telefono, sbloccato, alle autorità, se non volevo andare in galera», racconta Schietekat.



La donna, con l’aiuto del Comitato organizzatore dei Mondiali, riesce a tornare in Messico. Il tribunale, intanto, ha assolto l’aggressore perché, nonostante il referto medico, i giudici scrivono che «non c’erano telecamere che puntassero alla porta dell’appartamento, quindi non c’era modo di verificare che l’aggressione fosse avvenuta». In Qatar, del resto, la testimonianza di un uomo vale di più di quella di una donna, come avveniva da noi prima che il deputato Salvatore Morelli, dell’area riformista, scheggiasse il tetto di cristallo. Era il 1887.

Per chiudere il caso che il Qatar ha aperto contro di lei, Schietekat ha solo una soluzione: sposare il suo aggressore (anche questo accadeva da noi fino a prima del 5 settembre 1981 quando la legge 442 abolì il delitto d’onore e il matrimonio riparatore). «Senza una posizione ferma della comunità internazionale», scrive Paola Schietekat, «le leggi draconiane, retrograde e persino assurde troveranno un piccolo buco per continuare a giustificarsi, all’ombra di grandi eventi sportivi o culturali». Quando alla cerimonia in mondovisione tutto sarà festa, scomparirà la storia di Paola e degli altri diritti negati. La colpevolizzazione della vittima passa dalle istituzioni. Le donne non vogliono essere coraggiose, vogliono essere al sicuro. Chissà se alla Fifa sono d’accordo.

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