È sempre lui. Lo è nel respiro affannoso, nei lineamenti sformati che gli hanno regalato un gonfiore giovanneo, mentre la tenacia, diversa ma non meno potente, lo accomuna all'ultimo Wojtyla. Le cui benedizioni erano ormai diventate un roco e inafferrabile biascichio.
Un tempo era proibito mostrare in pubblico il Papa sofferente. Adesso è il Pontefice medesimo a esporsi, nella nudità della malattia. Ed è il suo momento più vero: la forza del cristianesimo sta qui, nel rovesciamento d'una vita che acquista tanto più valore quanto più perde vigore, in una debolezza stremata, morale prima che fisica. Molte volte Gesù provò delusione, ma la suprema la sentì lì, sulla croce, mentre tutti i suoi ideali di amicizia e pace scivolavano via, assieme al sangue e all'acqua.
Francesco non è Gesù. Francesco è soltanto Pietro. Ma il maestro, di quella sua testa petrosa, ha voluto fidarsi, ancorché l'abbia rinnegato bestemmiando di paura. Nemmeno Francesco ha la scorza tenera, è impetuoso, talora cocciuto. Però sa parlare anche nel silenzio, e in questi giorni, quanto è stato eloquente in quell'infermità. Quanto la sua sofferenza ha messo in risalto la nostra (mala) sanità, le nostre fragorose grida di guerra, vendetta e sopraffazione. Il Dio di Francesco, dei cristiani tutti/e, è il Dio sconfitto, che monda il mondo ma non è di questo mondo. La croce è una stretta fessura. Ma non è il buio, non serve un abbaglio, basta una lamina di luce. Sono solo tre giorni. È a noi che passa il testimone. Di noi, si fida. E credere a questa fiducia è già resurrezione.
© Daniela Tuscano
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