anche i perdenti possono essere vincitori . profeta fuori noiosa\ limitata in patria . le storie di Giorgio albertazzi e di rita pavone



Ha scelto di festeggiare i suoi primi novant’anni nel modo che più ama: recitando su un palcoscenico. Giorgio Albertazzi – è di lui che si parla, l’unico grande “mostro” del teatro italiano che ci è rimasto, assieme ad Arnoldo Foà – ha scelto il palco della Versiliana a Marina di Pietrasanta; e ha messo in scena il recital 'Io ho quel che ho donato' omaggio a Gabriele D'Annunzio nel 150esimo anniversario dalla sua nascita. Un recital di cui è autore, regista e interprete.Scelta non casuale. “Sono nato”, racconta Albertazzi nelle note di regia, “a tre passi dalla 'Capponcina' di Settignano, la villa con i levrieri e i cavalli del Vate. Dall'altra parte della strada c'era la 'Porziuncola' di Eleonora Duse. Spiavo al di la del cancello grigio-argento della Capponcina (D'Annunzio non c'era più, la villa era stata venduta e rivenduta) se per caso arrivasse qualche segno”. Un recital che è una 'messa a nudo' del poeta, ne ripercorre la biografia e la poetica, molto più ricca e profonda di quanto il cliché non dica. Proprio alla Versiliana D’Annunzio soggiorna nell'estate del 1906 nella Villa all’epoca dei conti Digerini-Nuti. "Io sono nel più bel posto dell'universo" scrive in una lettera ad Emilio Treves del 5 luglio di quell'anno. "Quella frase di D'Annunzio 'Io ho quel che ho donato' – spiega Albertazzi - si adatta in modo perfetto allo spirito di ciò che vuole significare questo mio spettacolo che è anche, anzi soprattutto, un omaggio. Al Vate, certamente, ma anche al pubblico e, se me lo concedete, un poco a me stesso. Tante cose sono state dette, scritte e recitate su D'Annunzio. Io stesso sono stato inseguito dalla sua ombra fin da ragazzino".Un grande artista, Albertazzi, attore superbo, e per tutte le sue innumerevoli interpretazioni, valgano le amate “Memorie di Adriano” di Margherite Youcenar: le ha recitate in mezzo mondo, credo sia arrivato a oltre mille repliche, il primo allestimento pensate, è del 1990. Geniale e per tanti versi anomalo, ma regista sensibile e scrittore finissimo, con una vita che definire intensa è riduttivo, è un romanzo. Anni fa, stiamo parlando del 1988, per Rizzoli, ha pubblicato una autobiografia che ha voluto titolare – significativamente - “Un perdente di successo”.In quel libro c’è tutto l’Albertazzi che conosciamo, ma anche quello più intimo e sorprendente: l’istrione certamente, ma anche il grande professionista, l’incorreggibile snob, l’invidiato e invidiabile, irresistibile seduttore. Nel “perdente di successo” racconta tutto se stesso, non nasconde nulla: l’infanzia, l’adolescenza, i miti della gioventù che lo portano come molti della sua generazione a militare nella repubblica di Salò, assieme, per fare qualche nome, a Dario Fo, Walter Chiari, Raimondo Vianello, Carlo Mazzantini, a uno storico direttore dell’“Espresso”, Livio Zanetti; gli studi, gli amori, la guerra, il carcere, il cinema e il teatro…
