rispondendo ala domanda che mi faccio ne ltitolo delblog dico che entrambe le categorie che : poi sono quelle su cuisi basano le celebrazioni contrapposte del giorno del ricordo ( giusto istituirlo sbagliato il metodo su come si è istituito e su come viene fatto celebrare ) [*] sono da respingere . Iniziamo dalla prima
Mentre le istituzioni rievocano il 10 febbraio 1947 celebrando il mito dell’”italiano vittima innocente” della malvagità slava, saltando o smiuendo le responsabilità italiane voglio , seguendo l'esempio della rivista Umanita Nuova ( abbreviato nelle righe succesive in UN ) , far notare attraverso siti e letture diverse da quelle classiche ed ufficiali che la realtà degli eventi storici della storia del confine orientale ( il friuli venezia giulia ) è molto più complessa ed essere letta per poter essere capita nella sua globalità a partire da prima del 1945 .
Rifiuto perciò la visione appiattita e strumentale del neonazionalismo che unisce quasi tutti i partiti ed aerisco all'appello di UN : << Forniamo quindi informazioni concrete sull’esodo istriano e suggerimenti di lettura valorizzando una stimolante intervista alla storica Gloria Nemec. Buona lettura! >> . e diu cui riporto due interessanti articoli . Se qualcuno\a ne ha altri diversi da miei , anche di parte , il confronto è ben accetto Infatti Le stragi istriane e le foibe vanno inserite nel contesto storico della guerra fascista e nazista alle popolazioni slave. Contro ogni strumentalizzazione, ma anche contro ogni rimozione «Si ammazza troppo poco», e «Non dente per dente, ma testa per dente», raccomandavano nel 1942 i generali italiani Marco Robotti e Mario Roatta. Furono 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di esecuzione italiani in Slovenia, «Provincia del Carnaro», Dalmazia, Bocche di Cattaro e Montenegro
Sulla memoria dell’esodo istriano e dei “rimasti”
Lo scopo di questa pagina sulla “Giornata del ricordo”
Mentre le istituzioni rievocano il 10 febbraio 1947 celebrando il mito dell’”italiano vittima innocente” della malvagità slava, vogliamo far notare ai lettori di “UN” che la realtà è molto più complessa. Rifiutiamo perciò la visione appiattita e strumentale del neonazionalismo che unisce quasi tutti i partiti. Forniamo quindi informazioni concrete sull’esodo istriano e suggerimenti di lettura valorizzando una stimolante intervista alla storica Gloria Nemec.[*] Buona lettura!
1. Come ti sei avvicinata alla storia dell’esodo dei giuliano-dalmati?
Da studiosa di storia sociale, ho lavorato sul campo dei processi collettivi e di formazione delle memorie nella zona alto-adriatica, in particolar modo nel secondo dopoguerra. Dove si poteva, ho privilegiato l’uso delle fonti orali, delle memorie autobiografiche e familiari, nell’ambito di progetti grandi e piccoli, internazionali e locali. Il fatto che Trieste fosse divenuta “la più grande città istriana” a seguito dell’esodo dei giuliano dalmati, non mi sembrava un fatto irrilevante: il carico di memorie dolorose e conflittuali aveva connotato non poco la città, anche se sino ai primi anni ’90 la storiografia aveva fatto un uso limitatissimo delle memorie dei protagonisti. La raccolta di testimonianze degli esuli da Grisignana d’Istria che ha prodotto Un paese perfetto (1998) ha fatto un po’ da apripista ad altre indagini con fonti orali, mie e di altri. Per me era importante ricostruire memorie lunghe – dal fascismo al definitivo sradicamento e inserimento nella società triestina – attraverso le storie di famiglie contadine di una piccola comunità. Mi interessava entrare in un mondo di mentalità, valori, cultura materiale e linguaggi per capire meglio la crisi collettiva che aveva comportato l’abbandono di massa del luogo d’origine. Molte narrazioni pubbliche riferite all’esodo si focalizzano invece sul breve periodo 1943-45 come se nulla fosse successo prima e nulla dopo.
