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1.6.25

su meta ( facebook , istangram , thereads ) è vietato parlare di gaza oltre alle versioni ufficiali . il caso della chisura dell'account di Claudia Sarritzu, giornalista e scrittrice cagliaritana,



Negli ultimi anni, l’informazione ha subito una trasformazione radicale, alimentata dal declino del giornalismo tradizionale e dall’ascesa dei media digitali. Secondo l’ultima rilevazione dell’Agcom pubblicata a marzo del 2025, meno del 7% degli italiani paga per accedere ai quotidiani online, mentre la maggior parte delle persone — in particolare i più giovani — si informa tramite internet e social media. Piattaforme come Facebook rappresentano oggi le principali fonti d’accesso alle notizie, ridisegnando la mappa del potere informativo.
Questo cambio di paradigma ha favorito la nascita di nuove voci e forme di divulgazione, ma ha anche generato nuove forme di censura, spesso più subdole. Shadow banning, demonetizzazione, sospensioni arbitrarie: chi sceglie di non allinearsi alla narrazione dominante può ritrovarsi rapidamente ai margini del dibattito pubblico, anche senza un’accusa formale.
In questo contesto si inserisce la storia di Claudia Sarritzu, giornalista sarda con una lunga esperienza alle spalle. Dopo aver collaborato con radio e quotidiani locali, ha scritto per dieci anni su politica nazionale e internazionale per Globalist. È autrice di due saggi: 'La Sardegna è un'altra cosa', un’indagine sulla crisi economica nell’Isola, e 'Parole avanti', dedicato al linguaggio di genere e ai nuovi femminismi in Italia e all’estero. Ha vinto nel 2019 il premio nazionale di saggistica “Giuditta”. Ha inoltre realizzato decine di interviste video per Tiscali, dialogando con alcuni tra i maggiori scrittori del panorama italiano. Oggi lavora nel campo della comunicazione istituzionale.
Nonostante il suo solido percorso professionale, Claudia è stata recentemente censurata da Meta: i suoi profili sono stati rimossi dopo la pubblicazione di contenuti — foto, video e testimonianze — relativi a quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza. La sua vicenda solleva interrogativi urgenti sul ruolo degli algoritmi, sulla libertà d’espressione online e sui nuovi confini — spesso opachi — tra informazione e censura.                      


   unione  sarda   1\6\2025 


Da un giorno all’altro la sua identità social è sparita nel nulla, cancellata per sempre. Anni e anni di post, commenti, articoli, condivisioni, foto e messaggi sono stati eliminati da Facebook e Instagram, insieme ai suoi profili. Claudia Sarritzu, giornalista e scrittrice cagliaritana, si è ritrovata da un giorno all’altro
senza più nulla. Il perché? I suoi account, seguiti da oltre 30mila follower ufficiali, non avrebbero, secondo Meta, “rispettato gli standard della community in materia di integrità dell’account”. Nessuna spiegazione in più. Ma lei ha un’idea ben precisa di cosa sia accaduto: «I miei contenuti su quanto sta succedendo a Gaza sono circolati sempre più nella settimana precedente alla cancellazione dei miei account. Probabilmente ci sono state tantissime segnalazioni e l’algoritmo ha deciso di eliminare le mie identità social».

Quando e come si è accorta che il suo profilo Facebook e quello Instagram erano stati bloccati?

«Una mattina mi sono collegata come faccio sempre e un messaggio mi avvertiva che il mio account era stato sospeso momentaneamente per delle verifiche su delle segnalazioni fatte per capire se avessi violato gli standard della community. Poi, dopo tre ore mi è arrivata la comunicazione: avendo violato questi standard, avevo perso tutto. Il miei profili Facebook, uno privato e pubblico, con più di 32 mila follower, oltre a quello su Instagram sono stati bloccati».

Cosa ha provato?

«Sono rimasta senza nulla. È uno choc. C’è un link per recuperare dei contenuti ma serve davvero a poco. Viene di fatto cancellata la tua identità digitale. Avevo aperto il profilo nel 2008: è qui c’era di tutto, sia contenuti di vita personale che professionale. Ti cancellano la tua storia. Ci sono certamente molte cose terribili in questo mondo, dunque non voglio fare la vittima per una cosa minima: ma si tratta comunque di violenza e di censura. Un po’ come se qualcuno entrasse a casa tua e ti bruciasse foto e ricordi».

Cosa avrebbe scritto o riportato di così grave da spingere Meta a chiudere i suoi profili?

