Afghanistan dall'intervento dell'ex Urss a pantano dell'occidente

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da l'unione  sarda del 24\12\2013  

Trappola Afghanistan, il Vietnam dell'Armata Rossa
Vigilia di Natale del 1979: carri armati e parà dell'Armata rossa varcano all'alba la frontiera afghana. Obiettivo: imporre un regime filosovietico nella terra del mullah islamici. È il Vietnam dei russi. Che lasceranno sul terreno decine di migliaia di morti. Per l'Urss è l'inizio della fine.


Il Vietnam della Russia inizia all'alba del 24 dicembre 1979: i carri T62 dell'Armata rossa entrano in Afghanistan. È l'ultima invasione di un esercito comunista. L'inizio della fine. La prima breccia su un muro - quello di Berlino - distante migliaia di chilometri da una Kabul semideserta e
addormentata. Dieci anni di guerra, due milioni di civili afghani morti, 90 mila mujaheddin, 26 mila russi.
È la vigilia di Natale ma nel paese dei mullah non ci sono chiese. I mezzi corazzati del generale Mikhailov entrano in città senza incontrare resistenza. I parà occupano i palazzi pubblici e uccidono senza pietà il presidente Amin, l'uomo che aveva osato disobbedire ai consiglieri del Cremlino. Al suo posto issano il fantoccio Babrak Karmal: resterà al potere fino al 4 maggio 1986.
L'invasione provoca la ribellione delle popolazioni islamiche del Caucaso e dell'Asia centrale, che da tempo guardano con speranza all'Iran di Khomeini. Theran e Pakistan diventano le basi logistiche della resistenza dei mujaheddin afghani.
In pochi giorni la forza d'invasione sovietica sale a 90 mila uomini. Occupata Kabul e gli altri principali centri del Paese, l'Armata Rossa punta sul Kyber Pass e gli altri valichi che collegano l'Afghanistan con Peshawar e Rawalpindi, le basi logistiche dei mujaheddin in Pakistan.
L'obiettivo è chiudere le strade e rendere impenetrabili le frontiere. È il primo fallimento. Molti soldati sovietici sono musulmani e si rifiutano di sparare sui loro correligionari: un problema che Breznev non aveva messo nel conto. Non solo: a guardia dei passi, in attesa di truppe fresche dall'Urss, i russi schierano soldati afghani male armati e peggio addestrati. È una carneficina.
Dalle basi pakistane i mujaheddin sferrano attacchi feroci e velocissimi. A Herat decimano un intero reggimento corazzato russo. Sono armati di AK47 Kalashnikov, sottratti nelle caserme dell'esercito afghano. Dopo i primi mesi di guerriglia, sotto la guida di Ahmed Shad Massud, il leone di Panishir, attaccano anche a nord, al passo di Salang, sulla strada che porta da Kabul al confine sovietico. I russi rispondono con la guerra chimica contro la popolazione che appoggia i mujaheddin, utilizzando gas tossici, nervini, micotossine e la micidiale e letale «pioggia gialla».
Anche per la Russia, come per l'America in Vietnam, la guerra in Afghanistan si trasforma ben presto in un lungo, estenuante stillicidio. Nel 1981 i mujaheddin sconfiggono i russi nella battaglia di Paghman, 20 chilometri a sud di Kabul. Falliscono invece le due offensive lanciate dai sovietici a giugno e a settembre.
L'anno seguente il viceministro della Difesa sovietico Serghej Sokolov fa affluire truppe fresche per una serie di grandi operazioni di terra con l'appoggio di aerei ed elicotteri. Ma altre quattro offensive si risolvono in altrettanti fallimenti contro un nemico imprendibile che usa la stessa tattica «mordi e fuggi» utilizzata dai vietcong contro gli americani. La situazione, per i russi, precipita nel 1984, quando i guerriglieri prendono d'assalto Kabul difesa dai paracadutisti sovietici a costo di gravi perdite. I sovietici destituiscono l'inetto Karmal con Najibullah, ritenuto più energico. Ma ormai l'esito della guerra è segnato. La strategia di Mikhailov e del successore Zaitsev mira a limitare le perdite e a preparare l'umiliante ritirata strategica, in realtà quasi una fuga, dall'inferno afghano. L'11 marzo 1985 a Mosca muore Yuri Andropov, succeduto tre anni prima a Breznev. Mickhail Gorbaciov è il nuovo segretario generale del Pcus. Un anno e mezzo dopo ordina il ritiro dell'Armata rossa dall'Afghanistan. Il 15 febbraio 1989 l'ultimo soldato russo volta le spalle ai palazzi di Kabul.