Un po’ di tutto questo lo si ritrova negli articoli pubblicati appunto in occasione dei 90 anni. Albertazzi racconta dei suoi progetti futuri, tanti e impegnativi per i prossimi novant’anni; di come, con una punta di amarezza vede il mondo peggiorare, “con l’avidità di ricchezza che produce sofferenza, e la necessità di ritrovare il sorriso, la “leggerezza”, il senso del limite, se non si vuole precipitare in un rovinoso appiattimento”. Gli hanno chiesto tante cose, e tante cose ha detto Albertazzi in questi giorni; e probabilmente dice anche cose che non sono state riportate. Impossibile, per esempio, che in tanto discorrere non gli sia uscito nulla sulla sua cinquantennale amicizia con Marco Pannella e i radicali. Perché Albertazzi in tutte le occasioni che contano, ogni volta che ce n’era bisogno, è sempre stato, generosamente e disinteressatamente, vicino ai radicali, a fianco di Pannella.E allora torniamo a quel “Perdente di successo” scritto nel 1988. Non sono tanti – anzi sono proprio pochi – i politici citati in quel libro: una fugace citazione di Alcide De Gasperi, Mario Scelba, Giuseppe Di Vittorio, Palmiro Togliatti e Nilde Iotti, silenzio su tutti gli altri. Però a pagina 224 e 225 un lungo, affettuoso brano dedicato a Marco Pannella e a Emma Bonino: “Solo dei matti come i radicali potevano rivolgersi a me: Emma Bonino, mirabile ragazza, Spadaccia  e Pannella. Con Pannella ho avuto sempre quella specie di complicità che c’è tra attori (o gitani) da ‘dietro le quinte’. Capace di grandi impennate giacobine e coup de théatre (digiuni, bocche bendate in TV) di grande effetto, Pannella è, nel mare magnum dei politici italiani, il solo capace di intuizioni non legate all’apparato, non di parte, cioè, ma ‘politiche’ nel senso più alto, di filosofia. Passammo una notte intera alternandoci  ai microfoni di ‘Radio Radicale’ e la sua pervicacia e la fiducia nella propria parola di convincimento  e nella bontà della lotta, erano di grande qualità umana, quasi mistiche… Pannella è comunque uno che fa in un mondo di gente che ‘dice’ di fare guardandosi bene dal farlo, e in questo senso è un rivoluzionario…”.E più di recente: “Per mia natura sono un anarchico, per essere più precisi mi sono sempre definito un anarchico di centro. Nel senso che non amo la violenza, che ha pure una sua bellezza, ma le vittime della violenza sono sempre i più deboli, quindi la rivoluzione armata non mi interessa. Mi interessano invece le battaglie per i diritti civili. Ho fatto tutte le battaglie con i radicali, dal divorzio all’aborto, le ho sostenute tutte  e ho trascorso molte notti insonni con loro. Sono anche a favore della campagna che vorrebbe Pannella senatore a vita sarebbe bello dopo tutte le battaglie civili che ha combattuto”.Sarebbe bello, sì, e le istituzioni ne guadagnerebbero. Sarebbe bello se il presidente Napolitano ne nominasse tre di senatori a vita, lo può fare, tre grandi giovani vecchi: il rabbino emerito della comunità ebraica di Roma Elio Toaff; Marco Pannella; e  lui, Giorgio Albertazzi.             

