Nel 2005, quando pubblicai la prima edizione de La Resistenza spiegata a mia figlia, il dibattito sulla lotta partigiana procedeva per schieramenti rigidi. Mi ero messo a scrivere per alleviare la tristezza: soffrivo nel vedere affievolirsi il significato di una festa gioiosa come il 25 aprile, oscurato dal peso dolente del 27 gennaio. Per gli studi che ho svolto, spiegare la Shoah a mia figlia sarebbe stato più comodo. Nei giorni successivi all’uscita del libro, la vanità che alberga in ogni autore fu appagata dalla voce squillante di Margherita, una compagna di scuola di mia figlia, che mi lesse al telefono la scheda uscita su Metro, il giornalino distribuito gratis nelle stazioni ferroviarie: «In questi giorni di overdose di documentari sui 60 anni dal 25 aprile cade l’occhio su un libretto di Alberto Cavaglion, 49 anni, che tenta una missione impossibile: raccontare a sua figlia Elisa, 16 anni, generazione “non so chi è Badoglio”, la Resistenza. Lo sforzo è di riassumere per blocchi (fu davvero guerra civile? quale significato dare alla violenza?) tenendo presente il filo storico dopo un mare magnum di letture e controletture (da Bocca a Pansa) sul tema. Fare il punto non significa non avere un punto di vista etico-morale. Una lettura dietetica: si esce dal centinaio di pagine senza il senso di aver ingurgitato chili di panna montata». Autocritica di una generazione Quel consiglio “dietetico” mi sentirei di ripeterlo adesso. Fa parte della dieta il nutrimento offerto da grandi scrittori che hanno raccontato la Liberazione (Beppe Fenoglio, Italo Calvino, soprattutto Luigi Meneghello), ma una parte importante spetta ai libri di famiglia. La Resistenza spiegata a mia figlia doveva tantissimo alla Resistenza narratami da mio padre, che fu tra i 12 giovani a seguire Duccio Galimberti alla Madonna del Colletto il 12 settembre 1943. Tutto cambia e la mia generazione, in termini di trasmissione della memoria, ha il dovere di portare a termine un sano esercizio di autocritica. Molte cose sono cambiate rispetto al 2005. Il primo consiglio “dietetico” che vorrei dare è di guardare alla lezione delle cose. Meglio non fidarsi troppo di parole impegnative come Resistenza quando sono accompagnate da un aggettivo qualificativo, sia pure suggestivo. Gli allargamenti terminologici sono quasi sempre concepiti allo scopo di rendere esteso ciò che invece è giusto rimanga piccolo: le piccole virtù, le minoranze virtuose, “i piccoli maestri” direbbe Meneghello. Togliendo il superfluo si arriva alla sostanza. Vere e proprie nebulose appaiono coppie di parole, che sono andate per la maggiore: Resistenza tradita, Resistenza mancata, Resistenza taciuta, Resistenza passiva, Resistenza disarmata, Resistenza legittimata (o delegittimata). Lo stesso esercizio si può fare con antifascismo: antifascismo militante, antifascismo difensivo, antifascismo esistenziale. Può darsi un antifascismo che non sia esistenziale? La Resistenza è o non è. Se non medita di attaccare l’avversario cessa di essere sé stessa. Resistenza disarmata Negli ultimi anni molta attenzione è stata riservata alla "Resistenza disarmata”. E questo è sicuramente un bene, anche se la storia militare – sia pure una storia militare sui generis come quella di cui stiamo parlando – non può essere un dettaglio. Sulle armi bisogna intendersi subito. Non averle è molto rischioso, ma sono fin dall’inizio scarse. Sono poche, non funzionano affatto o molti partigiani non sono capaci di farle funzionare. Si cerca di prenderle nelle caserme abbandonate dopo l’8 settembre, ma i risultati non sono affatto soddisfacenti. Mancano i pezzi di artiglieria, i ricambi, manca specialmente chi sappia insegnare ad usarle. Roberto Battaglia, prima di salire in Umbria con i partigiani, ha lasciato sul tavolo le bozze di una sua monografia sul Bernini, non sa neanche come si impugna una pistola. Appena arrivato in Valle d’Aosta a Brusson, Primo Levi contempla allibito l’arma che gli viene data: gli sembra quella che le contesse adoperano