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24.11.25

La rosicata benealtrista e post bambineschi dei Vannacciani per la tesi di laurea di simone cherchi sull'odio nei social

E' vero che in tale post sotto riportato sotto ,  che commenta  la  reazione diVanacci alla  tesi  di di  Simone  cherchi    di cui abiammo  parlato    precedentemente , c'è benaltrismo L'odio mascherato di
da  https://www.alfemminile.com/
Vannacci (che poi spesso ritratta dicendo banalità sconcertanti) è un esempio tipico di un uso scellerato dei social. Bisognerebbe leggere la tesi e capire come è stato trattato e collocato il tutto prima di scrivere sciocchezze ma contiene anche se rimaneggiata politicamente un fondo di verità sul clima e sull'aria che c'è nel paese






Cagliari: Quando l’odio è sempre degli altri - Vannacci all’esame e l’università all’orale di libertàAll’Università di Cagliari si laureano sull’odio. Letteralmente. Simone Cherchi, facoltà di Studi Umanistici, confeziona una tesi sull’hate speech e per dimostrare il teorema prende tre post di Roberto Vannacci, generale, eurodeputato, nuovo volto della destra leghista perfetto per il laboratorio. Il relatore applaude, i giornali raccontano la storia come se fossimo di fronte a una nuova Norimberga digitale. Il cattivo è già scelto, il copione pure.Vannacci, da parte sua, risponde nel modo che conosce meglio: ipertrofia dell’ego. «Io studiavo Weierstrass e Laplace, questi studiano Vannacci. Che onore». Traduzione: continuate pure a insultarmi, intanto mi fate campagna. È il suo mestiere. Sfida mezzo mondo, vive di polemica, ogni attacco è benzina. E infatti rilancia: se vogliono la dedica sulla tesi, lui “c’è”. Non fa una piega: ci gioca.Il punto non è difendere Vannacci, che scrive spesso cose controcorrente, semplifica, provoca apposta. Il punto è capire che film stiamo guardando. Perché qui la discussione sull’odio rischia di diventare la solita messa cantata: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. I buoni, ovviamente, sono sempre quelli che spiegano cos’è l’odio degli altri.La tesi distingue tra hate speech “subdolo” e hate speech “esplicito”. Nel primo caso finiscono i post del generale, nel secondo i commenti dei follower che si scatenano sotto. Schema chiaro: il leader butta la carne nel recinto, la folla azzanna. Ed è vero che sui social funziona così. Ma se ci fermiamo qui, è sociologia da talk show, non ricerca. Perché la dinamica vale per tutti: per Vannacci, per gli influencer di sinistra, per gli attivisti antifa, per i fan della Boldrini e per i fan di chiunque.Facciamo un esperimento mentale molto semplice, da bar. Prendiamo una qualsiasi pagina che demonizza “i fascisti”, “i terrapiattisti”, “i no-vax”, “i maschi bianchi etero”, “i boomer”. Cambiano i bersagli, non il meccanismo. Il leader col megafono lancia il segnale, il branco dei fan completa l’opera a colpi di insulti, meme, sarcasmo tossico. È hate speech oppure no? Dipende da chi sta giudicando. Se l’oggetto dell’odio è uno “giusto”, diventa “satira”, “sdegno civile”, “pugno al fascismo”. Se è uno “sbagliato” viene catalogato come odio da manuale.È qui che l’università dovrebbe tenere la barra dritta. Studiare l’odio on line significa entrare nel fango di tutti, non solo di chi sta sul lato politico che ci fa comodo. Vannacci è un bersaglio ghiotto, è ovvio: è divisivo, è famoso, è di destra dura, quindi garantisce titoloni e pacche sulle spalle. Ma se l’analisi finisce per dipingere lui come l’origine del male e i suoi detrattori come cavalieri della civiltà, allora non è più solo accademia.La scena è sempre la stessa: si estrae un post del generale sulla Rackete, si mostra la foto con la peluria, si analizzano i commenti vomitati sotto. Operazione legittima, per carità. Ma andrebbe fatto lo stesso lavoro pure sotto i post dei suoi avversari politici, quando parlano di “rifiuti umani”, “subumani”, “neofascisti da estirpare”, “destropitechi” e compagnia cantante. Perché l’odio non è monopolio di nessuno. È bipartisan, anzi trasversale. È l’unica cosa davvero democratica che i social hanno prodotto.Sul versante opposto, Vannacci recita il ruolo