10.10.20

quando le trasgressioni e le provocazioni contro il politicamente scoretto sono il nuovo conformismo il caso di Nino Spiri vice presidente della calabria

di cosa  stiamo parlando  

 

 

 Leggendo   l'editoriale  di  Aldo grasso su il settimanale  Oggi  n  41  15\10\2020   ho cercato sui motori di ricerca  chi  fosse   Siri  ed   ho  trovato  questo articolo  di Dagospia  

3 OTT 2020 12:43


“LA LOBBY FROCIA ESISTE E AGISCE PER NOMINE E POTERE” – IL VICEPRESIDENTE LEGHISTA DELLA CALABRIA (OMOSESSUALE DICHIARATO) NON MOLLA, ANZI, A “LA ZANZARA” BUTTA IL CARICO: “A 24 ANNI SONO STATO STUPRATO, NESSUNO MI IMPEDIRÀ DI DIRE FROCIO, NEGRO E ZINGARO. NON MI DIMETTERÒ MAI, HO DETTO COSE SACROSANTE E RICEVO MOLTI CONSENSI…” – L'AUDIO INTEGRALE

  



“DIRO’ LE PAROLE NEGRO E FROCIO FINCHE’ CAMPO…” - VIDEO - LA PROVOCAZIONE DEL VICEPRESIDENTE LEGHISTA DELLA REGIONE CALABRIA NINO SPIRLI’ (OMOSESSUALE E CATTOLICO) – “IN CALABRESE DICO ‘NIGRU’ PER DIRE NEGRO, NON C’È ALTRO MODO” - PRIMA DI MOSTRARE UN ROSARIO HA CORONATO IL SUO DISCORSO ATTACCANDO “LA LOBBY FROCIA, CHE TI IMPEDISCE DI CHIAMARE LE COSE COL LORO VERO NOME” -

NINO SPIRLÌ A “LA ZANZARA”



Nino Spirlì (Lega, vicepresidente Calabria) a La Zanzara su Radio 24 : “Non mi dimetterò mai, ho detto cose sacrosante. Ricevo molti consensi”. “Mussolini ha fatto cose positive”.

 

“Fascismo e comunismo sono la stessa cosa, uno schifo”. “Contrario a matrimonio e adozioni gay, non faccio parte della lobby frocia”. “Lobby frocia esiste e agisce per nomine e potere”.

 

MATTEO SALVINI NINO SPIRLI'MATTEO SALVINI NINO SPIRLI'

“A 24 anni sono stato stuprato, nessuno mi impedirà di dire frocio, negro e zingaro”. “Vogliono bruciare le parole come i Nazisti quando bruciavano i libri”. “Chi vuole mie dimissioni fa parte di dittatura, vogliono cancellare chi non la pensa come loro”. 

“Parola gay è più insultante di Frocio”. “Sono contrario a matrimonio e adozioni gay, un bambino non può crescere in coppia omosessuale”. “Vendola ha pagato un figlio, pratica nazistoide”


NINO SPIRLI'NINO SPIRLI



E' vero che  il  politicamente  corretto  spesso  corrisponde  ad una censura    ed  ad un omologazione del pensiero  ovvero come dice   Aldo  Grasso  : << [...]    A qualcuno  il politicamente  corretto  pare  un eufemismo  zuccheroso e  saccente  , che traveste   la realtà   sotto falso  nome [ ... ] >> .  Ed  alcune  cose   sul mondo dell'omosessualità       sentire  l'audio  alla trasmissione  la  zanzara    non    ha  tutti i torti  .   Ma   a volte  si tratta    di   buona educazione , rispetto  , sensibilità .  Infatti   le provocazioni  e  invito  alle trasgressioni   cioè il  il politicamente  scorretto   e  la provocazione  a tutti  i  costi    sono    diventante  ormai     nuovo conformismo   proprio  come  dice  uno  dei poeti 

 della  canzone   italiana  


E poi  visto che  lui  è  omosessuale   ed   è  stato vittima di  violenza   dovrebbe  sapere  che  dalle  parole ai  fatti   in  molti  casi  . Infatti : <<  questo vogliono farci credere, che si vogliono censurare parole innocue, ripetono che in fondo spesso si insulta per gioco. Non è così. Il senso dell’umorismo non c’entra nulla, nessuno deve sentirsi libero di discriminare, di maltrattare un essere umano mai, e questa legge avrà invece un effetto sulle azioni. Le parole che pronunciamo condizionano quello che pensiamo, e dopo condizionano soprattutto quello che facciamo.>> (  intervento \ appello per la manifestazione a Milano il 10\10\2020  contro l’omolesbotransfobia di Roberto Saviano    che trovate sotto




  o  qui  se  non   riuscite  a vederlo   ) 


quindi   concludendo    sono     d'accordo  con   quanto  ha  detto   questo mio amico   discutendo (  qui la  discussione  )  sul mio  fb     riguardante il personaggio in questione  .  