2. Che tipologia di persone hai incontrato nelle tue ricerche ?
Un po’ di tutti i tipi. A Trieste ho intervistato soprattutto esuli dalla Zona B, e soprattutto quella specifica tipologia istriana di coltivatori diretti, su proprietà medio-piccole e residenti nelle cittadine. La gran parte dei testimoni sottolineava un’appartenenza urbana-rurale che credo sia specifico elemento costitutivo delle identità culturali degli italiani d’Istria. Molti lavoravano la loro terra “senza servi né padroni” come ha scritto Guido Miglia e si definivano agricoltori ma non contadini perché vivevano nel perimetro urbano. Si percepivano come cittadini occupati in campagna, si cambiavano finito il lavoro per presentarsi con “aspetto civile”, frequentare la piazza, il caffè, l’osteria, dove si ritrovavano gli operatori comunali, gli artigiani, i bottegai. Su quel perimetro spesso si giocava un confronto di lungo periodo tra mondo latino e slavo: nazionale, economico e culturale, secondo una miriade di variabili, dati i profondi fenomeni di ibridismo e le radici intrecciate di molte famiglie. E’ chiaro che il ventennio fascista e i processi di snazionalizzazione degli alloglotti (non parlanti l’italiano come lingua d’uso) rafforzarono per gli italiani delle cittadine il senso della supremazia storica e favorirono una rappresentazione quasi mitica dell’italianità di frontiera. Si affermò quel nesso indissolubile tra fascismo e italianità che si sarebbe ritorto crudelmente a danno degli italiani.
Tra le comunità italiane di rimasti in Istria ho incontrato uomini e donne di tutti i tipi, ovviamente di età adeguata perché chiedevo loro di raccontarmi le storie familiari tra guerra, esodo e dopoguerra. Ho intervistato contadini, operai, pescatori e insegnanti, illetterati e laureati, persone coinvolte nella costruzione dei poteri popolari e persone che li subirono, nell’intento di ricostruire quella pluralità dinamica di storie che è tratto fondamentale della realtà istriana, spesso oscurato dall’univoca definizione di “rimasti”. L’ascolto delle storie di vita insegna la complessità.
3. Come vedono e giudicano oggi quell’evento lontano?
L’esodo fu una crisi comunitaria e una profonda lacerazione: la nostalgia per un mondo scomparso e idealizzato è un tratto comune nella memoria di esuli e rimasti. Fu un lutto complicato da elaborare nel dopoguerra, mentre si imponevano travagliati percorsi di integrazione o di adattamento al nuovo contesto jugoslavo.
4. Sino a che punto la memoria degli esuli trasfigura la realtà storica secondo un paradigma che è stato definito “vittimistico”?
C’è stato un buco nero nella memoria europea del dopoguerra: quello delle migrazioni forzate e della semplificazione etnica che ne conseguì. Si stima che circa venti milioni di persone furono variamente obbligate a trasferirsi, le loro esperienze e memorie rimasero escluse dalla formazione di una memoria collettiva nel corso dei processi di ristabilizzazione post-bellica. E’ chiaro che il paradigma risentito-vittimistico ha un suo senso storico, come compare dalle ultime generazioni di ricerche sui trasferimenti di popolazioni europee. La storia orale ha avuto un ruolo decisivo nel riportare alla luce queste vicende. E siccome i traumi si ereditano, anche le generazioni successive si sono fatte carico della memoria di un evento accaduto molto tempo prima del quale il resto è stato conseguenza.
Gloria Nemec ha insegnato Storia sociale all’Università di Trieste. Da decenni conduce un lavoro sulle fonti orali. Ha pubblicato: Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio. Grisignana d’Istria (1930-1960), Gorizia, LEG, 2015; Nascita di una minoranza. Istria 1947-1965. Storia e memoria degli italiani rimasti nell’area istro-quarnerina, Fiume-Trieste-Rovigno, 2012; Dopo venuti a Trieste. Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine, Trieste-Merano, Circolo “Istria”- ed. Alphabeta, 2015.
* La “Giornata del Ricordo”
* La “Giornata del Ricordo”
E’ stata istituita con Legge ad hoc nel 2004 con votazione quasi unanime del Parlamento. La proposta proveniva dai partiti di destra per i quali era assai utile presentare gli esuli come vittime della “furia slavo comunista” (poi queste furono anche le parole usate dal presidente ex comunista Napolitano). Fu scelto il 10 febbraio, data della firma del Trattato di Pace del 1947 che stabilì la perdita della sovranità italiana su parti della regione giuliano-dalmata. Vi è quindi un esplicito rifiuto dell’accordo internazionale successivo alla sconfitta dell’Italia fascista nel 1945. Le dolorose realtà storiche dell’esodo e delle foibe divennero una componente indiscutibile del neonazionalismo italiano e si è discusso su una proposta di legge per punire chi fosse “negazionista” delle foibe. In realtà nessuno nega l’esistenza di questi fenomeni di violenza post 1945 nelle regioni nord orientali dell’ex Regno d’Italia, ma esiste piuttosto una critica documentata sulle dimensioni degli eventi.
