24.11.20

oltre ai negazionisti del covid ci sono igli incoscienti ed irresponsabili che pensano più al denaro che alla vita delle persone vedi il caso dellle prossime aperture della stagione sciistica

 Essi sono  quei   presidenti , non importa il colore politico , di Regione che dopo le discoteche di quest'estate vorrebbero aprire le piste di sci per Natale, con annesso cenone. Infatti :

Altro che autonomia differenziata! Bisogna al più presto riformare il titolo V della Costituzione. Non è possibile che, in piena pandemia con 600 morti al giorno, ci siano presidenti di Regione che vorrebbero aprire le piste di sci per Natale, con annesso cenone.

come  

 

Non comprendo la polemica sugli sci e sulla settimana bianca. Perché il punto mi pare chiaro: non ripetere quanto accaduto questa estate. Se così non dovesse essere, e fosse dato il via libera, i contagi esploderebbero di nuovo a dicembre-gennaio, e bisognerebbe tornare a nuove misure restrittive. E quelli che oggi si lamentano dello scii, tornerebbero a lamentarsi delle misure restrittive. L'equazione è semplice: via libera = aumento contagi; aumento contagi = nuove misure restrittive. È un cane che si morde la coda, è la seconda volta che ci passiamo. Non capirlo mi sembra più una bizza che una reale difficoltà logica.

tale decisone    ha  diviso  il mondo dei Vip   fra   incoscienti     come Alberto Tomba poi, subito dopo, Federica Brignone si erano schierati nettamente a favore dell’apertura delle piste da sci e quindi contro la decisione del governo.

DPA/PICTURE ALLIANCE VIA GETTY I
Meno male    che  
Oggi, un altro gigante della montagna, alpinista nonché politico, si definisce in linea invece con quanto deciso dal premier Giuseppe Conte. Reinhold Messner, 76 anni, in un’intervista a La Repubblica ricorda a tutti come la montagna è sempre stata vista come luogo dove sciare. In realtà questa è un’analisi errata o quantomeno parziale. Lo sci è una delle tante attività che si possono svolgere sulle vette, ma non l’unica. Infatti  
<<Le Alpi e l'Europa hanno la grande occasione per dimostrare che la montagna non è solo un'industria e che la Ue non è solo una somma di lobby statali. Io prego che oggi questi due mondi sappiano lottare contro il Covid con lungimiranza e unità>>. Reinhold Messner a 76 anni si mette scarponi e mascherina non solo per andare a camminare sui pascoli della sua Val di Funes. Lo fa prima di tutto per lanciare un appello sia a Roma che a Bruxelles, affinché "non ripetano a Natale gli errori commessi in primavera e in estate. <<  Durante e dopo la prima ondata della pandemia >>- dice  sempre   a Repubblica il re degli Ottomila, ex parlamentare Ue -<<  Europa e Regioni si sono mosse in ritardo e in ordine sparso, anteponendo le pressioni economiche alle ragioni sanitarie. Il risultato è stata la riesplosione dei contagi. Simili sbagli non vanno ripetuti: il regalo più bello che le istituzioni possono fare ai cittadini per le festività è dare prova di aver messo a fuoco le priorità. Prima salute e istruzione, poi tutto il resto >>
Egli ha      ragione     quando dice  

“Si riducono la montagna, la neve e il turismo, all’industria degli impianti di risalita e ai caroselli sciistici. Chi vive nelle città, in Europa e in Italia, viene convinto che non ha senso il tempo libero in alta quota senza gli sci ai piedi su una seggiovia. Il Covid offre l’opportunità per aggiungere a tutto questo il più vasto universo della libertà. La montagna autentica in inverno resta anche sci alpinismo, sci da fondo, slitta, ciaspole, escursionismo e pattinaggio su ghiaccio. Non si può concludere che senza piste da discesa aperte si vieta alle persone di rigenerarsi nella natura alpina”.

Sulla decisione di chiudere o meno gli impianti, quindi, Messner non ha dubbi. Anche per chi si ritiene “anarchico” come lui, con il Covid-19 rispettare le regole è fondamentale. Il governo di Giuseppe Conte sembra “si stia muovendo bene” anche perché “non si possono sacrificare migliaia di vite per avere il consenso di chi pretende di comportarsi come se il virus non uccidesse più”. L’unica speranza è che passato il Natale la situazione torni sotto controllo.

“Aspettare gennaio per riaprire piste e impianti, se gli indici di contagio lo consentiranno, non è una scelta: è un dovere. Ma deve essere chiaro che la montagna, anche in inverno, resta un universo di libertà immenso, sicuro e ricco di opportunità”.

Ma il problema riguarda tutta Europa e non solo il nostro paese. Per questo, Messner spera che questa, per le Alpi così come per l’Ue, possa essere “la grande occasione per dimostrare che la montagna non è solo un’industria e che la Ue non è solo una somma di lobby statali. Io prego che oggi questi due mondi sappiano lottare contro il Covid con lungimiranza e unità”. Serve coesione tra tutti i paesi europei e una coordinazione, per evitare di commettere gli stessi errori del recente passato e non lasciare nessun indietro.

“Europa e Regioni si sono mosse in ritardo e in ordine sparso, anteponendo le pressioni economiche alle ragioni sanitarie. Il risultato è stata la riesplosione dei contagi. La concorrenza sleale in Europa? Questo è il problema e tocca alla Ue risolverlo, pensando anche alla parità dei ristori per la filiera turistica. Se la Francia offre 100, l’Italia non può promettere 50. Sull’inverno dell’emergenza Covid le Alpi si giocano il futuro, l’Europa anche il presente”.

Insomma, per Messner la ricetta è una sola: “Prima salute e istruzione, poi tutto il resto”. Mettere al centro le priorità sarebbe “il regalo più bello che le istituzioni possono fare ai cittadini per le festività” e non solo  Anche perché “i primi a non voler trasformare le feste di fine anno sulle Alpi nel Ferragosto in Costa Smeralda sono i montanari, gli impiantisti e gli albergatori senza  scrupoli  ”. E  se  lo dice uno che di montagna se ne intende.

  


Poiche le critiche devono  dovrebbero  essere possibilmente costruttive ,  suggerisco  cosi  risponde  anticipatamente  a chi mi dirà  : <<  e tu cosa  proponi , ecc >>  d'aprire     ma   non  agli sci    ma  a passeggiate  ed  escursioni  , il cenone o il pranzo  si  possono fare   da  asporto   visto che  ci  sono  molti alberghi e ville  private  . 

Terremoto irpinia 1980, parlano le le bambine della foto-simbolo sotto la coperta

 Ci sono   avvenimenti    che  ti  rimangono dentro    anche  se   non gli ha  vissuti direttamente   dal puntoi di vista  cronologico ( avevo 4  anni )    in prima  persona  o  visti in  diretta  \  live    perchè eri  troppo piccolo  . Ed    quello dell'irpinia     è  uno di questi   . 

 Una  dele tante    forse  una   delle  più  belle

https://www.ilmattino.it del  23\11\2020

Inviato a Balvano

La foto che racconta la tragedia e chiama gli italiani alla solidarietà: Balvano 24 novembre 1980, la sera successiva al grande terremoto, nella tendopoli alla periferia del paese intorno ai falò per riscaldarsi tre bambini si nascondono in una coperta e vengono fotografati da un reporter dell'Ansa. Il 26 novembre quella diventa la foto di Fate presto l'urlo del Mattino che scuote il Paese e accelera l'arrivo dei soccorsi. 

I tre bambini sono Gerardo Pietrafesa (7 anni) e le sorelline Giuseppina (5) e Carmela Luongo (8), sotto la coperta - ma non si vede - c'è l'altra sorella Maria. Resta solo un piccolo giallo su Gerardo identificato da una delle sorelle Luongo non si è però lui stesso del tutto riconosciuto.  «Certo che mi ricordo quando ci hanno fatto quella foto». Carmela Luongo non nasconde l'emozione a ripercorrere quelle ore. Lei era in chiesa: a Balvano nel crollo della chiesa madre morirono 66 ragazzi. «Sono una miracolata: quando cominciò a tremare andai verso la luce delle candele dell'altare e mi sono salvata. La mia amica Rosetta mi lasciò la mano e andò verso l'uscita: è morta travolta dalle macerie» ricorda Carmela.