Ma  l'intervento sovietico  fu dovuto non solo  al tentativo  di assumere io controllo  perchè  non si fidava  di un governo fantoccio  m anche   da , sempre  secondo  l'unione  sarda 

Una strana missione per gli 007 di Carter: provocare l'attacco dei russi ai mujaheddin
La guerra segreta della Cia a Kabul


Gennaio 1998, sono trascorsi nove anni dal ritiro dei sovietici da Kabul. Il consigliere alla sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, concede un'intervista al settimanale francese Le Nouvel Observateur. E rivela che la Cia era penetrata in Afghanistan, al fine di destabilizzare il governo di Kabul, già nel luglio del 1979, cinque mesi prima dell'intervento sovietico.
Carter - racconta Brzezinski - il 3 luglio autorizzò l'azione coperta per aiutare segretamente gli oppositori del governo filosovietico. Quello stesso giorno lo stratega statunitense di origine polacca scrive una nota al presidente in cui spiega che la sua direttiva avrebbe indotto Mosca a intervenire militarmente. Previsione che si avverò il 24 dicembre di quello stesso anno.
Brzezinski ricorda che quando i sovietici entrarono in Afghanistan inviò a Carter un'altra nota: «Scrissi che gli Stati Uniti avevano finalmente avuto l'opportunità di dare all'Unione sovietica la sua guerra del Vietnam».
La guerra afghana, insostenibile per Mosca, secondo Brzezinski avrebbe condotto l'impero sovietico al collasso. Fu facile profeta: l'intervento a favore del governo comunista di Kabul, infatti, contribuì ulteriormente a indebolire l'Urss sia sul piano politico sia su quello economico.
Il ritiro dell'Armata Rossa dal teatro afghano lasciò l'intera area in una situazione di estrema fragilità politica, economica e soprattutto geostrategica.
Dopo neanche dieci anni dalla rivoluzione islamica in Iran, l'intera regione venne completamente destabilizzata a esclusivo beneficio del sistema occidentale.
Il contemporaneo e inarrestabile declino dell'Unione sovietica, accelerato dall'avventura afghana e successivamente lo smembramento della Federazione jugoslava (una sorta di stato tampone tra i blocchi occidentale e sovietico) degli anni Novanta aprirono le porte al dilagare dell'influenza americana, dell'«hyperpuissance», secondo la definizione del ministro francese Hubert Védrin, nello spazio eurasiatico.
Dopo il sistema bipolare del mondo diviso nei due blocchi occidentale e sovietico-comunista, è l'inizio di una nuova stagione: quella del «momento unipolare». Questo nuovo equilibrio, non essendo in realtà tale, avrà tuttavia una breve vita. Terminerà all'alba del XXI secolo, con la riaffermazione della Russia come potenza globale, la crescita dei grandi stati asiatici - Cina e India - nell'emisfero settentrionale del pianeta; e la concomitante evoluzione autonomista dell'Argentina, del Brasile e del Venezuela, nell'emisfero meridionale.
Oggi, dopo l'intervento statunitense del 2001 seguito allo choc dell'11 settembre, quella che Brzezinski definiva la trappola afghana dei sovietici è diventata il pantano dell'Occidente. Non solo degli Usa ma anche di noi italiani.

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