Libri su “foibe e dintorni”
*Federico Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico, Udine, Kappa Vu, 2014. Analizza l’evoluzione delle visioni politiche e dibattito pubblico sulle foibe. In appendice il testo della Legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo e di alcuni discorsi di vari Presidenti della Repubblica italiana.
* Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009. Una raccolta di saggi che parte dall’Ottocento dei nazionalismi. E’ tra le poche opere storiche che valorizza fonti e studi sloveni.
* Claudia Cernigoi, Da Sanremo alle foibe, Udine, Kappa Vu, 2014. Libretto di critica dello spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi, di ottica nazionalista e revanchista, che ha avuto grande successo di pubblico.
secondo post semre dalla stessa fonte
Ripubblichiamo questo articolo del marzo 2015 scritto per il nostro giornale da Claudio Venza sulla “questione foibe”. L’intento è quello di decostruire il mito nazionalista creato ad arte operando una semplificazione delle complesse vicende nei territori del confine orientale italiano nel secondo dopoguerra.
Con la Giornata del Ricordo del 10 febbraio il Parlamento, alla quasi unanimità, aveva istituito nel 2004 una ricorrenza ufficiale per celebrare l’esodo istriano e le foibe. La data del 10 febbraio del 1947 indica la firma del Trattato di Pace che è perciò interpretato, più di 50 anni dopo, come ingiustamente punitivo in quanto riconobbe la sovranità jugoslava sull’Istria e la Dalmazia abitata anche da italiani (o meglio, italo-veneti). La Giornata del Ricordo (ma il termine, sinonimo di “memoria”, è alquanto equivoco) ha dato lo spunto, anche quest’anno, a diverse manipolazioni più o meno maldestre.
Così, un famosissimo presentatore TV, Bruno Vespa, ha tranquillamente presentato a milioni di spettatori un documento storico: la foto di una fucilazione. La sua didascalia ha attribuito il ruolo di carnefici ai partigiani sloveni e quello di vittime agli italiani. Ebbene è vero esattamente il contrario! La fila dei fucilatori, come si vede anche dalla divisa, è quella di soldati italiani; la fila dei fucilati, come si deduce anche dai vestiti, è quella di una dozzina di contadini sloveni. Tra l’altro tale “errore” era già stato denunciato un paio di anni fa in circostanze simili: in una trasmissione televisiva a grande seguito uno storico aveva chiarito l’equivoco. Una prova in più del fatto che la propaganda nazionalista non conosce “memoria” o “ricordo” che non siano strumentali.
Accanto a questo inganno mediatico si colloca un’altra perla, stavolta di un mezzo di informazione della borghesia progressista. La “Repubblica.it” ha annunciato, presentando la Giornata del Ricordo, che in questa data si commemorano le decine di migliaia di italiani uccisi dai partigiani comunisti e gettati vivi nelle foibe dell’Istria e del Carso giuliano. E’ un dato assolutamente gonfiato per impressionare il lettore e contribuire al vittimismo nazionalista, stavolta di centro-sinistra e non più solo apertamente fascista.
Alcuni anni fa, un ex comunista come Giorgio Napolitano, aveva dichiarato che al 10 febbraio si dovevano istituzionalmente ricordare le decine di migliaia di “italiani vittime degli slavo-comunisti”. In tutta tranquillità l’ineffabile personaggio aveva usato la stessa terminologia utilizzata per decenni dai neofascisti. Proprio questi ultimi hanno riscosso, nel 2004, una notevole rivincita dopo essere rimasti relativamente isolati fino al 1994, anno della vittoria elettorale della triade Berlusconi-Bossi-Fini. L’intento degli ex comunisti, oggi pentiti per poter gestire parte del potere politico in alleanza con gli ex democristiani, è risultato evidente anche in questo caso: ripudiare il passato comunista, loro o altrui, criminalizzando perfino la Resistenza antifascista a lungo presentata, da essi stessi, con una retorica martellante che ora si rivela ipocrita.