 
 
 

Quarantanni dopo Balvano è avvolto nel silenzio di una sera di autunno, quasi inverno, battuto da una fastidiosa pioggia fitta. Risuonano solo le campane della nuova (e brutta) chiesa madre. In giro non c'è quasi nessuno, che da queste parti significa 4-5 persone. Ma non è colpa del Covid: qui c'è poca gente e quella poca, con il freddo, resta a casa. Anche senza il virus.Le sorelle Luongo da Balvano sono andate via sul finire degli anni 90, in Piemonte a Novi Ligure per trovare il lavoro.Il dramma di Balvano è il crollo della chiesa che si porta via 66 bambini: erano alla messa della sera perché c'erano i padri redentoristi per una missione di evangelizzazione.In chiesa c'era Carmela e il fratello. Giuseppina era davanti casa a giocare, l'altra sorella era a casa. Il papà, come tanti da queste parti, lavorava in Germania.«Mamma affidò me e Maria a una ragazzina poco più grandicella che ci portò in uno spiazzo al sicuro - ricorda Giuseppina - e lei andò verso la chiesa a cercare gli altri due fratelli. Ero troppo piccola: mi sono rimaste immagini spezzate. Ci portarono in questo grande spiazzo, raccolsero lì tutto il paese, almeno quello che era rimasto. Arrivarono le tende e arrivò pure il freddo. Dopo qualche giorno arrivò papà dalla Germania e non è più andato via».Nel buio, nella polvere, tra le urla disperate dei feriti sotto le macerie e delle mamme accorse a cercare i figli, invece, vengono ritrovate Carmela e il fratello.«Tutto era distrutto - spiega - fili elettrici che penzolavano, parti di case che continuavano a cadere ma ci ritrovammo tutti».«Dopo i primi giorni in tenda, con la neve e il freddo, ce ne siamo andati in una casa in campagna che aveva resistito alle scosse e siamo rimasti lì molti mesi fin quando non ci hanno dato un prefabbricato», rivede quei mesi Giuseppina. «Nessuno di noi scendeva in paese - ricorda - non c'era più niente: solo mamma scendeva di tanto in tanto per prendere qualcosa a casa e tornava sempre più sconfortata: avevano rubato tutto anche il suo vestito da sposa».Della foto Giuseppina non ricorda nulla, ma è certa che il bambino è Gerardo. Gerardo che, invece, vive a Balvano non è sicuro di essere lui: «Avevo un braccio fasciato, perché la scossa mi aveva fatto cadere, e qui non si vede. Ma potrebbe pure essere. In quei giorni eravamo tutti confusi e terrorizzati». Il terremoto è stato uno spartiacque nella vita di questa comunità: «Prima il paese era una sola famiglia - spiega Giuseppina - ora non lo so». Piano piano le strade di queste ragazze hanno preso altre direzioni. «Abbiamo studiato qui fino alle medie - ricorda - poi le superiori a Potenza e Carmela l'università a Salerno. Ma non c'erano prospettive e siamo andate tutte vie. Noi tre ragazze qui a Novi Ligure, mio fratello in Germania. E se non fossi andata via io con mio marito, che è pure di Balvano, sarebbero andati via ora i nostri figli. Qui non c'è niente».«L'immagine che mi è rimasta? Quella delle bare portate via dal paese» chiude amara Carmela.

23.11.20

non trovo le parole davanti a fatti come quello di Mariana Manduca , Il sui diario di Marianna Anatomia di un femminicidio e di come lo stato ed la magistratura infieriscono sui figli

Lo so che   è lungo  ,  ma     tale storia   va  raccontata  interamente . Ma  chi  non reggesse può ascoltare un video  riassuntivo  da me  riportato  nel precedente   post   : << quando  a  commettere  il femminicidio  è anche  lo stato . la  Marianna Manduca Una madre che non è stata creduta dalla Giustizia e ha pagato con la vita la battaglia per riavere i suoi figli. Ma ora lo Stato chiede ai tre orfani un "risarcimento" >> oppure  su  quest' articolo di https://www.fanpage.it/
 Grazie  falle   di  rep.  il servizio a pagamento    sono riuscito  a prenderlo tutto  per  riportarlo   qui    riportarlo  .  I  diritti   sono degli autori   e  il mio uso   è a   scopo  didattico  e non  commerciale     e quindi  senza  scopi di  lucro . mi scuso    se   è  scompaginato e dovessero mancare : video ,testi del suo memoriale e delle sue denunce , video , ecc ed altri elementi non scritti ma  non sono  molto abile  nell'html   e  affini   