nei film. Si cerca di sottrarre armi ai tedeschi, ai repubblichini, ma per tutto il periodo del conflitto, il problema delle armi è, innanzitutto, quello della loro mancanza. I lanci degli alleati tardano ad arrivare, nel primo inverno sono rarissimi, spesso hanno per destinatari soltanto i partigiani monarchici, i badogliani e questo genera risentimenti. Le cose migliorano alla fine del secondo inverno quando i rifornimenti diventano più consistenti, ma la questione delle munizioni rimane una tragedia irrisolta fino alla fine. Disarmata, spesso, la Resistenza è per dura necessità. Zone d’ombra Si potrebbe continuare a lungo nel gioco degli aggettivi inutili. Anche il concetto di Resistenza ebraica va sottoposto a un’analisi critica, come ha fatto di recente Daniele Susini nella sua bella sintesi (Donzelli). Le difformità, per l’Italia, sono doppiamente vistose per la ragione che la Resistenza non è comparabile con altre realtà europee: in primo luogo perché nasce tardi, sull’onda di una sconfitta militare; in secondo luogo perché le divisioni politiche, già prima che il fascismo prendesse il potere, erano profonde e non saranno superate durante i mesi della clandestinità (per poi riesplodere in forma acuta nel dopoguerra). Diventa ogni giorno più urgente riconoscere il problema della (relativa) lentezza del processo di acquisizione di una consapevolezza politica da parte di maggioranza e minoranze; andrà prima o poi analizzato anche il problema del rapporto fra i partigiani (quale che fosse il loro orientamento) e le leggi razziali del 1938: si ha l’impressione che il dramma dell’antisemitismo sia stato sottovalutato: altre colpe del regime apparivano più gravi. In certe realtà dove la Resistenza sorse in modo particolarmente disordinatosi diedero anche esempi di vessazioni contro famiglie, donne e anziani, che avevano trovato asilo nelle stesse baite dove si formavano le prime bande partigiane. La sventurata storia delle prime settimane autunnali in Valle d’Ayas a Brusson, dove la formazione partigiana di Gl cui aveva aderito Primo Levi ebbe a scontrarsi con altre formazioni prive di scrupoli, ha svelato zone d’ombra e contraddizioni che rivelano l’importanza, direi l’urgenza, di una ricostruzione meno frettolosa e semplicistica di quelle che si sono lette. Altri elementi di possibile fraintendimento erano già stati messi in evidenza dai diari che ci hanno lasciato figure molto rappresentative. Avevano compreso i rischi connessi alla celebrazione retorica, all’iconografia mitologica: «Può essere che in futuro questo mio spregiudicato e pessimistico diario possa fare cattiva impressione: si dirà che io, arrampicandomi per la montagna mi fermavo a osservare sterpi e sassi – i brutti episodi son numerosi – e non guardavo la vetta e il paesaggio. Errore, errore. Se non vedessi la vetta e il paesaggio non farei la dura salita; ma per timor di retorica preferisco tacere gli alti ideali». Così scriveva Emanuele Artom, prima di essere torturato e ucciso nel 1944. Nel suo diario invitava a raccontare anche le cose sgradevoli, «perché fra qualche decennio una nuova rettorica patriottarda o pseudo-liberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi; siamo quello che siamo: un complesso di individui, in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania». Se Artom fosse stato ascoltato il caso-Pansa sarebbe evaporato al sole del 25 aprile in un istante. Un’idea di Resistenza che trae la sua forza dal disincanto dei piccoli maestri che cercano dentro se stessi la ragione della menzogna di cui sono stati vittime è quella che in futuro potrà esserci più utile. Scrive sempre Artom: «Il fascismo non è una tegola cadutaci per caso sulla testa; è un effetto della a-politicità e quindi della immoralità del popolo italiano. Se non ci facciamo una coscienza politica non sapremo governarci e un popolo che non sa governarsi cade necessariamente sotto il dominio straniero o sotto una dittatura». |
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