D’altronde nei giochi politici, in Italia e altrove, si realizzano scambi come questo: concediamo una Giornata della Memoria per ricordare le vittime del nazismo e otteniamo una Giornata del Ricordo per commemorare le vittime del comunismo. Anche su un piano semplicemente fattuale le dimensioni e il significato dello sterminio nazista (e fascista) con i milioni di uccisi per un progetto di dominio mondiale non sono paragonabili alle violenze postbelliche nella regione dell’Italia nordorientale e della Slovenia e Croazia. Sia chiaro che, come succede in contingenze simili, la guerra voluta dai fascisti italiani, appoggiati anche da formazioni collaborazioniste di sloveni e croati, ha procurato come prevedibile conseguenza postbellica alcune migliaia di omicidi degli oppressori ormai sconfitti. In questo contesto non si registra, logicamente, solo l’eliminazione di nemici particolarmente esposti (capi militari degli occupanti, torturatori, spie,…) ma anche dei regolamenti di conti più personali, spesso con mire non di giustizia, ma di vantaggio privato. Per questo motivo risulta assai infelice uno slogan (“Foibe=giustizia”) brandito come un’arma da parte di qualche gruppo che si autodefinisce particolarmente radicale e antifascista.
Un’altra operazione mediatica, che è stata particolarmente esaltata ai fini del vittimismo, dell’autoassoluzione e del revanscismo, si ritrova in uno spettacolo teatrale con protagonista Simone Cristicchi, già affermato cantante con impegno civile serio. Il suo spettacolo “Magazzino 18”, che riprende il nome del grande deposito dei beni portati a Trieste dagli esuli, ha offerto una rappresentazione tecnicamente avvincente. Il messaggio finale, dopo aver ricordato en passant le violenze fasciste contro le popolazioni slave, è centrato sul concetto “Ci hanno violentati e cacciati nel dopoguerra solo in quanto italiani”. In molti posti, anche in Istria, l’invito ad un uso improprio del passato in chiave neo nazionalista sta riscuotendo applausi e consensi e solo qualche sporadica contestazione.
In questi ultimi anni la questione “foibe” è dilagata ben oltre i confini regionali e ha investito l’opinione pubblica di molte città. Qui, come a Udine e a Trieste, con due sindaci PD, si sono inaugurate strade e monumenti ai “martiri delle foibe” quasi per farsi perdonare il fatto di non aver abbastanza sostenuto negli anni passati gli esuli istriani, gestiti piuttosto dalla DC e dal MSI per contendersi l’elettorato di destra. Il termine “martiri delle foibe” era stato usato la prima volta dalla stampa della RSI di Salò nell’ottobre 1943. In quel frangente l’Istria, che era un territorio rurale abitato prevalentemente da popolazione croata, fu terreno per i rastrellamenti tedeschi e italiani che eliminarono la rivolta popolare, a ragioni sociali ed etniche, che aveva fatto seguito al crollo dello Stato italiano dell’8 settembre. Contadini e braccianti croati, ma anche minatori, che per decenni erano stati alla mercé dei padroni e dei militari sostenuti dal regime fascista-italiano, al crollo dell’apparato statale si ribellarono cogliendo l’occasione favorevole per un “regolamento dei conti” con gli oppressori. Nell’Istria interna, soprattutto nella cittadina di Pisino-Pazin, gli insorti, diedero, spesso spontaneamente, l’assalto ai palazzi del potere e dello sfruttamento sequestrando varie centinaia di ex oppressori. In totale è stato calcolato, da fonti attendibili, che in quelle settimane dopo l’8 settembre furono uccisi e “infoibati” circa 300 individui tra civili e militari. Tra di essi si contano anche vari collaboratori del fascismo di etnia slava.
La seconda ondata di repressione contro i fascisti, stavolta sul Carso, si realizzò a Trieste dopo che il Primo Maggio del 1945 la città era stata liberata e occupata dall’esercito jugoslavo. Questo importante centro urbano, che Mussolini e i gerarchi avevano sempre esaltato per la “fede incrollabile”, era stato annesso al Terzo Reich con l’invenzione della regione dell’Adriatische Küstenland. Qui il potere nazista aveva esercitato un controllo totale di ogni potenziale antifascista anche con l’istituzione, unica in Italia, di uno speciale campo di prigionia con forno crematorio, quello della Risiera di San Sabba, alla periferia della città. In esso perirono circa 5000 tra ebrei e partigiani, slavi e italiani. Il sistema repressivo si basava sul collaborazionismo di un paio di migliaia di delatori ricompensati in vari modi.