"Sono Marianna Manduca, nata a Palagonia il 14/02/1975. E con la presente sono a riportare gravi fatti che riguardano i miei tre figli minori, attualmente affidati al mio ex marito sig. Nolfo
Saverio. Sono madre di tre bambini: Carmelo, nato il 01/08/2001. Salvatore, nato il 26/10/2002 e Stefano, nato il 13/11/2004. La mia è una storia vera, fatta di violenze, sopraffazioni e quotidiane umiliazioni". (Dal diario di Marianna) "... Mi ha percosso violentemente causandomi segni visibili in tutto il corpo... In uno scatto d'ira ha afferrato una sedia della cucina con la quale ha cominciato a colpirmi violentemente su tutto il corpo". (Querela del 27 settembre 2006. Un anno e sette giorni prima del suo assassinio) Si chiamava Marianna Manduca, aveva 32 anni, era mamma di tre bambini. Aveva un diploma da geometra, viveva a Palagonia, Catania, dove i clan si spartiscono l'oro rosso degli aranceti. Era bruna. Era bella. Dipingeva e amava la vita. Marianna viene uccisa dal suo ex marito, Saverio Nolfo, 36 anni, bracciante, la sera del 3 ottobre del 2007. L'aggressione si consuma in strada. Sei le coltellate fatali. Dodici, le denunce sin lì affidate ai carabinieri per annunciare un destino già scritto, di morte. Dodici denunce che nessun magistrato aveva voluto leggere. Un femminicidio di 13 anni fa. Che sarebbe rimasto confinato al ritratto di una giovane donna su una tomba nel cimitero di Palagonia, al pianto di due anziani genitori per l'assassinio della loro unica figlia, alla tragedia di tre piccoli orfani, se il cugino di Marianna, Carmelo Calì, non avesse deciso di chiedere conto alla Giustizia di quell'omicidio annunciato, dunque evitabile. Un femminicidio di 13 anni fa che sarebbe tuttavia rimasto un numero tra i tanti, nel conteggio luttuoso delle donne assassinate dai loro mariti, amanti, fidanzati, se Marianna Manduca quell'inferno domestico non lo avesse implacabilmente narrato, giorno dopo giorno, in un diario, quasi un testamento, scritto nell'ultimo anno della sua vita. Marianna Manduca nei ricordi custoditi nell'album di famiglia: in classe, nel giorno del diploma e poi nella sua cameretta a Palagonia Tredici cartelle battute con una vecchia Olivetti Lettera 32, indirizzate al tribunale per i minori di Catania e ritrovate solo dopo la sua morte. Un durissimo atto d'accusa con cui una giovane donna braccata dall'ex marito, violento e tossico, a cui incredibilmente vengono affidati i loro tre bimbi, racconta la genesi del suo assassinio. Ne descrive con minuzia di dettagli l'arma - il coltello - e grida al mondo: "Sono una dead woman walking". Il femminicidio di Marianna è diventato anche un esemplare caso giudiziario, che, grazie alla tenacia di Carmelo Calì, oggi padre adottivo dei suoi tre orfani e alla perizia di due avvocati, Alfredo Galasso e Licia D'Amico, ha chiamato in causa la responsabilità civile di magistrati che non seppero o non vollero vedere per tempo. Galasso e D'Amico hanno dimostrato infatti, in due processi giunti in Cassazione, che la "negligenza" dei giudici della procura di Caltagirone, che mai risposero alle denunce di Marianna, che mai intervennero per fermare Nolfo, fu "inescusabile". Condannati dunque a risarcire i tre ragazzi, Carmelo, Salvatore e Stefano, con una somma di 259mila euro. Quei soldi però lo Stato italiano, quello stesso Stato che dice di voler proteggere gli orfani dei femminicidi, li ha chiesti indietro ai tre orfani in un processo d'appello. Per anni la famiglia Calì ha tenuto riservato il diario di Marianna, perché unica voce della madre rimasta ai suoi tre figli, Carmelo e Salvatore, oggi maggiorenni, e Stefano, 16 anni, portati via dalla Sicilia e cresciuti a Senigallia nell'amore dei genitori adottivi Carmelo Calì e Paola Giulianelli e dei loro figli, Matteo e Samuele. Il racconto di Marianna è la testimonianza straordinaria e dolorosa di quante omissioni nasconda un femminicidio. È la radiografia amara di come una donna intelligente, istruita possa finire nell'inferno della violenza domestica, mentre invoca un aiuto che non trova. I tre figli di Marianna hanno deciso di affidare a Repubblica questo diario, che è evidentemente anche un memoriale, alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Ma anche alla vigilia di un secondo processo d'appello, in cui il prossimo 9 dicembre, i giudici di Catanzaro dovranno decidere se tre ragazzi, con davanti una vita tutta ancora da scrivere, saranno obbligati a restituire a uno Stato che non ha protetto la loro madre, il risarcimento ottenuto, con una sentenza storica, nel processo di primo grado. Parte I - Nelle mani dell'assassino "L'ho sposato per amore, ma adesso vivo nell'inferno... Mi ha sempre minacciato di morte... ho sempre temuto per la mia incolumità e quella dei miei figli... Ha preso a colpirmi con calci e pugni. Non è possibile che quest'uomo sia convinto di poter fare tutto quello che vuole, compreso quello di picchiarmi selvaggiamente e vantarsi di tutto ciò, sicuro di rimanere impunito". (Querela del 7 novembre 2006. Mancano dieci mesi all'assassinio di Marianna) Sola, nella sua stanza da ragazza, nella modesta casa in cui è cresciuta e dove si è rifugiata, Marianna scrive e dipinge. Sono i primi mesi del 2007. È lontana dai suoi bambini, braccata dal suo ex. Di lei ci restano poche immagini: i battesimi dei figli, una foto sorridente vicino al mare, un'altra in cui ha il vento nei capelli. Da quattro anni, da quando nel 2003 ha sposato Saverio Nolfo, bracciante disoccupato e (scoprirà poi) tossicodipendente, è precipitata in una trappola di sevizie e maltrattamenti. Spiega l'avvocata Licia D'Amico: "Saverio Nolfo era un predatore che aveva trovato in Marianna la sua preda". È culturalmente violento e, nel paese che poi dedicherà una strada a quella ragazza uccisa, molti sanno, ma tacciono. Con il suo lavoro da geometra, Marianna mantiene la famiglia, ma lui la costringe a licenziarsi e, intanto, vende tutto, ruba ogni oggetto di valore, entra in conflitto con i genitori di lei che cercano di aiutarli. Marianna resta incinta a ripetizione, perché un'allergia le impedisce di assumere la pillola anticoncezionale. Lui, naturalmente, si dichiara contrario a utilizzare qualunque protezione. In tre anni nascono tre figli: Carmelo, Stefano, Salvatore. Mentre scrive la storia della sua vita, in un esposto indirizzato ai giudici minorili, Marianna ha già presentato tre denunce contro Nolfo, a cui ne seguiranno altre nove, in un crescendo vertiginoso verso la fine. In quei giorni di solitudine, Marianna Manduca ha già perso i suoi bambini. Prima sottratti con l'inganno, il pomeriggio del 2 novembre 2006, giorno dei morti, dal padre che mai più li riporterà da lei. E poi affidati, nel corso della separazione, a quello stesso padre pluridenunciato e tossicodipendente. Una sentenza assurda, la prima del calvario giudiziario di Marianna. I protagonisti "Sono stata sposata per circa sei anni con Nolfo Saverio (saltuariamente svolge l'attività di bracciante), un uomo che ho amato e ho sposato poco dopo averlo conosciuto, considerato che rimasi incinta del nostro primo figlio Carmelo. Purtroppo, fin da subito mi resi conto di avere sposato una persona completamente diversa da quella che avevo conosciuto. Solo dopo pochi mesi di convivenza mi sono resa conto di vivere con un perfetto estraneo. Tra me e lui, infatti, c'era l'eroina. Quando ho scoperto la tossicodipendenza di mio marito, mi è caduto il mondo addosso, ma ero già in attesa del nostro primo figlio. Lui, di fronte alle mie continue rimostranze, promise che avrebbe fatto di tutto per disintossicarsi. Per fare ciò, pose una sola condizione e cioè che avessi continuato a stare con lui e a prendermi cura della nostra famiglia. Per amore suo e del nostro primo figlio, ho accettato. Ma accettare quella condizione ha messo letteralmente fine alla mia vita di donna e di madre, in maniera così subdola e definitiva che solo oggi dopo tanti anni comincio a ben comprendere. Non lavorava e vendeva tutto quello che trovava a casa e cominciò ad essere molto più violento verso di me. Mi diceva che farneticavo e di contro cercava in tutti i modi di indurre anche me a drogarmi, convinto com'era che non c'era nulla di male e che solo così avrei potuto finalmente (era questa la parola che usava) capirlo. Al solo pensiero di quei momenti, ancora oggi, mi vengono i brividi. Ma come è possibile che una persona con un minimo di lucidità possa fare una proposta del genere alla madre dei suoi figli?". Mi faceva paura. Ben presto lui capì che non mi fidavo per nulla delle sue farneticanti storie e che non sopportavo più quella vita. Da quel