9.10.20

qualcuno della lega sta iniziando a capire che capisce a il vento del cambiamento non si può fermare e resistendogli gli si fa solo perdere tempo . Pavia, il sindaco leghista chiede la cittadinanza per Danielle Madam, atleta insultata al bar

 di cosa  stiamo  parlando 


Pavia, altre offese alla campionessa Danielle: "Non diventerai mai italiana"
Ancora attacchi razzisti per la 23enne talento nazionale del lancio del peso. Questa volta, dopo 16 anni nel nostro Paese, è stata apostrofata al bar dove lavora.   .....  continua   qui 

Per chi fosse interessato ad  approfondire  tali tematiche  vedi : 
  1. https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2020/10/dibattito-con-ramaflowers-ramona-bruno.html
  2. https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2020/09/ur-fascismo-e-razzismo-incoscio-nei.html

  Ora   non ditemi che non è razzismo   più o meno  sottile . Meno  male  che   anche  all'interno della lega, esistono   anche se    tropo poche  , delle persone  come si deve   ed  intelligenti  .che   hanno  capito  che    come dice  il poeta : <<[...] se avete deciso in fretta\che non era la vostra guerra\voi non avete fermato il vento gli avete fatto perdere tempo. [....] >> (  dalla  versione originale di La canzone del Maggio )  è impossibile fermare    il vento del cambiamento  della trasformazione  .  Ed  il  protagonista leghista     dell'articolo    sotto    riportato      ha  provato     a  cavalcarlo   non importa  se  per  opportunità politica   o perchè crede   in determinati   valori ma   almeno  non  è  stato nè  imbelle   nè indifferente  


Pavia, il sindaco leghista chiede la cittadinanza per Danielle Madam, atleta insultata al bar
Dopo gli insulti razzisti ricevuti nel bar dove lavora a causa di un suo post sul caso Suarez, il sindaco leghista di Pavia Mario Fracassi ha scritto una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiedendo la cittadinanza italiana per Danielle Madam, giovane atleta di origini camerunensi che vive in Italia da ormai 16 anni. Danielle si è detta entusiasta e felice.

<iframe scrolling='no' width='640' height='440' src='https://youmedia.fanpage.it/embed/X3tJOeSwNkSM7JO5?bar=1&autoplay=1&h=440' frameborder='0' allowfullscreen></iframe>  se  non lo vedete    cercatelo nell 'url  dell'articolo che trovi sopra  

Da anni Danielle Frédérique Madam, ragazza di origini camerunensi ma in Italia da quando ha 7 anni, conduce una battaglia per avere la cittadinanza italiana. Proprio per questo aveva deciso di manifestare tutto il suo disappunto sul caso di Luis Suarez – il calciatore che avrebbe ottenuto illecitamente la certificazione della lingua italiana necessaria per avere la cittadinanza – sul suo profilo Facebook.


            in foto: L’atleta Danielle Madam e il sindaco di Pavia Fabrizio Fracassi (Fonte: Facebook)


