questo post di Elisa lapenna conferma la mia recensione precedente sul suo blog https://nessundatodisponibile.blog/
Un ragazzo di 14 anni, Paolo, si è tolto la vita in una cittadina di provincia.
Non era un nome famoso, non aveva follower da milioni, non ha lasciato dietro di sé manifesti o proclami. Ha lasciato solo un vuoto. E al suo funerale, tra parenti e pochi adulti, si è presentato un solo compagno di scuola. Uno soltanto. Questa non è cronaca nera. È il ritratto impietoso della nostra società.
Bullismo: sempre più precoce, sempre più crudele Un tempo il bullismo era confinato alle superiori: “ragazzi grandi” che si accanivano su chi era diverso. Oggi invece la violenza comincia già alle elementari. Bambini di 8, 9, 10 anni che imparano troppo presto la legge del branco, che colpiscono il più fragile, il più sensibile, il più “fuori posto”.
Ragazzi sempre più giovani usano le parole come coltelli e i social come amplificatori di crudeltà. Un soprannome derisorio diventa virale,un video di umiliazione fa il giro della chat di classe. La violenza non finisce più al suono della campanella: ti segue a casa, nello zaino e nel cellulare.
Docenti che non vedono (o non vogliono vedere)
Molti insegnanti dicono: “Non abbiamo avuto segnalazioni”. Ma davvero un ragazzo che soffre deve essere lui a denunciare?
Quanti silenzi si nascondono dietro le mura di un’aula? Quanti occhi bassi si spengono senza che nessuno li noti?
Il problema è che spesso la scuola si difende dietro protocolli, sportelli d’ascolto e burocrazie, ma manca la cosa più semplice: guardare i ragazzi negli occhi, accorgersi dei segnali, non girarsi dall’altra parte.
Un insegnante non è solo un trasmettitore di nozioni: è un adulto di riferimento. Eppure troppo spesso prevale la paura di “esporsi”, di “creare problemi”. Così si preferisce minimizzare, archiviare come “ragazzate”, lasciare che il tempo passi. Ma il tempo, in certi casi, uccide.
Genitori distratti, troppo occupati, troppo stanchi
E i genitori? Anche qui, la responsabilità è collettiva. Ci sono madri e padri che difendono i propri figli a prescindere, anche quando fanno del male: “È solo un bambino, non voleva”, “Sono cose che succedono”. Ma un insulto non è un gioco. Un pestaggio non è una bravata. Un’umiliazione non è una fase.
Ci sono genitori che non educano, perché non hanno tempo, perché sono presi da mille problemi, perché scaricano la responsabilità su scuola e società. Ma la prima educazione comincia in casa: il rispetto, l’empatia, la capacità di chiedere scusa.
Un ragazzo che cresce senza limiti, senza guida e senza esempi, diventa un adolescente che sperimenta il potere umiliando gli altri. E così si alimenta un ciclo di violenza che miete vittime silenziose.
Una società che parla ma non agisce
Ogni volta che un caso come quello di Paolo arriva alle cronache, ci indigniamo per due giorni. Politici, giornalisti, opinionisti: tutti a parlare di bullismo. Poi la vita torna alla normalità, finché un altro adolescente non decide che vivere è troppo doloroso.
È questa la nostra colpa più grande: l’abitudine al dolore. Ci siamo anestetizzati. Guardiamo la tragedia come fosse uno spettacolo, senza renderci conto che riguarda tutti noi.
Appello
Io ho un figlio di 13 anni. So cosa significa vederlo tornare a casa con il peso di parole che fanno male. So cosa significa preoccuparsi per la cattiveria di bande di ragazzini cresciuti senza una vera educazione. E tremo, perché la storia di Paolo potrebbe essere la storia di mio figlio. O di qualsiasi altro ragazzo.
Per questo scrivo. Perché non possiamo più permetterci di restare fermi.
Non basta indignarsi. Serve agire. Serve educare i nostri figli al rispetto. Serve che gli insegnanti abbiano il coraggio di intervenire. Serve che la società smetta di chiudere gli occhi.
La morte di Paolo non è solo la sua tragedia. È la nostra sconfitta. E se non trasformiamo questa sconfitta in un cambiamento, allora siamo tutti complici.
Perché un ragazzo di 14 anni non dovrebbe mai sentirsi solo al punto da scegliere la morte.
Elisa Lapenna

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