momento cominciò a odiarmi. Un odio violento e infame che lo portava a picchiarmi con inaudita violenza" "Iniziò a inventare storie assurde sul mio conto, sulla mia incapacità di essere madre e moglie. A ogni mia rimostranza erano botte da orbi. In più di un'occasione mi ha picchiato sino allo sfinimento. La sua era una tecnica infame e codarda. Infatti aspettava che i miei genitori uscissero di casa, vivevamo sopra di loro, per picchiarmi, avendo cura di non colpirmi in viso, con estrema violenza, proprio per non lasciare segni, e di ciò si vantava e mi diceva che nessuno mai avrebbe creduto alle mie storie, perché lui era più furbo di tutti, anche dei giudici". (Dal diario di Marianna) Nella campagna di Palagonia Il coltello e la vergogna "... Questi estraeva dalla sua tasca un coltello a scatto e di fronte ai bambini, con aria di sfida nei miei confronti, lo utilizzava platealmente per pulirsi unghie e mani... mentre maneggiava una sorta di arco artigianale... alla mia vista puntava l'arco caricato con una freccia metallica ricavata da una parte di antenna acuminata e scoccava la freccia contro di me... maneggiando il medesimo coltello... con il quale si avvicinava a me... detto coltello aveva la lama a punta di circa 10 centimetri". (Querela del 2 giugno 2007. Quattro mesi all'uccisione di Marianna) Marianna, con quella vecchia Lettera 32, scrive ai giudici del tribunale per i minori di Catania, "i quali per eccellenza hanno a cuore la sorte dei bambini" perché spera che ribaltino la sentenza del tribunale ordinario di Caltagirone che il 19 dicembre del 2006 ha affidato a Nolfo i tre bambini. Spera che leggendo la minuziosa descrizione delle violenze subite, i magistrati si rendano conto finalmente di chi è quell'uomo nelle cui mani hanno messo la vita di Carmelo, sei anni, di Salvatore, 4 anni, di Stefano, 2 anni. Sono obbligati dal padre a insultarla quando la vedono. E sono aggressivi, ormai a lei estranei, perché ogni volta che prova ad avvicinarsi alla casa dell'ex, Nolfo la minaccia di morte, la aggredisce a calci e pugni. E in tribunale quando finalmente prova a riabbracciarli, è il 19 dicembre del 2006, i piccoli si ritraggono. Sembrano spaventati, tanto da indurre i giudici a ritenerla meno affidabile del suo ex. Come tante vittime di violenza, Marianna si deve spingere nella descrizione dell'abisso delle sevizie subite per riuscire a riconoscere di essere stata preda. E superare la vergogna, rialzare la testa. Nel memoriale però Marianna Manduca confessa con dolente limpidezza perché, a volte, tutto questo è indicibile. È il silenzio degli innocenti. Lo sanno bene i sopravvissuti. Sarebbe più facile restare mute, tacere, piuttosto che denunciare. Invece Marianna parla, scrive, va dai carabinieri, in nome di tutte le altre perseguitate. "Lui non capiva il male che, anche se i suoi ceffoni a volte non lasciavano segni sul corpo, faceva alla mia dignità di donna, di madre e di compagna. La mia formazione culturale, l'ambiente in cui avevo sino ad allora vissuto, non mi aveva preparato a tanto. A scuola, in famiglia e con gli amici, nessuno aveva osato alzarmi un solo dito. Ed è per questo che non ho mai avuto il coraggio di raccontare ad anima viva quello che stavo vivendo. Provavo una infinita vergogna. Minacciava di prendersela con i miei anziani genitori, entrambi gravemente cardiopatici, se solo avessi raccontato a qualcuno quanto mi faceva. Non solo, ma minacciava di farmi perdere anche i miei figli raccontando storie false sul mio conto. E in più di un'occasione lo ha fatto". Ero entrata all'inferno dalla porta principale e non me ne ero neanche accorta" "Non uscivo più di casa. Aspettavo la mia razione quotidiana di botte rassegnata. Lo facevo per evitare che quella bestia rivolgesse le sue attenzioni contro i miei genitori e contro i miei figli, subivo di tutto. Aspettavo che sfogasse il suo odio su di me. Con rassegnazione chiudevo gli occhi e pensavo che prima o poi si sarebbe stancato. La sua famiglia faceva finta di non vedere e non sentire. Non hanno mai avuto il coraggio di affrontare quell'uomo, mi accusavano di vaneggiare. Nel frattempo, rimasi incinta di Stefano ed ero convinta che ciò avrebbe potuto indurlo a cambiare vita. Ma non è stato così. Ha continuato a picchiarmi ogni volta che gli passava per la testa. Mi picchiava anche davanti ai nostri figli. Alla fine, quando ha compreso che l'unico ostacolo al suo stile di vita ero io, cominciò a pretendere che lo abbandonassi e gli lasciassi i nostri figli. Non avrei mai potuto fare una cosa del genere. Faceva di tutto per ottenere questo scopo". "Mi picchiava sempre di più. A volte rientrava in casa più che alterato e mi picchiava con qualsiasi cosa gli capitasse in mano. Fino all'ultima brutale aggressione quando ho temuto per la mia vita e per quella dei miei figli. Quel giorno ero davvero convinta di morire. Ho provato così tanta paura che ho giurato a me stessa che se mai mi fossi salvata da quel pestaggio, avrei messo fine a questa assurda storia... Mi aveva convinto anche una campagna pubblicitaria che vedevo spesso in televisione, ormai mia unica compagnia, che esortava a denunciare i maltrattamenti. Mi sono riconosciuta, ho rivisto la mia vita, le mie quotidiane paure". (Dal diario di Marianna) In gita scolastica Lettere maiuscole "... In numerose occasioni il mio ex mi ha minacciato di farmela pagare definitivamente... ho già presentato numerose denunce e querele ma nulla è cambiato... il suo atteggiamento violento e prevaricatore non si ferma davanti a niente. NON SO PIU' COSA FARE TEMO PER LA MIA INCOLUMITA'. NON MI RIMANE ALTRO CHE CONTINUARE A DENUNCIARE NELLA SPERANZA CHE QUALCUNO MI ASCOLTI". (Querela del 25 luglio 2007. Mancano 68 giorni all'assassino di Marianna. È così disperata da chiedere ai carabinieri di Palagonia che la stanno prendendo a verbale di usare le lettere maiuscole nella redazione della denuncia. Il suo aggressore circola armato con un coltello dalla lama di dieci centimetri. La circostanza è nota alla Procura di Caltagirone, ma nessuna iniziativa investigativa risulta adottata per la minaccia di morte) Sembra di sentirla la voce di Marianna, affaticata ma non doma, mentre affida al memoriale il suo dolore. Con cadenza mensile, a volte settimanale, si presenta alla stazione dei carabinieri di Palagonia, in via Circonvallazione 32, e sporge querela contro il suo ex. Ormai Saverio Nolfo la minaccia pubblicamente con un coltello. Inoltrate alla Procura di Caltagirone, quelle denunce non avranno mai seguito, derubricate da quei magistrati poi condannati in primo grado, a "conflitti familiari". Per ottenere la custodia dei bambini, che vivono con il padre in un tugurio senza servizi igienici, non vengono mandati a scuola, non sanno più parlare, Marianna Manduca si sottopone a ripetute Ctu, consulenze tecniche di ufficio. Eppure, ci vorranno oltre dieci udienze perché finalmente il giudice della separazione prenda in esame l'affido dei bimbi a Marianna. Troppo tardi. Il giorno dell'udienza, il corpo di Marianna Manduca, devastato dalle coltellate, è già sul tavolo dell'obitorio. Nolfo viene arrestato e rinchiuso in carcere a Catania. "Da allora non li ho più rivisti neanche all'asilo... Non ho potuto parlare con loro neanche al telefono. Sabato, giorno 4 novembre 2006, mi sono recata personalmente presso la casa della madre, dove attualmente vive, non senza aver prima avvisato i carabinieri, fermamente intenzionata a riprendermi i bambini, ma sono stata accolta da mio marito che ha preso a colpirmi con calci e pugni. Anche questa volta l'ho denunciato. Ma neanche in quell'occasione li ho potuti vedere. Ho intravisto per qualche istante solo il più piccolo, che non ho potuto nemmeno abbracciare. Il dolore provato è stato immenso, l'ho supplicato di farmi vedere gli altri due bambini. Ma non c'è stato verso, ha ripreso a picchiarmi. Non riesce ad esprimersi se non usando violenza. Li ho finalmente rivisti solamente dopo un mese e mezzo e precisamente il giorno 19 dicembre, in Tribunale in occasione della prima udienza di comparizione. È stato uno shock. Io appena ho visto i miei figli mi sono letteralmente buttata su di loro, ma loro erano impauriti, scappavano e piangevano. Chi sa cosa aveva loro raccontato il mio ex marito. All'udienza innanzi al presidente del tribunale di Caltagirone, in data 19/12/2006, il tentativo di conciliazione sortiva effetto negativo. Mi è crollato il mondo addosso. Ancora oggi non riesco a comprendere come sia potuto accadere. Io mi sono rivolta alla Procura della Repubblica. Io l'ho denunciato per maltrattamenti. Io mi sono rivolta al