Danielle è conosciuta per i suoi successi sportivi
Danielle è all'ultimo anno di università a Pavia e in tantissimi la conoscono per i suoi successi sportivi nel mondo del lancio del peso (cinque volte campionessa italiana). Su Facebook l'atleta aveva mostrato ai suoi follower tutta la sua rabbia per il caso Suarez: le sue parole avevano portato molti ad appoggiarla e sostenerla, ma alcuni a criticarla anche nel "mondo reale". Qualche giorno fa, infatti, un uomo era entrato nel bar dove Danielle lavora nel fine settimana e le avrebbe detto di "non essere italiana" e che "non lo sarebbe mai diventata". Parole dure, che hanno portato l'atleta a raccontare l'episodio sul suo profilo e che hanno spinto molti, tra cui il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ad appoggiarla.
La lettera del sindaco di Pavia
"Voglio condividere con Voi un’iniziativa che ritengo importante – ha scritto sulla sua pagina Facebook il sindaco di Pavia Fabrizio Fracassi -. Ho deciso di scrivere al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per sostenere, in qualità di suo Sindaco, la concessione della cittadinanza per eminenti servizi resi al Paese alla giovane atleta Danielle Frédérique Madam, vittima di recenti aggressioni verbali. Coraggio Danielle: Pavia è con Te". Fracassi, sempre nello stesso post, ha condiviso la lettera indirizzata al Capo dello Stato. 
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Voglio condividere con Voi un’iniziativa che ritengo importante. Ho deciso di scrivere al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per sostenere, in qualità di suo Sindaco, la concessione della cittadinanza per eminenti servizi resi al Paese alla giovane atleta Danielle Frédérique Madam, vittima di recenti aggressioni verbali. Coraggio Danielle: Pavia è con Te.



Segue il testo della lettera:
All’attenzione del Sig. Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Signor Presidente,
porgendoLe i miei saluti e quelli di Pavia, Città che ho l’alto compito di rappresentare e a cui Ella farà l’onore di una visita il 4 febbraio 2021, in occasione dei 660 anni del suo antico Ateneo, Le rivolgo queste brevi righe per porre alla Sua attenzione il caso di Danielle Frédérique Madam, giovane atleta ventitreenne, originaria del Camerun ma da 16 anni in Italia (ancorché da 4 residente), e pur tuttavia non ancora in possesso della cittadinanza italiana. La Medesima, Suo malgrado oggetto di cronaca in queste settimane per alcuni insulti rivoltile dal vivo e sui social, in virtù della Sua battaglia per la cittadinanza, è sportiva di assoluto valore e può già vantare tre titoli nazionali di lancio del peso nelle categorie giovanili, oltre a un attaccamento spiccato e più volte manifestato nei confronti dei colori azzurri. La presente per promuovere presso il Suo Ufficio la concessione della cittadinanza italiana, in virtù degli eminenti servizi resi al Paese e per l’eccezionale interesse dello Stato che ne discende. Certo che le mie parole incontreranno la Sua sensibilità,Le indirizzo i miei saluti più cordiali, nell’attesa di averLa ospite nella nostra Città.
Con viva stima, Il Sindaco di Pavia Mario Fabrizio Fracassi

Il primo cittadino ci tiene a sottolineare che Danielle merita la cittadinanza perché oltre a vivere da sedici anni in Italia è "sportiva di assoluto valore e può già vantare tre titoli nazionali di lancio del peso nelle categorie giovanili, oltre a un attaccamento spiccato e più volte manifestato nei confronti dei colori azzurri". La lettera è stata scritta e firmata alla presenza di Danielle, che ancora una volta ha manifestato sui social tutto il suo entusiasmo: "Sono molto emozionata e onorata, forse qualcosa sta cambiando davvero per me e per tutti noi". In fondo nel suo post-sfogo sul caso Suarez aveva scritto: "Spero che un giorno qualcuno dall’alto si metterà la mano sulla coscienza e penserà anche ai diritti negati ai noi, italiani di seconda generazione senza cittadinanza italiana". E quel giorno sembrerebbe essere arrivato.

e  proprio mentre  m'accingevo a   concludere  questo post   partono  le  note  di questa bellissima  canzone   

buonanotte  a tutti\e 

8.10.20

Marisa, dire basta dopo 50 anni di violenze

ecco ,   in occasione  della prossima    retorica  o quasi   La Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne   che  si  tiene  annualmente  il  25   novembre  , una  storia   come    quelle    di  cui  parlavo in un  post    precedente  .
Storia    trovata  facendo  un po'  i  pulizia   tra  spam , Newsletters  nel email redbeppe@gmail.com  .