I partigiani jugoslavi restarono a Trieste fino al 12 giugno 1945 e procedettero alla “eliminazione” (era il loro termine) dei fascisti rimasti intrappolati in città e non fuggiti, come gran parte dei dirigenti, alla fine di aprile. Diverse migliaia, militari e civili, furono arrestati e poi, in buona parte, liberate. Alcune centinaia vennero deportati in Slovenia, nei pressi di Lubiana, dopo la ritirata dell’esercito jugoslavo. In città furono soppressi, talvolta con processi sommari, diverse centinaia di persone tra cui anche oppositori antifascisti, in quanto contrari all’annessione della città alla vincente Jugoslavia.
Almeno alcune decine, o centinaia secondo altri differenti calcoli, furono gettati nelle foibe carsiche, in particolare nella foiba di Bazovica-Basovizza, a pochi km dal centro urbano. Questo tipo di cavità carsica, di cui esistono più di un migliaio di esemplari nel giro di pochi km. quadrati, era costituita da un profondo inghiottitoio con un ampio spazio alla base, ed era usata da decenni come luogo di scarico di animali morti e di immondizie. In quell’abisso furono gettati anche i corpi di centinaia di soldati e cavalli tedeschi morti nella battaglia di fine aprile 1945. Oggi è diventata un “Sacrario della Patria” dove si ritrovano alle varie scadenze gruppi di neonazisti rasati e inquadrati oppure alte autorità locali e talora nazionali.
Lo Stato ha edificato un ulteriore monumento nazionale coprendo tutta la foiba con una grande gettata di cemento e così impedendo ulteriori ricerche ed esplorazioni. In realtà vari storici, poco convinti del contenuto ufficialmente dichiarato e per questo tacciati di “riduzionismo”, avevano chiesto di verificare in modo obbiettivo cosa si nascondesse in quell’anfratto. Invece il potere politico, in teoria erede dell’antifascismo, ha accettato le richieste insistenti delle associazioni combattentistiche e d’arma, di orientamento spudoratamente nostalgico, che reclamavano un riconoscimento completo e definitivo. Inoltre, per dare l’idea del clima politico-culturale dilagante, da anni vari partiti di destra, di centro e di sinistra, propongono di varare una legge che colpisca un apposito reato di negazionismo, simile a quello già in vigore in alcuni paesi europei contro chi nega l’esistenza delle camere a gas nei lager nazisti.
Al pubblico qui condotto da tutta Italia, in particolare alle scolaresche ignare, le guide addestrate impongono una versione dell’”italiano brava gente” quale vittima innocente delle brutalità slavo-comuniste. Si afferma, tra l’altro, l’equiparazione aberrante della Risiera e della foiba di Basovizza: è un facile messaggio per i cultori dei miti patriottici quasi privi di informazioni serie. La manovra di creazione di un consenso artificiale attorno all’unità nazionale, cavallo di battaglia del governo e dei suoi alleati e concorrenti, continua imperterrita e anzi produce ad ogni ricorrenza nuove mistificazioni e rinnovate strumentalizzazioni.
Claudio Venza
Per saperne di più:
J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, 2009,
C. Cernigoi, Operazione “foibe” tra storia e mito, Kappavu, 2005
F. Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico, Kappavu, 2014.
seconda domanda
Concordo con quanto dice Giovanni Sale nel libro IL novecento tra genocidi e speranze di cui riporto sotto un estratto preso da https://books.google.it/ << ad aggravare il bilancio della memoria collettiva del Novecento << [ soprattutto per gli eventi del 1943\5-56 ] << c'è anche il capitolo delle foibe. Vendetta, giustizia proletaria, epurazione etnica, o anche epurazione politica. Comunque si voglia guardare a questo triste capitolo, resta il fatto che la tragedia delle foibe contribuì con tutto il suo peso ad ... >>; continua nelle slide sotto
Ora nelle foibe sia quelle dopo l'8 settembre 1943 sia quelle fra il 1945\47 ci furono :
« ...già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell'autunno del 1943, si intrecciarono "giustizialismo sommario
e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento" della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia.
Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una "pulizia etnica". » (Discorso del Presidente della repubblica Giorgio Napolitano in occasione della celebrazione del "Giorno del ricordo". Roma, 10 febbraio 2007)
La qualificazione delle concause e dei fattori che possono essere alla base dei massacri delle foibe è un'operazione senza dubbio complessa n ed una ferita ancora aperta . Dall'esame dei fatti storici emergono una serie di elementi antecedenti non trascurabili,ma purtroppo sminuiti se non omessi dalle celebrazioni ufficiali quali:
la contrapposizione nazionale ed etnica fra sloveni e croati da una parte e italiani dall'altra, causata dall'imporsi del concetto di nazionalità e stato nazionale nell'area;
gli opposti irredentismi, per cui i territori mistilingui della Dalmazia, della Venezia Giulia e del Quarnaro dovevano appartenere, in esclusiva, all'uno o all'altro ambito nazionale, e quindi all'uno o all'altro stato; le conseguenze della prima guerra mondiale, con un'intensa battaglia diplomatica per la definizione dei confini fra il Regno d'Italia e il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni con conseguenti tensioni etniche, che portarono a disordini locali e compressioni delle rispettive minoranze fin dal primo dopoguerra; il tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia durante il ventennio fascista; l'occupazione militare italiana, durante la seconda guerra mondiale, di diverse zone della Jugoslavia durante le quali si verificarono anche crimini di guerra contro la popolazione civile ; la guerra nel teatro jugoslavo-balcanico, che fu uno dei fronti più complessi e violenti[69] (ad esempio l'operato degli ustascia croati); la convinzione dei partigiani jugoslavi che erano legittimati ad annettere al futuro stato jugoslavo quella parte della Venezia Giulia e del Friuli (Litorale sloveno ed Istria), abitata prevalentemente o quasi esclusivamente da croati e sloveni; la convinzione, diffusa fra i partigiani jugoslavi, che la guerra di liberazione jugoslava non avesse solo un carattere "nazionale", ma anche "sociale", con la popolazione italiana percepita anche come "classe dominante" contro cui lottare; la natura totalitaria e repressiva del costituendo regime comunista jugoslavo
Ora La spirale di violenza si innescò immediatamente dopo la caduta del regime nazifascista, favorita
dalle tensioni politiche e
sociali presenti sul territorio, che contribuirono al compimento di azioni di natura giustizialista nei confronti dei sostenitori del precedente regime e che furono successivamente indirizzate da alcuni nuclei di potere, formatisi in seno al movimento di resistenza, all'eliminazione di potenziali avversari politici, additati come nemici del popolo. In questa analisi non vanno trascurate anche le azioni criminali di semplici delinquenti, e delle popolazioni slave che avevano subito il brutale processo di italianizzazione forzata che approfittarono della confusione e della temporanea assenza di forze di polizia, preposte al mantenimento dell'ordine pubblico, per compiere azioni criminali e azioni di violenza gratuita
« Una delle argomentazioni più diffuse al riguardo (chiaramente giustificazionista, va notato subito, ma non certo infondata) è che le foibe sarebbero - a parte errori ed eccessi - ritorsione ai crimini di guerra commessi da militari e fascisti italiani nel corso della loro occupazione (...). Ad essi vengono connessi i crimini della politica fascista e nazionalista (...). La tesi è stata sostenuta fino ad anni recenti, e oggi (...), viene ancora menzionata (...), anche se è sempre più pacifica(...) la constatazione del movente politico dei fatti. Ciò però vale soprattutto per i fatti del 1945 e poco per quelli del 1943, tuttora spesso oscuri e non documentati, specie in Croazia. (...) I fatti del maggio 1945 sono certo caratterizzati da 'furor popolare' come più volte si è detto. Ma esso è lo scenario, e il dramma che vi si svolse aveva sostanza politica. La presenza di volontà organizzata non è dubbia. Eliminazione fisica dell'oppositore e nemico (di forze armate giudicate collaborazioniste) e, insieme, intimidazione e, col giustizialismo sommario, coinvolgimento nella formazione violenta di un nuovo potere. »
(Elio Apih, "Le foibe giuliane", Libreria Editrice Goriziana, 2010, ISBN 978-88-6102-078-8; p.21 e p.70)
Ciò premesso, << il fenomeno delle foibe può essere considerato come un evento derivante da un disegno politico annessionista, il cui duplice obiettivo era: - sempre secondo Wikipedia -
l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia: si volevano pertanto neutralizzare quelli (essenzialmente italiani) che si opponevano all'annessione di queste terre alla Jugoslavia.