Tribunale per chiedere la separazione. La Procura, su espressa richiesta dei carabinieri di Palagonia, aveva applicato nei suoi confronti una misura cautelare di allontanamento. Ma tutto ciò non è servito a nulla. Il Giudice ha preferito affidarli al mio ex marito, consentendomi di vederli e tenerli (cosa mai potuta fare con serenità) con me solo tre volte alla settimana dalle ore 17 alle ore 20". (Dal diario di Marianna) Durante le vacanze di Natale sull'Etna “Sono una madre disperata che spera nella Giustizia” "Questi mi ha più volte minacciato anche con coltelli. Ho timore per la mia incolumità personale. Quando ho riportato i bambini a casa come da ordine del giudice, Nolfo mi attendeva sulla porta con aria minacciosa nascondendo la sua mano sinistra dietro la schiena... riuscivo a chiudermi nell'abitacolo della mia auto contro la quale lui si abbatteva a calci e pugni". (Querela del 3 settembre 2007. Mancano 30 giorni al 3 ottobre 2007, quando Nolfo utilizzerà quel coltello per uccidere Marianna Manduca) Marianna intuisce che per lei è iniziato il conto alla rovescia verso la fine. Sa che Nolfo non si fermerà davanti a nulla. In una delle ultime denunce scrive: "La mia unica colpa è quella di aver denunciato i suoi maltrattamenti, le sue angherie. Non ha tollerato che dopo cinque anni di inferno io abbia alzato la testa per riprendermi la mia vita". Gli ultimi mesi prima dell'omicidio, quando il memoriale si interrompe, concedono a Marianna Manduca qualche momento di struggente tenerezza con i suoi tre bambini. Sono trascurati, sporchi. Marianna, quando riesce a vederli, li nutre, li lava, li tiene stretti. Infinito amore di madre. Anche se, davanti al padre, i due più grandi la insultano, chiamandola "puttana". Parla Licia D’Amico, avvocata della difesa nel processo per il risarcimento ai figli di Marianna Manduca, la giovane donna uccisa nel 2007 dal marito a Palagonia, dopo dodici denunce in dodici mesi rimaste inascoltate. La legale ripercorre tutta la storia di Marianna e ancora non si fa una ragione di quel grido inascoltato. Tanto che non solo ha difeso i ragazzi gratuitamente, ma ha fondato "Insieme per Marianna", una onlus per la prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne e sui minori. Intervista di Maria Novella De Luca e Francesco Giovannetti "Sono passati oltre quattro mesi dal deposito del supplemento di consulenza ma ancora oggi non riesco ad avere i miei figli. Non ho potuto passare con loro né il Natale, né il Capodanno, né Pasqua né Pasquetta, né un giorno al mare. Infatti dopo essersi reso conto che i miei figli, nonostante non mi vedessero da mesi, cominciavano a manifestare la loro voglia di venire a stare con me, ha cominciato a impedirmi di fatto il mio esercizio del diritto di visita in maniera sempre più violenta". Il mio ex marito, ovviamente, non riesce e tollerare l'affronto di una semplice donna (da lui considerata alla stregua di uno straccio o di un sacco di patate su cui sfogare i propri primordiali istinti) che non solo ha osato alzare la testa, decidendo di non subire più alcuna violenza lasciandolo definitivamente, ma che ha anche trovato il coraggio di denunciarle. Per questo ha deciso, per ritorsione e vendetta, di colpirmi nell'unico mio vero punto debole: i figli" "L'unica mia speranza era il giudice della separazione, il cui procedimento era stato da me stessa invocato. Ma è stato tutto vano e allo stesso tempo incredibile. Molte volte ho pensato che forse sarebbe stato meglio non denunciarlo. Ma è una debolezza che dura solo qualche minuto. L'unica cosa che mi consolava, fino a poco tempo fa, era quella di essere riuscita a riprendere un contatto con i miei figli anche se per poche ore alla settimana. Addirittura il più piccolo, Stefano, quando mi vede arrivare corre tra le mie braccia, e non vuole saperne di tornare a casa dal padre, ma io con la morte nel cuore lo restituisco al padre perché così ha deciso un Giudice. Molte volte fa finta di addormentarsi proprio quando è ora di tornare. Quando li ho avuti da me, li ho lavati per bene, considerato che dove vivono non hanno né doccia, né vasca da bagno, né acqua calda. Il più piccolo che ha quasi tre anni porta ancora il pannolino. Ovviamente suo padre non capisce che è arrivata l'ora di insegnare al piccolo Stefano l'uso dei servizi igienici. Infatti il piccolo sta con un solo pannolino per l'intera giornata. Molte volte l'ho dovuto cambiare e disinfettare a dovere tanto era la puzza che faceva". (Dal diario di Marianna) Come bestie "Quando vedo i miei figli in quelle condizioni non riesco a capacitarmi come sia possibile che un Giudice, avendo letto quelle perizie su di me, non abbia sentito il dovere di modificare la sua decisione forse sbagliata. Come può un bambino di soli due anni essere tolto alle cure, all'affetto di una madre che non ha commesso nulla né contro di loro né contro nessuno, solo per aver sentito il bisogno e la necessità di mettere fine a un massacro quotidiano? Avevo anche pensato di fare un gesto eclatante, rivolgermi alla stampa ma ho subito pensato che ciò avrebbe potuto indurre altre donne, che come me vivono una situazione al limite della sopravvivenza, a desistere dal compiere i giusti passi per riconquistare la loro vita denunciando i soprusi, le violenze e le umiliazioni a cui sono sottoposte da parte di persone che amano a tal punto da aver costituito una famiglia con loro. Ho avuto conforto solo dai carabinieri i quali si prodigano ogni volta che chiedo il loro aiuto. Il loro atteggiamento mi ha convinta della bontà delle mie decisioni". Ma onestamente non riesco a comprendere l'atteggiamento del giudice della separazione il quale non riesce a comprendere che non c'è più tempo da perdere" "Infatti oggi tutti gli sforzi fatti da me per ricostruire un rapporto con i miei figli, dopo oltre dieci mesi di questa vita, rischiano di essere vanificati per sempre. Ultimamente i due figli più grandi manifestano un linguaggio che non gli appartiene, imprecano e mi insultano ogni volta che mi reco a casa a prelevarli. Lui si fa sempre trovare davanti il portone di casa e la prima cosa che dice loro, con aria minacciosa, quando mi vedono: 'Se non volete, non andate'". "A questo punto i bambini, sorridendo con un sorriso amaro, cominciano a insultarmi, dicendo parole di cui, sono sicura, non conoscono il significato. Sfido chiunque a dimostrare che un bambino di quattro anni possa dire alla propria madre, rendendosi conto di quello che dice, 'puttana lorda'. Questa è solo una frase che mi sento di riportare perché il resto è vomitevole. Quando li richiamo e li rimprovero loro cominciano a ridere come se stessero giocando, mi guardano come se non capissero perché li rimprovero. Sono costretti ad umiliarsi. Ogni volta che lui è in casa i due bambini più grandi, quando gli chiedo di venire con me, guardano il padre in viso o poi mi dicono di no. Quando lui non è in casa corrono verso di me". (Dal diario di Marianna) “Questo è il mio ultimo grido” "Qualcuno un giorno mi dovrà spiegare come può una madre tollerare tutto questo, in silenzio. Non so più a chi rivolgere le richieste di giustizia. I miei figli rischiano di trascorrere un altro inverno all'interno di una casa che l'assistente sociale ha ben descritto nelle sua relazione, come un ambiente umido privo di bagno, che è esterno alla casa, con il tetto coperto da una plastica opaca, sfornito di lavandino, doccia, bidè, finanche di acqua calda. Questo è quello che sentivo di raccontare anche a Codesto Tribunale come mio ultimo tentativo al fine di salvare i miei tre figli. Chiedo solo che qualcuno verifichi nuovamente se quello che ho raccontato non sia vero, e che qualcuno aiuti i miei figli. Io ho estrema fiducia nella vita e negli uomini, anche se questa brutta esperienza ha minato molte mie certezze. Una madre disperata non può fare altro che continuare a sperare e restare in attesa di giustizia. Porgo ossequiosi saluti e allego n.12 querele". (Dal diario di Marianna) Festa di compleanno: Marianna compie 17 anni, è nella casa dei genitori Epilogo di sangue È la vigilia dell'ultima udienza per la separazione. La Procura di Caltagirone non ha mai preso in esame le denunce di Marianna. Nessuno ha fermato Nolfo che, il 3 ottobre 2007, sperona l'auto della ex moglie. Lei si butta fuori dall'abitacolo e tenta di scappare. Lui la insegue e la uccide con sei coltellate, dopo aver ferito al petto l'anziano ex suocero che cercava di proteggere la figlia. Arrestato, verrà condannato a 21 anni di carcere. Carmelo, Salvatore e Stefano, oggi figli adottivi di Carmelo Calì e Paola Giulianelli, non hanno mai più