Sempre sul gioco del calcio oltre il libro di Cavina da me recensito qui sul blog ho trovato nel bolettino ANNO I numero 4 APRILE 2007 letterario e culturale che m'arriva via email dell’Associazione Culturale Gennaro Sparagna ( direttore responsabile e proprietaria della testata Sparagna Irene - redazione: via stazione snc - 04026 Tremensuoli di Minturno (Lt) Email irene@irenesparagna.it Web www.irenesparagna.it ) ho trovato questo bel racconto breve che s'intitola La partita Racconto breve di Sandra Cervone e che ripropongo sotto
Camminava seguendo i suoi pensieri. Suo padre se n'era andato da casa che lui aveva solo sei anni. E Ivan,
allora, nonostante i suoi trentanni compiuti, si sentiva ancora un ragazzino e non capiva proprio cosa volessero
dire tutti quei: "Ma ormai sei cresciuto!". Adorava i bambini piccoli, quelli che sentiva più simili a lui. Voleva
solo guardarli, parlare con loro. Ridere, scherzare. Sentirsi ancora così tenero e tranquillo da non provare mai
più il dolore provato. I bambini non sanno fronteggiare le sorprese. Si lasciano andare agli sguardi, ricambiano
i sorrisi. Rispondono ai pensieri inespressi.
Ivan,perciò, usciva tutti i pomeriggi per andare a cercare i bambini. Prendeva un autobus e raggiungeva lo sta-
dio. A quell'ora tanti piccoli atleti si allenavano tra sudore e allegria. Ridevano, litigavano, gioivano per un
canestro, battevano le mani, tiravano il pallone con impeto e passione.
Ivan seguiva quel gioco guardando oltre la rete. E si rivedeva. Piccolo ma già grande per capire. Piccolo e im-
plorante le carezze dal padre che scappava. Proprio la sera prima della sua prima partita! Lacrime. Fiumi di
lacrime. E la mamma che non voleva spiegare.
Poi, tutte le volte, qualcuno interrompeva i suoi ricordi. "Ehi, giovanotto, che ci fai da queste parti? Ti avevo
detto di non tornare più...allontanati o chiamo la polizia".
E Ivan si risvegliava alle parole acide del custode del palazzetto, iniziava a correre forte per non sentire quel
ritornello. Poi, il pomeriggio seguente, tornava nei pressi della struttura sportiva e riprovava a sognare.
Un giorno, finalmente, riuscì a varcare una porta sempre chiusa e raggiunse i bambini fino alla palestra inter-
na.
Che belli! pensava. Che dolci! E batteva le mani per richiamare i loro sorrisi.
"La facciamo una partita? La facciamo?"
"C'e il matto! C'è il matto!" Ridacchiavano i bambini.
"Quale matto? Quale matto?" Intervennero gli allenatori.
"Sono io! Sono il matto!" Si mise ad urlare facendo piroette per divertire i bambini.
Ma gli adulti, si sa, non riescono mai a ridere troppo coi matti e allora Ivan si ritrovò per strada scaraventato
nel silenzio della follia riconosciuta.
Corse a lungo, graffiandosi il viso, imprecando a gran voce contro il mondo e la sfortuna...
Sudato e imbrattato arrivò nel paese vicino. Entrò in un bar ed urlò la sua pena. Lo cacciarono anche di lì e si
mise a dare calci alle vetrate.
Poi la vide. Piccola, indifesa, che giocava in silenzio con le foglie delle aiuole. Si avvicinò, le parlò, divenne
tenero come non era mai stato. "Che ci fai tutta sola per strada?" "Sono con la mamma"rispose la bambina. E
indicò un tavolino del bar dove una coppia di giovani donne prendeva un caffè con un uomo ed un ragazzino.
"Perchè ti hanno lasciata sola? -chiese Ivan seriamente preoccupato- Lo sanno che è pericoloso lasciare i bam-
bini da soli per strada?"
Fu a quel punto che allungò un braccio per farle una carezza ma lo zio della piccola fece in tempo a bloccarlo
aggredendolo con le parole. "Ma che vuoi? Ma chi ti ha detto di spaventare la bambina? Non ti permettere
nemmeno di sfiorarla...capito?"
Ivan farfugliò una risposta, poi cercò una scusa, poi rimproverò a sua volta quell'uomo avvertendolo dei peri-
coli che una bambian sola può correre per strada....
Poi sorrise e chiese: "Giochiamo a pallone?"
E quando il pugno gli arrivò dritto sul naso, indietreggiò spaventato e confuso e si lasciò cadere sul manto stra-
dale, come un birillo di legno colpito e abbattuto.
" Canestro!" riuscì ad urlare mentre una, due, tre macchine correvano all'impazzata...
Ivan sentiva soltanto il dolore. Ed il cielo, lontanissimo, diventava nero come non lo era mai stato.
"Papà...-ripeteva- non sono stato cattivo, perchè vuoi andare via? Perchè mi lasci solo?"
E quel fiotto di sangue sull'asfalto urlò più forte di una sirena impazzita.
Ivan tornava davvero bambino e gli allenatori di basket non lo scacciavano più...facendolo giocare nella pale-
stra più grande del mondo, con tanti amici che ridevano e gioivano mentre un pallone entrava nel canestro tra
gli applausi e le ovazioni.