«Penso che la causa sia l’aver postato e scritto troppo su quello che sta accadendo a Gaza: ho infatti sospeso i post su alcuni argomenti a me molto cari, come femminicidi, discriminazioni e linguaggio di genere, per concentrarmi di più sui fatti di Gaza. Una pubblicazione iniziata anche quando Facebook stava penalizzando questi contenuti: per questo utilizzavo, per esempio, il numero 4 al posto della A di Gaza, e il numero 1 per la I di Israele. Un modo per evitare penalizzazione nella diffusione. Poi deve essere cambiato qualcosa e ho iniziato a ottenere migliaia di visualizzazioni. Un post in particolare, su una madre palestinese che ha perso nove figli, ha ottenuto sedicimila condivisioni. L’account è cresciuto. E questo, immagino, può aver portato a molte segnalazioni da parte di chi non è d’accordo. Da qui il blocco».

Cosa può fare per riavere indietro tutto?

«Potrei affidarmi a esperti tecnici e avvocati per una battaglia legale. Devo ancora decidere».

Quando è nato e perché il suo interesse per le questioni palestinesi?

«Quando ho lavorato per dieci anni per Globalist mi occupavo di politica estera e geopolitca. E ho continuato a interessarmi di queste tematiche che comunque mi attiravano già da quando frequentavo le scuole superiori».

Da giornalista, come valuta l’attenzione della stampa su quanto sta accadendo a Gaza?

«C’è una differenza enorme tra come viene raccontata la guerra in Ucraina e quanto sta succedendo a Gaza. C’è una popolazione sotto accatto e la stampa non ha chiarito molti aspetti. Sembra esserci un timore reverenziale nei confronti di Israele e dunque una censura su cosa sta accadendo alla comunità palestinese».

Ha avuto molti attestati di stima, anche da persone che non conosce di persona ma proprio grazie ai social?

«Il nostro lavoro oramai non può prescindere dai social. Permette di arrivare a tantissime persone, anche ai giovani. Inoltre i social ti permettono di conoscere molto di quello che sta succedendo a Gaza e nel resto del Mondo che altrimenti non potremmo sapere attraverso la stampa tradizionale».

La sua nuova “vita” social è già ripresa?

«Ho creato un nuovo account, Claudia Sarritzu Ghironi, aggiungendo anche il cognome di mia madre. Ho già ripreso il mio lavoro, anche se è triste essere passati da 32mila follower a molti meno. Ma vedo quanto accaduto come una nuova ripartenza. E mi fa piacere aver ricevuto tanto affetto. Mi dispiace solo essere stata censurata per aver fatto quello che, non solo come giornalista, ma come essere umano, dovremmo fare tutti quanti: attirare l’attenzione su un argomento così importante come quello dei fatti di Gaza».

  ......

https://www.sardegnalive.net/


Claudia, partiamo dall'inizio. Com'era il tuo rapporto con i social network e cosa è accaduto?


"Io li ho sempre utilizzati, anche per la vita privata, postavo foto di viaggi, cose normali, come tutti.
L'account ce l'avevo diviso in due profili. Il primo, nato nel 2008, che solo dopo ho trasformato in business, era arrivato a 8mila follower, il secondo ne contava 26mila, era stato creato molti anni dopo, quando mi ero candidata alle elezioni regionali, avevo scritto un secondo libro, e mi serviva una vetrina pubblica. Le mie pagine le ho sempre utilizzate però senza seguire regole rigide di pubblicazione o particolari differenziazioni, postavo un po' da una parte e un po' dall'altra.
In questo ultimo mese mi sono concentrata molto sulla situazione a Gaza. Avendo lavorato dieci anni a Globalist, scrivendo di politica estera, anche se adesso mi occupo di altro, l'impostazione è rimasta, così come la passione".
Porti comunque la tua esperienza in questo campo, a livello divulgativo.

"Ovviamente. Era un qualcosa che seguivo, ed ero anche personalmente e umanamente colpita dalla vicenda. Quindi, ho iniziato a condividere post e articoli, prendendo informazioni soprattutto dai giornalisti sul campo. I post hanno iniziato a esplodere, sono arrivate migliaia di condivisioni.
Nell'ultima settimana ho contato 2.000 follower in più e 2.000 follower senza sponsorizzate nè altro non sono pochi. Io tra l'altro non avevo la spunta blu, ma ora ho scoperto che chi paga per avere quel badge di verifica ha diritto a una tutela maggiore da parte dell'azienda madre, con la possibilità di controlli umani invece che, come nel mio caso, controlli esclusivamente automatizzati.
Dopo tutte le condivisioni, tutti i nuovi follower, mi è arrivata la prima segnalazione che diceva che l'account era stato temporaneamente sospeso, che stavano facendo delle verifiche, e che nel giro di una giornata mi avrebbero fatto sapere. In verità, tre ore dopo avevano già finito i loro controlli, dai quale era emersa la violazione degli standard della community. Una sentenza che non vuol dire niente. Se io avessi leso delle regole della piattaforma, pensiamo all'incitamento alla violenza, o alla pornografia, me lo avrebbero specificato. Sotto questi aspetti sono sempre stata abbastanza attenta perché so come funziona".
Invece cosa è successo?