voluto sapere nulla del padre che ha già scontato 13 anni di prigione e presto, questa è almeno la previsione, potrebbe uscire dal carcere. Parte II - Rinascita di una famiglia Mio padre adottivo, Carmelo, mi ha insegnato a credere nella Giustizia. Adesso chiedo ai giudici di essere giusti. Per dodici volte mia madre aveva denunciato Saverio Nolfo, l'uomo che poi l'ha uccisa. Un tribunale coraggioso ha ammesso che quei magistrati hanno fatto un errore. Poi la sentenza è stata capovolta. Può lo Stato abbandonarci così?" (Carmelo Calì Nolfo, 19 anni, primogenito di Marianna Manduca) A Senigallia, nella grande cucina piena di sole della famiglia Calì, l'ora di pranzo ricorda un porto di mare. Ragazzi che mangiano, ridono, scherzano, litigano. "Nella nostra famiglia tutto si decide attorno a questo tavolone", scherza Paola Giulianelli, 53 anni, oggi mamma di cinque figli, Matteo e Samuele, più Carmelo, Salvatore, Stefano, i tre figli di Marianna. Un'ampia tribù dai 19 ai 12 anni, cui si aggiunge Lilli, il cane di casa. "Ricordo lo stupore dei figli di Marianna quando videro per la prima volta il mare. Qui, a Senigallia. Eppure, venivano dalla Sicilia. Ma nessuno ce li aveva mai portati sulla spiaggia. Il giorno dopo l'omicidio della madre erano già con noi, saliti sull'aereo a Catania soltanto con i vestiti che avevano addosso. Sporchi, smarriti, impauriti. I primi giorni non facevano altro che vomitare. Il più piccolo, Stefano, aveva tre anni ma non riusciva nemmeno a camminare, a casa del padre lo tenevano dentro un box, senza mai farlo uscire o prendere in braccio. Eravamo in quattro - sorride Paola - siamo diventati sette". I tre figli di Marianna e i loro due nuovi fratelli: è il giorno della festa di Carmelo, compie 11 anni, sono tutti a Senigallia. È un bella squadra Stefano e Samuele fanno i compiti. Qualcuno sparecchia. Una vita e una quotidianità normali. È entrando nella casa di Senigallia di Paola e Carmelo Calì che si capisce cosa vuol dire la rinascita di tre orfani di femminicidio. Paola e Carmelo che nel 2007 ricevono una telefonata di Caltagirone. "Era un'assistente sociale di Palagonia, parente di secondo grado di Marianna. Mi fece una domanda diretta, brutale: 'Carmelo, sua cugina è stata uccisa dal marito, potete prendervi i bambini?'". Uno tsunami che si rovescia nella vita tranquilla di questa coppia che ha già due figli, Matteo, 4 anni, Samuele, 8 mesi. Lui è un piccolo imprenditore edile che sarà travolto dalla crisi del 2008. Lei fa lavori stagionali. "Quei bambini non avevano più nessuno. Erano destinati a tre case famiglie diverse. Ce li siamo presi per mano così com'erano, malvestiti e malnutriti. Dovevano restare qualche settimana, sono diventati nostri figli". "Quando Marianna è stata uccisa, i bambini vivevano con il padre. Hanno assistito a infinite scene di violenza. Le aveva spaccato una sedia sulla testa, la minacciava di morte con il coltello. Eppure, i bambini erano stati affidati a lui, un assassino". Paola ricorda la loro paura, i pianti notturni, la solidarietà di Senigallia, il lavoro per "decostruire" nella loro grezza educazione il disprezzo per le donne. "Parlavano soltanto in dialetto strettissimo. Non li capivo. Erano piccoli ma cresciuti nel culto della violenza e della sopraffazione. Prendevano in giro Carmelo quando cucinava, dicendo che erano cose da donne. Se gli regalavano una caramella rosa, la sputavano, perché il rosa era da femmine. Se ero io a tagliare il pane, lo rifiutavano, perché l'aveva toccato una donna. Abbiamo dovuto, da subito, essere molto fermi sull'educazione". Storie di ieri. In mezzo c'è l'avventura di una rinascita. I figli di Marianna che diventano figli di Paola e Carmelo adottati nel 2014. I ragazzi vanno e vengono. Entra Matteo, esce Salvatore, arriva Samuele. Carmelo se li abbraccia stretti: "Siamo una squadra". Una squadra che oggi sopravvive grazie al bed&breakfast "Casa Calì" che Carmelo e Paola hanno comprato e ristrutturato con i 250mila euro del risarcimento dopo la sentenza di primo grado. A Senigallia, a casa della famiglia Calì, dove il cugino Carmelo e la moglie Paola dopo l'assassinio di Marianna nel 2007 hanno accolto i suoi tre bambini piccoli. Avevano 2, 4 e 5 anni, disprezzavano le donne e non parlavano l'italiano. "Noi avevamo già tre figli, non c'era neanche una stanza per loro, io e mio marito abbiamo dormito sul divano , ricorda Paola. Non potevamo lasciarli dai nonni, non erano in grado di accoglierli ed erano distrutti dal dolore". E aggiunge: "Io non so se sono stata una brava mamma, non sono una psicologa, ma mi sembra che stiano bene". "È incredibile l'ingiustizia che ha subito Marianna e anche i tre ragazzi. Non posso non combattere per loro", spiega Carmelo. Videoreportage di Maria Novella De Luca e Francesco Giovannetti Due avvocati coraggiosi, due processi e uno Stato rapace "Si può affermare che il rinvenimento del coltello e il suo sequestro avrebbero impedito il verificarsi dell'evento omicida del 3/10/07. Nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati (da Marianna Manduca) e nel non adottare nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità del Nolfo, i magistrati di Caltagirone hanno commesso 'grave violazione di legge' con negligenza inescusabile". (Sentenza di condanna dei magistrati della Procura di Caltagirone emessa dal Tribunale di Messina il 17/05/2017. Presidente Caterina Mangano) "Ricordo quei giorni, subito dopo il femminicidio - racconta Carmelo Calì - ero tornato a Palagonia dopo 40 anni e cercavo di ri-immergermi in quella realtà da cui ormai ero lontano anni luce. Volevo capire perché nessuno avesse ascoltato il grido di Marianna in un paese dove tutti sapevano. Omertà, paura, maschilismo. Volevo capire perché una ragazza come lei, istruita, piena di amici, che prima di Nolfo aveva un fidanzato innamorato e serio, fosse finita in quell'inferno. Ma soprattutto, dopo aver incontrato il suo avvocato, volevo capire come mai le sue denunce, minuziosamente raccolte dai carabinieri e trasmesse alla Procura di Caltagirone, fossero rimaste lettera morta". Perché quei magistrati non hanno creduto a Marianna Manduca e non hanno fermato il suo assassino? Dunque quei giudici hanno sbagliato? "Mi trattavano da visionario - prosegue Carmelo - interpellai alcuni tra i più importanti studi legali in Italia per capire se si poteva dimostrare la responsabilità della Procura nel non aver protetto mia cugina. Pensavano fossi pazzo, mi dicevano che era impossibile, non esistono giudici che condannano altri giudici". Nei mesi confusi che seguono il femminicidio, Carmelo riceve dall'avvocato di Marianna quel memoriale, forse mai inviato al tribunale per i minori di Catania, o forse inviato ma mai letto dai giudici minorili. Così come le denunce. "Un amico, un autore televisivo che si era appassionato al nostro caso mi disse di venire a Roma, per incontrare gli avvocati dello studio Galasso e fare un ultimo tentativo". È l'incontro, invece, che cambia la vita di Carmelo e Paola, dei loro cinque figli, ma anche degli stessi avvocati Alfredo Galasso e Licia D'Amico. E rende indelebile la memoria di Marianna Manduca. Ultima campanella a scuola, il giorno delle nozze e quello del battesimo del terzo figlio Stefano: tre volti di Marianna La Giustizia cieca. Cronaca di una sentenza storica A Roma, nello studio in via Germanico 197, oltre alle targhe che celebrano l'impegno antimafia di Alfredo Galasso, professore di Diritto all'università di Palermo, tra i "Siciliani" di Pippo Fava e il ricordo di Antonino Caponnetto, una foto incorniciata di rosso mostra i cinque ragazzi Calì insieme ai due avvocati. E la targa con la colomba rossa, logo dell'associazione "Insieme a Marianna", che oggi fa informazione e prevenzione sulla violenza contro le donne. "La nostra associazione è l'eredità di Marianna. In quella foto eravamo tutti più giovani e i ragazzi erano bambini, ma ci sono voluti anni per dare giustizia a lei e ai suoi figli", sottolinea (non senza commozione) Licia D'Amico. Un'avventura professionale e umana che Galasso e D'Amico intraprendono in modo totalmente gratuito. La storia giudiziaria è complessa. Al centro c'è la responsabilità civile dei magistrati. C'è un primo processo, che in primo e secondo grado, boccia il ricorso di Calì per decorrenza dei termini. La Cassazione, invece, nel 2015, lo ammette. Nel 2016 inizia il secondo processo. "Quello che abbiamo dimostrato - spiega Galasso - applicando la legge 177 del 1988, è la responsabilità di quei giudici che non avendo dato seguito alle querele di Marianna Manduca, hanno lasciato che Saverio Nolfo la