  


da la domenica di repubblica del 17\11\2013

Dopo pappe e palloni a un certo punto la Rai la ostracizzò. Lei se ne andò in America, in tv con la Fitzgerald,Eco ne descrisse la fenomenologia e i Pink Floyd quasi divennero suoi fan Ora l’ex ragazzina terribile è tornata dal suo 


esilio dorato per realizzare il disco della vita: “Per troppotempo la mia immagine è rimasta legata a un solo personaggio Ma io sono anche altroe adesso voglio il meglio” 

MILANO 
La locandina è lì, visibile a chiunque con un minimo di ricerca. È del 7 marzo 1965 ed elenca gli ospiti della puntata dell’Ed Sullivan Show, rete televisiva Cbs, alle otto di sera, mezza America in visione: «C’era Duke Ellington,subito sotto c’era Ella Fitzgerald e più sotto ancora ci sono io, ovvero Rita Pavone». Andava così, e pur ingigantendo un po’, una cosa del genere la racconti a tutti anche mezzo secolo dopo. E soprattutto chiedi rispetto per quella storia, che portò la ragazza celebrata in patria per cose tipo Pappa al Pomodoro e Partita di Pallone (guai a chi le tocca,s’intende, un sacco di
lettere P come lei, Pavone) a girare il mondo e a costruire ricordi non proprio alla portata di chiunque. «Da ragazzina a Torino le mie coetanee, ma proprio quelle più trasgressive, tolleravano al massimo Natalino Otto. Io ascoltavo Sinatra e quelli come Sinatra. Lo potevo fare grazie a un amico di mio padre che viaggiava spesso verso Oltreoceano e mi portava i dischi che facevano davvero impazzire gli americani».Nasce tutto lì, appunto a Torino, con il padre alla Fiat in quella che tecnicamente era la perfetta famiglia torinese con lavoro alla Fiat. E poi evolve in una storia pazzesca, che si divide tra i successi internazionali, versioni multilingue di ogni canzone di successo e i lacci e lacciuoli del paesone Italia, che alla ragazzina con androginia evidente regalò una popolarità assoluta, quella vera,dei tempi, con le apparizioni sull’unico  canale tv da venti milioni di spettatori a botta: ma che non le perdonò nulla.Rita Pavone è tornata in circolazione dagli esili dorati della Svizzera e di Maiorca, ha passato guai con la salute, si è ripresa e ora ha coronato un sogno definitivo, ovvero il disco della vita: «È quello che avrei voluto fare dall’inizio,se non fossi finita subito, da ragazzina,nel meccanismo del grande successo di pubblico in Italia, con la televisione, le canzoni, i tanti dischi venduti e soprattutto quell’immagine, un personaggio che non mi piace granché ricordare come unica cosa forte della mia vita, anzi».Ed ecco così un doppio cd, Masters, che sta ricevendo critiche sontuose e inattese: un pugno di standard americani ma senza piacionismi — nessun pezzo stra famoso e acchiappa pubblico ma brandelli magici di soul, swing, pop: autori come Bacharach, Hoagy Carmichael,Bobby Darin, Libby Holden.Trattasi di autentico sfizio, al punto da dire, come ha detto: «Voglio il meglio e lo voglio come una volta. A me va benissimo che oggi con il computer si possa fare tutto con la musica, ma   ci tenevo tanto a lavorare, cantare e suonare come   si faceva una volta: anche  perché se non ci riuscivo così non avrebbe avuto senso un’operazione simile». Un disco sorprendente, ma tanto, tirando fuori quella voce assurda per potenza e grinta.Ovvero, lo sfizio riuscito. Avercene.In realtà succedeva ed è successo di tutto, attorno a lei e al suo successo spaziale,al tempo: «Tutti i problemi, quelli che hanno portato alla fine dell’epoca d’oro, sono arrivati col matrimonio».Ovvero quello con Teddy Reno — lui giàsposato (e separato) — ad Ariccia alle porte di Roma, quel prete cui Rita va a chiedere speciali dispense, lui si mette a farle la predica e spiegarle il perché e il percome: «Gli risposi, con rispetto: le ho solo chiesto se si può fare. Se non si può,niente. Andrò a vivere nel peccato, ma nel peccato mi ci avete messo voi». La sposò poi un prelato, che capì le sue istanze («E dire che per una promessa fatta a mia madre io ero arrivata casta al matrimonio»). Ma al quale tolsero  subito importanti incarichi. E intanto là fuori,l’Italia gossippara che impazziva appresso alla maternità-scandalo. Un giorno, il patatrac. In tv va alla grande Alighiero Noschese con le imitazioni,Rita è un suo cavallo di battaglia (una volta la trasforma in Nilde Iotti che si lamenta con Togliatti: “Perché perché la domenica mi lasci sempre andare  al comizio del partito di Baffone?”).Ma una sera a Doppia Coppia aNoschese scappa del tutto la frizione: e la imita incinta, con feroci ironie sul bellissimo ma spiantato Teddy accalappiato dalla cantante e sul sesso del nascituro.