l'avvento di un governo comunista jugoslavo in quelle terre: si volevano pertanto neutralizzare reali o potenziali oppositori del costituendo regime comunista.>>
Pertanto gli eccidi specie quelli del 1945 "si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto" di una "violenza di stato"[, attuata con la repressione politica e l'intimidazione, in vista dell'annessione alla Jugoslavia di tutta la Venezia Giulia (incluse Trieste e Gorizia) e per eliminare gli oppositori (reali o presunti) del costituendo regime comunista. In vista di questi due obiettivi era infatti necessario reprimere le classi dirigenti italiane (compresi antifascisti e resistenti), per eliminare ogni forma di resistenza organizzata. Questo aspetto era particolarmente importante a Gorizia e Trieste, della cui annessione gli Jugoslavi non erano (a ragione) certi. Tito, pertanto, fece il possibile per occupare le due città prima di ogni altra forza alleata, per assicurarsi una posizione di forza nelle trattative. Durante l'occupazione di Gorizia e di Trieste diverse migliaia di italiani furono arrestati, uccisi o deportati nei lager jugoslavi (soprattutto nel campo di lavoro e detenzione di Borovnica e nel carcere dell'OZNA di Lubiana). Neutralizzando i vertici dirigenziali, ed eliminando o intimorendo i cittadini italiani tentò di far credere che gli jugoslavi fossero la maggioranza assoluta della popolazione: la composizione etnica sarebbe stata, infatti, un fattore decisivo nelle conferenze del dopoguerra e per questo motivo la riduzione della popolazione italiana risultava essenziale.
Lo sfruttamento del clima giustizialista per eliminare, oltre ai sostenitori del regime fascista, anche potenziali oppositori politici, accomuna, secondo lo storico Boris Gombač, i massacri delle foibe alle violenze perpetrate nello stesso periodo da gruppi radicali comunisti nel cosiddetto triangolo della morte in Emilia, dove tra le migliaia di vittime della violenza insurrezionale vi furono anche circa 400 tra proprietari terrieri, industriali, professionisti, preti e altri appartenenti alla borghesia, solo perché dichiaratisi anticomunisti.
Su questo dibattuto problema, gli storici italiani e sloveni hanno raggiunto conclusioni concordi, espresse nella Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena :
« Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani. »
(Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, Relazioni italo-slovene 1880-1956, "Periodo 1941-1945", Paragrafo 11, Capodistria, 2000)
Le autorità italiane, pur avendo sostenuto l'operato della commissione, non hanno adottato la relazione, ritenendo inopportuno conferire ad essa uno status di ufficialità che non è compatibile con il principio della libera ricerca. Il Governo italiano nel 2007, rispondendo ad un'interrogazione parlamentare del deputato Cardano, ha precisato che, godendo già la Relazione della Commissione bilaterale dello status di ufficialità ed essendo passati ormai ben 7 anni dalla sua prima pubblicazione sulla stampa e dal riconoscimento ufficiale del governo sloveno, non riteneva necessario pubblicarla in quanto essa godeva già dello status di ufficialità, e confermando la sua veridicità ne ha auspicato la diffusione nel mondo della cultura e della scuola.
Per quanto riguarda il supposto aspetto "vendicativo", essendo i fascisti e i loro fiancheggiatori in gran parte italiani (sia pure non in numero superiore rispetto ad altre regioni italiane), e opponendosi essenzialmente gli italiani all'annessione alla Jugoslavia, soprattutto a livello locale fu frequentemente utilizzata l'equazione italiano = fascista. Questo aspetto provocò, localmente, episodi di "jacquerie" (insurrezioni spontanee dei ceti popolari o dei partigiani tito secondo altri ), in cui molti colsero anche l'opportunità di portare avanti vendette personali o compiere rapine eliminando i testimoni. Gli episodi di jacquerie si verificarono prevalentemente nel corso degli eccidi del settembre-ottobre del 1943, avvenuti in un contesto in cui vennero a mancare i poteri costituiti. Tale jacquerie si rivolse ,secondo i sostenitori del genocidio etnico , non solo verso i rappresentanti del regime fascista, ma anche verso gli italiani in quanto tali.