uccidesse. In primo grado abbiamo vinto, il tribunale di Messina ha riconosciuto l'errore dei magistrati e ha accordato ai tre orfani un risarcimento di 259mila euro. Una somma calcolata in base ai mancati stipendi della loro madre che li manteneva con il suo lavoro da geometra. Una sentenza importante, tra le prime in Italia per un caso di femminicidio. Per noi una vittoria, anche, umana". È il 15 marzo del 2017. Presidente della corte del tribunale di Messina è una giudice, Caterina Mangano. L'eco è fortissimo. Si parla di sentenza storica che certifica, finalmente, quello che davvero accade nei tribunali: le donne non vengono credute e per questo, a volte, uccise. Il risarcimento ai figli è una novità assoluta. In nome dei magistrati a pagare è la Presidenza del Consiglio. Sentenza ribaltata. “Quel femminicidio era inevitabile” "Sulla scorta di tali principi... ritiene la Corte che l'epilogo della vicenda sarebbe rimasto immutato... La perquisizione e l'eventuale sequestro del coltello non avrebbero impedito la morte della giovane mamma... Dovendosi ritenere mancante la prova del nesso causale tra l'omissione addebitabile alla Procura della Repubblica e l'omicidio di Marianna Manduca, va accolto l'appello della Presidenza del Consiglio". (Sentenza del 19 marzo 2019. La Corte d'Appello di Messina, presidente il giudice Sebastiano Neri, condanna Carmelo Calì a restituire il risarcimento ottenuto in primo grado) La sentenza della Corte di Appello di Messina del 19 marzo 2019 "I giudici di Messina dicono che nel 2007 non c'era la legge sullo stalking e non avrebbero potuto fermare Nolfo. Non è vero. Bastava applicare il codice penale per impedire quell'omicidio. Ma non l'hanno fatto". (Paola Giulianelli, mamma adottiva dei figli di Marianna) Una biga con quattro cavalli di ferro sovrasta la facciata del Palazzo di Giustizia di Messina, massiccio razionalismo fascista firmato da Marcello Piacentini. È dalle aule e dagli infiniti corridoi di questo tribunale che in due anni escono due sentenze clamorose e opposte. È il 19 marzo del 2019 quando la Corte d'Appello, presieduta dal giudice Sebastiano Neri, ex deputato di Alleanza Nazionale, accoglie il ricorso della Presidenza del Consiglio contro il risarcimento accordato in primo grado agli orfani di Marianna Manduca. Già nei mesi precedenti, la decisione dell'Avvocatura dello Stato di procedere contro i figli di una donna assassinata dal marito, aveva suscitato sdegno e polemiche. A definire "gravissima" la scelta del Governo (Presidente del Consiglio, al momento del ricorso contro i ragazzi nel 2017, era Paolo Gentiloni, sottosegretaria con delega alle Pari Opportunità, Maria Elena Boschi) era stata in particolare Francesca Puglisi, senatrice dem, allora presidente della commissione d'inchiesta sul femminicidio di Palazzo Madama. (Un'indignazione trasversale. Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, parlò di "sentenza sconvolgente"). Racconta Puglisi: "Protestai pubblicamente con un comunicato, insieme a molte associazioni di donne, contro quella decisione che impugnava una sentenza storica e privava tre orfani del giusto risarcimento per l'assassinio della loro madre. Fui molto criticata e credo di aver pagato un prezzo politico per quella scelta. Ma arrivò un segnale. Un comunicato in cui la Presidenza del Consiglio chiedeva all'avvocatura dello Stato di trovare ogni possibile soluzione della vicenda, fino ad arrivare alla sospensione di qualsiasi azione giudiziaria". Effettivamente, sul sito del Governo, nell'agosto del 2017, appare il comunicato in cui si auspica, "la ricerca di una definizione consensuale, fino alla desistenza da qualsiasi azione giudiziaria, tenendo conto dell'interesse dei familiari della donna". Forti con i deboli Misteriosamente, invece, nulla accade. La causa va avanti. Perché? E come mai il Governo non rinuncia alla restituzione dei 259mila euro? Quel comunicato era soltanto un'operazione di facciata, o l'avvocatura dello Stato prosegue per proprio conto? Il dato di fatto è che la sentenza firmata dal giudice Nello Neri rappresenta, una resa della Giustizia di fronte ai femminicidi. In venti pagine i giudici dell'appello affermano che anche se avessero dato seguito alle denunce di Marianna, "l'epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato". Eppure, per un intero anno, Nolfo minaccia platealmente la ex moglie con lo stesso coltello con il quale la ucciderà il 3 ottobre del 2007. I giudici ribattono che "la perquisizione e l'eventuale sequestro del coltello non avrebbero impedito la morte della giovane mamma". Tesi difesa ancora, pochi mesi fa, da Nello Neri, alla vigilia del pronunciamento della Cassazione. "Nolfo era determinato a uccidere la moglie, cui lo contrapponeva una durissima battaglia legale per l'affidamento dei bambini", si legge nella sentenza. E ancora: "Avrebbe potuto facilmente procurarsi un altro coltello, semplicemente acquistandolo". Quello di Marianna era dunque un femminicidio inevitabile, per la corte d'appello di Messina. Un delitto inevitabile. Anzi, ripetono i giudici, se pure i magistrati della procura di Caltagirone avessero ascoltato il grido di Marianna, Nolfo l'avrebbe uccisa lo stesso. "Dovevamo dimostrare la responsabilità civile dei magistrati, perché le denunce di Marianna Manduca non avevano avuto nessun riscontro, specie le ultime, accompagnate dalla sua previsione di essere accoltellata dal marito che l'aveva minacciata". Così, spiega l'avvocato Alfredo Galasso, legale della famiglia Calì. "Se la Corte d'Appello di Catanzaro ci dà ragione gli orfani di Marianna avranno un risarcimento cospicuo", conclude l'avvocato. Intervista di Maria Novella De Luca e Francesco Giovannetti E il codice penale? Ce ne sarebbe già abbastanza. Ma c'è un altro passaggio che poi sarà severamente contestato dagli avvocati Alfredo Galasso e Licia D'Amico. Per giustificare l'inerzia della Procura di Caltagirone, la Corte d'Appello cita la mancanza di norme utili a fermare l'assassino. "Occorre tenere conto del quadro normativo dell'epoca che non consentiva l'applicazione di misura cautelare (in relazione ai reati denunciati da Marianna) né prevedeva il delitto di stalking, introdotto nel 2009". "Per arrestare chi minaccia la vita altrui con un coltello, sia uomo che donna - ribattono gli avvocati D'Amico e Galasso - era sufficiente il codice penale". Il verdetto della Cassazione: rifare il processo di appello Dopo tredici anni è ora che giustizia sia fatta, questo risarcimento non ci restituisce nostra madre, ma può aiutarci a costruire il nostro futuro" (Stefano Calì Nolfo, 18 anni, secondogenito di Marianna Manduca) "Abbiamo lottato perché i bambini di Marianna avessero giustizia. Abbiamo fatto un processo e vinto. Ma non avevamo fatto i conti con uno Stato che abbandona i figli del femminicidio. Adesso però la presidenza del Consiglio potrebbe fare la cosa giusta: rinunciare a farsi restituire il risarcimento". (Carmelo Calì, padre adottivo dei figli di Marianna) Se potessero, Carmelo e Salvatore si sottrarrebbero alle ombre dei ricordi. Carmelo in particolare, che era il più grande, aveva sei anni quando Marianna fu uccisa, e soltanto lui può attingere ai frammenti della memoria. Un ragazzo riservato, diplomato in ragioneria. "Aveva una voce dolce, i capelli neri. Era giovane, bella e ogni tanto rideva. Nolfo? Per me non vuol dire più nulla, mio padre è Carmelo Calì". "I ricordi della Sicilia io li ho cancellati - dice Salvatore - Mia madre ho imparato a conoscerla dai racconti di Paola e Carmelo. Non ho letto il diario. Forse un giorno lo farò, ma so che lì dentro c'è la sua voce e può servire a tante altre donne". Voglia di normalità, di vita da ragazzi. Sani. Quasi un miracolo. La Cassazione, l'8 aprile scorso, ha accolto il ricorso della famiglia Calì contro la sentenza di secondo grado, nonostante la richiesta del procuratore generale Mario Fresa che si era schierato, invece, per la restituzione del risarcimento. Come in uno strano gioco dell'oca, però, nell'attesa della sentenza, Mario Fresa, magistrato noto per la sua inflessibile severità, viene denunciato per maltrattamenti e violenza domestica dalla moglie. Poi la decisione: il processo torna in appello, non più a Messina ma a Catanzaro. Il 9 dicembre prossimo. La Suprema Corte ha anche stabilito che gli avvocati potranno richiedere allo Stato, per i tre figli di Marianna, non soltanto i danni patrimoniali, ma anche i danni morali. Per non aver evitato a tre bambini l'indicibile sofferenza di restare orfani. Il memoriale di Marianna Manduca indirizzato e mai consegnato al Tribunale dei minori di Messina