«Era una parodia crudele. Non doveva tirare in ballo il figlio che stava per nascere: feci causa alla Rai, la vinsi. Il giorno stesso il presidente Leone firmò un’amnistia generale che cancellò anche quel reato». E insomma, niente,la storia di un clamoroso successo da noi finisce in pratica lì, con la Rai che si offende per la causa e l’ostracismo per gli anni a venire e, va ricordato sempre, l’ostracismo Rai, allora, era ostracismo da tutto. Per fortuna in America c’era Ed Sullivan…. «Mi aveva preso in simpatia,ed era curioso dell’Italia: un’altravolta al suo show c’eravamo io, Paul Anka e Topo Gigio». Prego? «Lui. Con lo stesso staff italiano e il doppiatore Mazzullo che  parlava in inglese». Ecco.Oggi possiamo arrivare però a una decisione finale. Quello della partita di pallone, il maschio, non andava alla partita, vero? «Diciamo che rimanemolto ambigua la cosa, quella che è molto chiara è lei, il senso del messaggio è quello e il richiamo brusco di lei».Fino a che è diventata simbolicamente una storica avversaria del calcio. «Ma quando mai? Mio padre mi portava alle partite, girando il mondo ho conosciuto i più grandi, una volta a Mosca c’erano Pelè e Garrincha: ho una foto con loro due». Insomma, tornando al fattaccio,il paese era cambiato, la tv era reclusa ma ci fu molto altro, gli show, le parti d’attrice anche per La strada, in una post-Gelsomina: «Avevo lavorato con Giulietta Masina: pensi che alla sera veniva Fellini a prenderla, così, tranquillo,come se fosse un qualsiasi impiegato.La Wertmüller mi diceva che io e Giulietta avevamo lo stesso sguardo». Oggi, questo esilio ben riparato in Svizzera e Spagna, è sempre per farla pesare un po’ a questo paese? «L’Italia è fantastica ma è un paese senza memoria,come sfuggire al confronto con gli altri posti? Giorni fa era l’anniversario di Edith Piaf, in Francia speciali su speciali in tv, da noi non accadrebbe». Non si può far stare dentro tutto quanto in una rievocazione: dell’ascesa, caduta — dorata anch’essa — e traversie e gli specchi del Paese che un po’ evolve e molto no. Qualche spunto, aneddotica fantastica qui e là. Umberto Eco, per dire. Che nelDiario Minimosi occupò per diverse pagine della Rita e lanciò una sentenza definitiva: «Lei è Lolita spiegata per la prima volta al popolo». Nel senso che Nabokov era  riservato una ristretta cerchia di perversi lettori di libri (perversi in quanto lettori, non per Nabokov) prima volta pubblicamente a milioni di persone l’impulso chiarissimo della sessualità giovane — se poi ci aggiungiamo la famosaandroginia di facciata la faccenda diventava pressoché esplosiva. Quelle pagine di Eco campeggiano nel sito ufficiale,ricchissimo, della cantante: «Ricordo benissimo quei giorni, ero stupefatta:uno come Eco parlava di me. Mi sarebbe andata benissimo anche se mi avesse maltrattato per tutte quelle pagine». È tornata, Rita, in grande stile allo show tv recente di Gianni Morandi. Rievocazioni  insieme, medley da mandare ai matti il pubblico sui sessanta (ovvero, la maggior parte o quasi) e i ricordi degli inizi: «Entrambi giovanissimi eravamo stati reclutati dalla Rca che ci teneva in una pensioncina di piazzale  Clodio, avevamo anche una specie di tutor». Un giorno Gianni rientra e la trova che si sbaciucchia con Bruno Filippini,bellone canterino d’epoca. Ma è vero che le urlò “Lo vado a dire alla tua mamma”? «Verissimo: aveva una cotta per me, ma io filavo con Bruno». E dire che Morandi era il versante progressista del paese — la Rita, con quella parte lì e in generale con i moralismi rigidi non si è mai trovata bene — e quanto al discorso di come lo scricciolo androgino attirasse ragazzi e uomini che potevano permettersi quello che volevano,beh, insomma, c’era appunto Eco a spiegarlo, se proprio si vuole lasciar perdere la perfidia del gossip d’epoca.Resterebbero i Pink Floyd. In realtà resterebbero tre o quattro libri da scrivere, ma quella dei Pink Floyd è deliziosa.Siamo già in epoca web. «Un giorno scopro che un sito scrive che i Pink Floyd parlavano di me in un vecchio brano, che si chiamava San Tropez: addirittura un verso che dice “prenderò un appuntamento con Rita Pavone”».In realtà il testo dice che prenderà un appuntamento al telefono (“Making a date for later by phone”) ma in rete c’è chi sostiene di aver sentito benissimo “Rita Pavone”. Balla colossale, ma lei si diverte e ci marcia su: «Ma è vero: una volta, in Costa Azzurra stavo per conoscere i Pink Floyd che erano nello stesso albergo, allora l’ho raccontato  scherzandoci un po’». Ma a quel punto il web non lo tiene più nessuno. E Rita va, la leggenda urbana le si addice fermo restando che ora, essendosi tolta la voglia di fare il disco definitivo, se ne va tranquillamente a inseguire la leggenda e basta. In caso contrario fa lo stesso, come disse quella volta al prete.

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