Una vicenda     quella  che    riporto oggi  che  , lo so  che  le amiche e   le collaboratrici  femministe     o   vicine al movimento  femminista  di  questo nostro blog o  fra i miei  contatti social   mi  massacreranno   ma   la penso cosi  ,   storia  che testa  la  validità  dei proverbi  \  detti:

  • meglio tardi che  mai
  •   del senno di poi  sono piene  le  tombe  

Ma   ora  bado alle  ciance   e  veniamo  alla  storia  


Marisa, dire basta dopo 50 anni di violenze

11 settembre 2020 | diMario Calabresi

Due settimane prima di compiere ottant’anni, la signora Marisa decise che non poteva più sopportare, fece finalmente quello che non aveva avuto il coraggio di fare per tutta la vita: denunciare le violenze dell’uomo che aveva sposato nel 1965 e con cui aveva fatto due figlie. Quella sera, era il 9 marzo di quest’anno, dopo averla insultata per ore, lui le aveva stretto le mani al collo e puntato un coltello alla gola. Lei, per sfuggirgli, aveva cominciato a correre intorno al tavolo, lui l’aveva inseguita con il coltello ma lei era riuscita ad arrampicarsi sul soppalco dove dormiva. Prese allora il telefono e dopo 55 anni di paura, indecisioni e soprattutto troppi scrupoli, chiamò il 113. Poi disse semplicemente: «Ho chiamato la polizia». Marisa aveva deciso che voleva provare a essere libera.

Alcamo, 2 gennaio 1966. Franca Viola, la prima donna in Italia a rifiutare il matrimonio riparatore, seduta negli uffici del Commissariato di polizia dopo essere stata liberata dai suoi rapitori e violentatori (foto ©Sergio Del Grande/Mondadori Portfolio)

«Lui non poteva crederci che lo avessi fatto, si calmò e si mise a sedere sul divano. Rideva nervoso. Quando i poliziotti suonarono alla porta andò ad aprire con la faccia di un agnellino, incredulo che mi fossi permessa di ribellarmi». Marisa si vergogna di raccontare cosa ha sopportato, lo ha fatto in una lunga deposizione in Commissariato e il 29 settembre lo ripeterà davanti al giudice, quando il marito andrà a processo con il rito abbreviato. È stata lontana da giornali e televisioni, non vuole notorietà e rumore, sogna solo pace e un po’ di silenzio. Ha accettato di raccontarmi la sua storia per un unico motivo: «Per dire alle giovani donne di avere il coraggio di denunciare subito, di non aspettare anni, di non farsi illusioni, di non rischiare di farsi ammazzare e di non sprecare una vita intera come ho fatto io».Il 9 marzo era il primo giorno di lockdown: «Eravamo chiusi dentro casa da più di una settimana, da quando il virus aveva cominciato a uccidere, e questo peggiorò le cose. Prima lui stava tutto il giorno sulle panchine, ora si era messo a bere in continuazione, era diventato ancora più violento e pericoloso. Avevo paura, mi feci spiegare da un’amica come fare e cominciai a registrare sul telefono gli insulti e le minacce. Avevo pensato: forse, se sentono, mi crederanno».

Abbiamo scelto di ritrarre tre donne simbolo della lotta contro la violenza di genere. Questa è Franca Viola. Il 26 dicembre 1965, Franca ha quasi 18 anni e vive ad Alcamo, in Sicilia, dove ancora abita. Il nipote di un boss locale, Filippo Melodia, le ha messo gli occhi addosso. Lui e dodici uomini della sua banda la rapiscono insieme al fratello minore. Li portano in campagna; poi liberano il bambino e tengono Franca per alcuni giorni in casa della sorella di Melodia. Per l’articolo 544 del codice penale (poi abrogato) i reati di sequestro di persona e violenza sessuale si estinguerebbero se la ragazza sposasse Melodia. Ma lei, appoggiata dai genitori, rifiuta. È la prima in Italia a dire di no alle nozze riparatrici. Nel 1966, a Trapani, inizia il processo a carico della banda. Vengono tutti condannati. Melodia sconta dieci anni di carcere e due di soggiorno obbligato vicino a Modena. Lì viene ucciso nel 1978. Franca, intanto, si è sposata e ha avuto due figli (ritratto di Marta Signori)