La favola siciliana della tabaccaia antimafia Mondadori pubblica "Terramarina" di Tea Ranno

  repubblica  22\11\2020 ed. Palermo 

 di EMANUELA E: ABBADESSA

È un mondo misterico quello di Terramarina, ultima fatica di Tea Ranno uscita con Mondadori, in cui uomini e bestie condividono una sorta di comune sentire. Questa, d’altra parte, è la cifra narrativa che accompagna da sempre la scrittrice di Melilli: dall’anno del suo esordio ( Cenere, edito da e/ o nel 2006 e finalista ai premi Calvino e Berto) e fino al più recente L’A-murusanza ( Mondadori, 2019), ha infatti sempre rappresentato la più intima e selvatica identità siciliana soprattutto attraverso le voci femminili, costrette in realtà troppo asfissianti e spesso violente, eppure capaci di slanci libertari.Terramarina è un luogo sospeso tra terra e mare « in cui c’è il sole pure quando piove » , un villaggio in cui le case sono sempre aperte perché gli abitanti sono talmente contigui da essere diventati amici fraterni, tanto da poter condividere gioie, dolori e stupori. Proprio lo stupore li coglie riuniti alla vigilia di Natale quando, preparandosi per la cena prima della messa, si trovano a ricoverare in casa una neonata lasciata nel freddo della sera accanto a un cassonetto.Di natalità, dunque, di nascite e rinascite si occupa questa volta la Ranno, in una favola a tratti ingenua, in cui i buoni sono tutti coloro che sanno guardare nel cuore del prossimo, sanno aprire il proprio e sanno come fare a tenere a bada la ragione quando c’è da mettere in campo i sentimenti; i cattivi, invece, sono i Caini e i Cainazzi, i senza scrupoli, gli approfittatori e i malavitosi, come Occhi janchi, ex sindaco del paesino implicato in loschi affari.Al centro della vicenda è ancora una volta la donna: qui la femminilità viene suddivisa in due personaggi, Agata e Lori, e a ciascuna è affidato il compito di esemplificarne uno degli aspetti. Da una parte Agata Lipari “ la Tabbacchera”, latrice della passionalità, giovane e bellissima sindaca di Terramarina che « non si scorda di essere femmina » e che ha coinvolto l’intero paese in una guerra contro la mafia «a colpi di poesia»; dall’altra Lori, la personificazione della maternità, una ragazzina spaurita, arrivata da chissà dove con in grembo un dolore atroce, l’ombra di un mistero e il fardello di una bimba non abortita, Luce.Intorno a loro ha corpo il cuore pulsante di Terramarina, ossia le molte voci dei paesani, Toni Scianna, Violante, Luisa, il padreparroco don Bruno che sembra trarre pazienza e prudenza dall’Ecclesiaste, Lisabetta. Ciascuno di loro ha una storia a sé, un vezzo, un tic, un amore, un dolore. È al colmo dei preparativi per il Natale, in una notte di neve e di vento, che il vero natale anima Terramarina con il sapore dell’accoglienza senza remore, perché il miracolo della vita esige sempre una celebrazione. Dove l’amore è nutrizione, la pietà è anche ricerca della verità e a questo scopo, uno dei personaggi maschili meglio tratteggiati è Andrea Locatelli, maresciallo dei carabinieri piemontese con cui “la Tabbacchera” ha combattuto il malaffare che « infesta la terra come una gramigna » , per il quale si è accesa in lei « la vampa del desiderio » a forza di versi di grandi poeti scambiati via sms ma dal quale è fuggita per paura dell’enormità stessa dell’amore, rifugiandosi nel lutto per la morte non troppo lontana del marito.In questo tempo, ora che parole come accoglienza, verità e giustizia vengono manipolate ad arte per pura propaganda politica, Tea Ranno orchestra una grande metafora di rinascita in cui il luogo d’elezione perché la carità diventi voce e chieda giustizia è proprio la Sicilia. Nessun altro posto potrebbe esserlo con altrettanta forza perché la Sicilia « non è solo malaffare, neppure magarìa e incantamento e acque chiare e cieli blu e soli ardenti», la Sicilia è «passione perniciosa».

22.11.20

perché non dobbiamo mai giudicare una donna per le sue scelte sessuali

leggi anche https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2020/11/chiara-ferragni-viviamo-in-una-societa.html p>  di cosa  stiamo parlando



La maestra d'asilo tradita dall'ex: "Le mie foto hot sulla chat del calcetto sono riuscite a uccidermi dentro" 
                      di Sarah Martinenghi repubblica  del 19\11\2020

"Quando gli ho chiesto di rimuoverle mi ha risposto che la nostra relazione era basata soltanto sull'attrazione fisica"

"Uccisa dentro". Così si è sentita, quando la sua fiducia è stata tradita. Quando le sue foto più intime e private sono state fatte girare in una chat del calcetto e tutti l'hanno saputo. Quando le è stato detto di non denunciare perché altrimenti tutti avrebbero saputo ancora di più. E la preside della scuola per cui lavorava l'ha persino portata davanti a tutte le altre maestre, sottoponendola a una gogna              pubblica per costringerla a licenziarsi. E adesso lei lo spiega, quel che si prova: "Il     giudizio di chi ti vuole far sentire sporco, il tradimento e tutti quelli che vogliono, ad ogni costo, il tuo silenzio... ti uccide dentro".  [ ....   ]


ecco la risposta al clamore suscitato dalla vicenda sopra riportata .

 da    https://it.mashable.com/4773/campagna-donne-scelte-sessuali-francia

"Se di un uomo che va a letto con tante donne diciamo che è un Don Giovanni, un gran fico, allora perché pensiamo che una donna che fa sesso con tanti uomini sia una 'facile'?"
Se la domanda vi suona retorica, banale e ridondante, chiedetevi perché sentiamo ancora il bisogno di farcela.
La verità è che ancora oggi applichiamo due pesi e due misure (come minimo!) quando si parla di libertà sessuale: nell'immaginario collettivo persiste una visione angelica (o demoniaca?) della donna come oggetto passivo di una "conquista" del maschio, mentre un arcaico subconscio comune insiste nel voler sminuire e ridicolizzarne il suo ruolo di soggetto attivo capace di scegliere, desiderare, lasciarsi andare in piena libertà.


Questa discriminazione si manifesta in modo subdolo e strisciante in molti aspetti della vita sociale, ma è quando si parla di sesso che cadono tutte le maschere e allora riemergono tutti quei pregiudizi primordiali e radicati.
Per rompere i codici e ricordare a tutti che il diritto di fare l'amore senza essere giudicati è universale, il regista Teddy Etienne ha realizzato il cortometraggio ''Dites Oui'' in gara nel Mobile Film Festival, un concorso internazionale che premia video di un minuto girati con uno smartphone."Una donna dovrebbe fare del proprio corpo ciò che vuole, senza che la società o la religione la reprimano, la giudichino e la insultino. Oggi chiediamo alle donne di dire sì alla loro libertà". Queste le parole del regista che ha voluto esprimere un'esigenza non più procrastinabile.


Chiara Ferragni: "Viviamo in una società maschilista. Spesso sono le donne stesse che accusano le donne ed altre storie

la prima  frase  che  mi viene  di getto    è questa  Ci  voleva  Chiara  Ferragni   per  dirci una  cosa   he  dovrebbe essere  ovvia  ed  alla  quale   ci  si dovrebbe   ,   guardandosi intorno  , arrivare   da  soli  ? .   Ma  poi    riflettendo e   leggendo  gli ultimi fatti  di cronaca   ,  vedere    seconda  parte  del post  ,  m'accorgo purtroppo  ha     ragione   . E  che   anche i  vip  ogni tanto usano   il loro   spirito critico e  d'osservazione  uscendo  fuori  dal loro mondo  dorato   e  dicono   qualcosa  di sensato  . Cosa  rara  come  potete    leggere nel post  .
Chiara Ferragni ha scelto Instagram per postare (  qui  il monologo  video integrale  )  questo  video una sintesi

   in cui riflette su come spesso la cronaca di fatti di violenza sulle donne riporti dettagli che spingono a giudicare negativamente chi ha subito quella violenza. "I media danno spesso notizie in modo sbagliato. Alcuni dettagli sono ininfluenti ma le parole usate danno la colpa alla donna per la violenza subita. Con Genovese, in alcuni articoli, lui è descritto come un genio e la violenza sulla ragazza passa in secondo piano"
Infatti   i media   , soprattutto  quelli (  eccezione  il settimanale  OGGI  sia  nell'editoriale  di   Umberto Brindiani   sia  nell'articolo di Giuseppe  Fumagalli  )   destinati  al  largo  pubblico   (  giornali da parrucchiere  si  chiamavano  una  volta  )   spesso  allegati   come inserti ai  quotidiani   si   dovrebbero  farsi delle  domande   su    <<  [...]   com'è possibile  che  un  personaggio  in vista nel mondo del  business  e  del jet-set  abbai  potuto comportarsi   in quel modo  senza  che  nessuno\a  ne  avesse  sentore  ?  [...]  >> (  all  editoriale  d'oggi  oggi n 47  del  26\11\2020 ) .  Su  come  mai   certi vip  (  o pseudo tali ) alcuni in declino   altri   in pieno successo    \  sulla  cresta  dell'onda   che  lo  avevano frequentato  o  erano  assidui ( salvo eccezioni    vedere  foto  a sinistra  presa    dal settimanale  prima citato    ) partecipanti alle sue  feste  o  si limitavano a definirlo   un cafone  arricchito insomma  un parvenu    ,  s'affrettino  a  smarcarsi da lui   o a  giustificarsi   inventando anche  giustificazioni  più o meno  ridicole  \   banali . Perchè  se  prima l frequentavano  



l'importante non è la vittoria ma l'arrivo . Mario Bollini, chi è l'italiano arrivato ultimo alla maratona di New York a 74 anni: «La prima volta ho partecipato nel 1985»

da  msn.it      Un altro grandissimo traguardo raggiunto da un atleta instancabile, che per decenni ha preso parte alla maratona di New York...