che si è ritagliato. Fa l’elenco dei suoi titoli, si vanta di essere “oggetto di studio”, si sente al centro della scena. Invece di cogliere l’occasione per alzare il livello del confronto – magari rispondendo sui contenuti, spiegando cosa intende per libertà di parola – preferisce stare nella caricatura del perseguitato di successo. È un gioco a somma positiva per lui: ogni scandalo gli porta visibilità, fan, voti alle prossime elezioni.Il risultato finale è che tutti recitano. L’università fa il tribunale morale invece del laboratorio di idee. Vannacci fa il martire pop. I giornali fanno da cassa di risonanza, titolano a raffica, riempiono pagine con il ping pong di dichiarazioni. E intanto sui social il livello del dibattito resta quello della rissa da parcheggio del centro commerciale.Lo studente, che ci crede davvero, viene presentato come il ragazzo coraggioso che “denuncia” il linguaggio d’odio. Il professore lo esalta: ha individuato la “radice del male”, cioè l’uso “scellerato” dei social da parte dei personaggi pubblici. Sembra il trailer di un documentario a tema: il popolo ignorante manipolato dal capo cattivo. Storia rassicurante, perché assolve tutti gli altri. L’odio viene sempre da su, mai da giù. I follower, poverini, sono vittime. La responsabilità individuale si dissolve.In realtà l’odio è una scelta. Di chi scrive il post e di chi commenta. Di chi spara l’allusione sessista e di chi applaude sotto con le faccine. Di chi ironizza sul colore della pelle e di chi insulta la “vecchia fascista” di turno. Di chi si sente autorizzato a dire qualsiasi cosa perché “tanto è solo Facebook”. Non servono tesi di laurea per capire che se i commenti esplodono di insulti, il problema non è solo l’algoritmo, ma le persone in carne e ossa.Il diritto di parola non è un premio di condotta. Vale per Vannacci come per i suoi accusatori. Il punto è un altro: se trasformiamo ogni frase sopra le righe in “hate speech” da manuale, finiamo in un recinto dove tutto ciò che disturba viene automaticamente patologizzato. Chi non si allinea alla grammatica del politicamente corretto diventa caso di studio, roba da laboratorio. Il passo successivo – già lo si intravede – è invocare leggi, filtri, censure “per il bene di tutti”.È questo il terreno scivoloso. Non perché l’odio non esista, ma perché se lo usi come etichetta elastica, ci rientra di tutto. L’ironia cattiva, la critica dura, la battuta infelice, la bestemmia politica. A quel punto non si discute più di idee ma di permessi. Si chiede allo Stato, alle piattaforme, ai tribunali, alle commissioni etiche di dirci cosa si può dire oggi senza finire nel tritacarne. Un inferno morigerato, pieno di attestati di civiltà e pochissima libertà reale.Se l’università vuole davvero fare un servizio al Paese, prenda Vannacci, la Rackete, la Boldrini, le piazze LGBT, i salotti tv, la tifoseria social di tutti i fronti e li metta sullo stesso tavolo. Non per distribuire bollini di odio ma per mostrare come funziona il meccanismo della tribù digitale. Chi aizza, chi segue, chi si compiace, chi monetizza. Chi fa il moralista di giorno e di notte scrive “muori” sotto la foto dell’avversario politico.L’odio non lo fermi scrivendo tesi su un solo personaggio e applaudendo in aula tra un selfie e un comunicato stampa. Lo ridimensioni rimettendo al centro due cose vecchie come il mondo: responsabilità individuale e libertà di parola. Dire a uno che sbaglia, contraddirlo, persino demolirlo con argomenti è una cosa. Pretendere che taccia perché ha scritto un post disgustoso è un’altra.In questa storia l’unico dato certo è che tutti usano tutti. L’università usa Vannacci per mostrare al mondo che “sta dalla parte giusta”. Vannacci usa l’università per confermare ai suoi che “la casta accademica mi teme”. I giornali usano entrambi per riempire pagine e commenti. I social, infine, usano tutti per generare traffico. L’odio, nel frattempo, resta dove stava: nelle dita di chi scrive. Qui, più che tesi, servirebbe un esame di coscienza collettivo. Ma quello, al contrario delle lauree, non dà punti in carriera.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...