"Papà: guardami...guardami ora!"
E del suo cuore non rimase che una coccarda appuntata proprio lì, in bilico tra la morte e la non-vita.
Per la "sua" partita, finalmente! L'ultima.
Sandra Cervone
Camminava seguendo i suoi pensieri. Suo padre se n'era andato da casa che lui aveva solo sei anni. E Ivan,
allora, nonostante i suoi trentanni compiuti, si sentiva ancora un ragazzino e non capiva proprio cosa volessero
dire tutti quei: "Ma ormai sei cresciuto!". Adorava i bambini piccoli, quelli che sentiva più simili a lui. Voleva
solo guardarli, parlare con loro. Ridere, scherzare. Sentirsi ancora così tenero e tranquillo da non provare mai
più il dolore provato. I bambini non sanno fronteggiare le sorprese. Si lasciano andare agli sguardi, ricambiano
i sorrisi. Rispondono ai pensieri inespressi.
Ivan,perciò, usciva tutti i pomeriggi per andare a cercare i bambini. Prendeva un autobus e raggiungeva lo sta-
dio. A quell'ora tanti piccoli atleti si allenavano tra sudore e allegria. Ridevano, litigavano, gioivano per un
canestro, battevano le mani, tiravano il pallone con impeto e passione.
Ivan seguiva quel gioco guardando oltre la rete. E si rivedeva. Piccolo ma già grande per capire. Piccolo e im-
plorante le carezze dal padre che scappava. Proprio la sera prima della sua prima partita! Lacrime. Fiumi di
lacrime. E la mamma che non voleva spiegare.
Poi, tutte le volte, qualcuno interrompeva i suoi ricordi. "Ehi, giovanotto, che ci fai da queste parti? Ti avevo
detto di non tornare più...allontanati o chiamo la polizia".
E Ivan si risvegliava alle parole acide del custode del palazzetto, iniziava a correre forte per non sentire quel
ritornello. Poi, il pomeriggio seguente, tornava nei pressi della struttura sportiva e riprovava a sognare.
Un giorno, finalmente, riuscì a varcare una porta sempre chiusa e raggiunse i bambini fino alla palestra inter-
na.
Che belli! pensava. Che dolci! E batteva le mani per richiamare i loro sorrisi.
"La facciamo una partita? La facciamo?"
"C'e il matto! C'è il matto!" Ridacchiavano i bambini.
"Quale matto? Quale matto?" Intervennero gli allenatori.
"Sono io! Sono il matto!" Si mise ad urlare facendo piroette per divertire i bambini.
Ma gli adulti, si sa, non riescono mai a ridere troppo coi matti e allora Ivan si ritrovò per strada scaraventato
nel silenzio della follia riconosciuta.
Corse a lungo, graffiandosi il viso, imprecando a gran voce contro il mondo e la sfortuna...
Sudato e imbrattato arrivò nel paese vicino. Entrò in un bar ed urlò la sua pena. Lo cacciarono anche di lì e si
mise a dare calci alle vetrate.
Poi la vide. Piccola, indifesa, che giocava in silenzio con le foglie delle aiuole. Si avvicinò, le parlò, divenne
tenero come non era mai stato. "Che ci fai tutta sola per strada?" "Sono con la mamma"rispose la bambina. E
indicò un tavolino del bar dove una coppia di giovani donne prendeva un caffè con un uomo ed un ragazzino.
"Perchè ti hanno lasciata sola? -chiese Ivan seriamente preoccupato- Lo sanno che è pericoloso lasciare i bam-
bini da soli per strada?"
Fu a quel punto che allungò un braccio per farle una carezza ma lo zio della piccola fece in tempo a bloccarlo
aggredendolo con le parole. "Ma che vuoi? Ma chi ti ha detto di spaventare la bambina? Non ti permettere
nemmeno di sfiorarla...capito?"
Ivan farfugliò una risposta, poi cercò una scusa, poi rimproverò a sua volta quell'uomo avvertendolo dei peri-
coli che una bambian sola può correre per strada....
Poi sorrise e chiese: "Giochiamo a pallone?"
E quando il pugno gli arrivò dritto sul naso, indietreggiò spaventato e confuso e si lasciò cadere sul manto stra-
dale, come un birillo di legno colpito e abbattuto.
" Canestro!" riuscì ad urlare mentre una, due, tre macchine correvano all'impazzata...
Ivan sentiva soltanto il dolore. Ed il cielo, lontanissimo, diventava nero come non lo era mai stato.
"Papà...-ripeteva- non sono stato cattivo, perchè vuoi andare via? Perchè mi lasci solo?"
E quel fiotto di sangue sull'asfalto urlò più forte di una sirena impazzita.
Ivan tornava davvero bambino e gli allenatori di basket non lo scacciavano più...facendolo giocare nella pale-
stra più grande del mondo, con tanti amici che ridevano e gioivano mentre un pallone entrava nel canestro tra
gli applausi e le ovazioni.
"Papà: guardami...guardami ora!"
E del suo cuore non rimase che una coccarda appuntata proprio lì, in bilico tra la morte e la non-vita.
Per la "sua" partita, finalmente! L'ultima.
Sandra Cervone
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