"È successo che tutto questo ha attirato l'attenzione: si trattava di una visibilità che è esplosa in poco tempo, e devono essere arrivate centinaia di segnalazioni, io immagino, di qualcuno che non era contento del mio racconto su Gaza e sulla Striscia. Almeno 100 persone su 16mila condivisioni che ti segnalano ci sono, soprattutto sui argomenti che generano odio online come questi.Io riprendevo le immagini, riportate anche dalla Stampa e altri quotidiani, ma i miei erano profili, possiamo dire, di una 'persona normale', senza neanche la spunta blu, cresciuti in maniera così spropositata e questo deve aver insospettito anche l'algoritmo.
Mi era capitato qualcosa di simile in passato, ogni volta che c'era la parola Trump per esempio venivano abbattute le visualizzazioni, però in quel caso ero stata avvisata, il post veniva oscurato con annessa motivazione, Meta dialogava.
Ora è stato buttato tutto all'aria dal nulla e per riavere indietro i contenuti dovrei rivolgermi alla Giustizia Civile. Non sono l'unica che ha subito questo tipo di censura, ne sono stati vittime anche altri giornalisti, divulgatori, addirittura artisti, che si sono esposti politicamente".
La tua voce, che è quella di una giornalista, e di una giornalista che si è occupata proprio di politica estera, con un seguito di non poco conto, aveva una risonanza e un'esperienza tale per cui poteva riportare in maniera corretta e coerente una storia importante. Dov'è il problema nell'informazione di oggi?

La cosa che secondo me dovrebbe far riflettere è questa: oggi ci rendiamo conto che purtroppo il giornalismo ufficiale sta un po' deludendo. I social sono diventati importanti quindi. Per esempio, grazie a Instagram e ai profili dei colleghi palestinesi noi vedevamo davvero cosa accadeva dentro la Striscia, visto che i giornalisti stranieri non potevano entrare, però se i social si basano ancora spesso solo su degli algoritmi, basta che un gruppo politico, o religioso, se la prenda con te per i contenuti che pubblichi, che la piattaforma cancelli tutto il tuo lavoro. Così non si può andare avanti, perché se noi stiamo sostituendo l'informazione ufficiale con i social network, ed è quello che sta succedendo, allora occorre rivedere completamente le regole per garantire il corretto dibattito e la democrazia.
Il badge di verifica a pagamento lo trovo uno strumento ingiusto per come è strutturato al momento. Riesce a pubblicare con più garanzie solo chi paga e nemmeno poco, parliamo di 10 euro al mese, più le sponsorizzazioni che vengono richieste per essere visti, e alla fine diventa un'informazione esclusivamente a pagamento, solo chi può permetterselo può informare.
Mi hai detto che hai avuto molte condivisioni e molte visualizzazioni per quei post. Da esperta, diresti quindi che la società risponde bene alla necessità di sapere e di condividere quanto sta succedendo nella Striscia di Gaza?
Secondo me la società risponde molto bene alla questione. Personalmente, ho constatato parecchia attenzione e sensibilità sul tema da parte degli utenti. Io mi occupavo soprattutto di linguaggio di genere, di discriminazioni, e non raggiungevo quei numeri. Un sondaggio di Ipsos della scorsa settimana evidenziava come il 73% degli italiani volesse un intervento anche politico per denunciare e condannare i fatti di Gaza: questo fa capire che l'interesse è trasversale e questo interesse poi si rispecchia nel desiderio di sapere, di conoscere".

Il caso di Claudia Sarritzu segue quello di Matteo Meloni, giornalista sardo esperto di geopolitica ed esteri, anch’egli messo a tacere dopo aver trattato il conflitto israelo-palestinese. In un'epoca in cui l’informazione passa sempre più dalle mani degli utenti e dei creator indipendenti, e in cui il giornalismo tradizionale fatica a rispondere al bisogno di chiarezza e pluralità, l’arbitrio degli algoritmi diventa una minaccia concreta alla libertà di espressione. Se chi ha competenza e autorevolezza viene oscurato senza spiegazioni, occorre domandarsi, cosa resta del dibattito pubblico? E, soprattutto, chi decide cosa possiamo o non possiamo sapere?

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