Gli audio raccontano una vita da incubo. In sottofondo si sente la televisione, che è sempre accesa in un’infinita diretta che parla del Covid-19, dei malati, delle cure, del lockdown. Poi si sente la voce di lui, che ripete senza sosta la sua litania di insulti: «Sudicia, maiala, troia, infame, schifosa». Se Marisa osa chiedergli di smetterla inizia a bestemmiare, alza il tono e le grida: «Non parlare, mi fai schifo! Se riapri la bocca ti tiro un piatto in faccia». La accusa di essere stata troppo al telefono, di aver mandato un messaggio a un’amica, di non aver pulito, di non aver preparato da mangiare, di aver sbagliato a fare la spesa, qualunque motivo è valido per insultarla e minacciarla. Appena lui inizia a bere, lei si rifugia nel piccolo soppalco dove ha messo il letto, a cui si accede da una ripida scala a chiocciola che lui fatica a salire. Allora lui la bersaglia con un lancio di oggetti. Nelle registrazioni si sente il rumore delle tazze e dei piatti che vanno in pezzi e la voce alterata: «Vengo su e ti butto di sotto».

Marisa ha sopportato le violenze fisiche e verbali per tutta la vita ma ora sente di essere in pericolo, guarda con ansia ai coltelli, al martello e al fucile da cacciatore. L’arma è la prima cosa che i poliziotti porteranno via e nella denuncia lei racconterà che nell’ultimo periodo le puntava il coltello alla gola quasi tutte le sere. La polizia dopo aver raccolto la sua testimonianza, quella delle figlie, degli assistenti sociali e della vicina, si ripresenta a casa e lo invita a fare la valigia, lui non capisce, allora loro gli notificano il divieto di avvicinamento e lo portano via, andrà a casa della figlia in attesa del processo.

Questa storia si svolge in una casa popolare di due stanze a Firenze e inizia nel 1962: «Avevo 22 anni, dopo la festa per le nozze d’oro dei miei nonni decisi di andare in balera con un’amica. Eravamo appena entrate quando un ragazzo mi invitò a ballare il liscio con lui. Aveva solo sei mesi più di me, era bello, sportivo, faceva il meccanico ed era bravissimo a giocare a calcio. Ai miei occhi era perfetto e quella coincidenza con i cinquant’anni di matrimonio dei nonni mi parve un segno. Cominciammo a uscire insieme, lui aveva un piglio molto maschio e questo allora mi sembrava una cosa bella. Diceva di amarmi alla follia e decidemmo di sposarci dopo tre anni di fidanzamento. Ma poco prima delle nozze iniziai a vedere le prime nubi: se qualcosa non andava come voleva allora cominciava a gridare. Io pensavo che l’avrei calmato, illudendomi che sarebbe cambiato».

Si sposarono nel 1965, la prima figlia nacque nel ’68 e la seconda nel ’75: «Dopo le nozze diventò sempre più prepotente e possessivo, cominciò a pretendere rapporti sessuali particolari e violenti, all’inizio lo assecondavo per quieto vivere ma non si può sempre dire di sì e farsi usare, allora ho pronunciato il primo “no”. Da lì sono cominciati i veri guai: non era previsto che io potessi dire che una cosa non mi andava bene, per lui ero una sua proprietà, come se mi avesse comprato. Reagiva con delle furie che non erano dell’umano». Racconta tutto con una voce forte e squillante e un marcato accento toscano, ma quando ricorda le prime violenze si ferma, non riesce ad andare avanti e dice soltanto: «Che umiliazione, mi vergogno anche a raccontarla la mia vita».

Lucia Annibali ha 36 anni e fa l’avvocato a Pesaro. La sera del 16 aprile 2013 sta rientrando in casa, quando un uomo spalanca la porta dall’interno e le tira del liquido corrosivo in faccia. L’uomo si chiama Rubin Ago Talaban, è albanese e, insieme al connazionale Altistin Precetaj, è stato ingaggiato dall’ex fidanzato di Lucia, Luca Varani. Lui non si rassegna alla fine della relazione e la perseguita, fino a diventare mandante dell’agguato. Sarà condannato per tentato omicidio, lesioni gravissime e atti persecutori a 20 anni di carcere; per i due sicari la condanna sarà di 12 anni. Lucia ha il volto sfigurato, inizia un calvario di interventi chirurgici, ma trova la forza di andare avanti; viene nominata cavaliere della Repubblica e dal 2018 è deputata. Sa che la sua storia può essere d’esempio e racconta di avere un rimpianto: non aver denunciato prima Varani (ritratto di Marta Signori)

Marisa da ragazza lavorava in un calzaturificio, poi prese un’intossicazione e passò in una fabbrica di scatole; quando questa chiuse, si mise a fare le pulizie nelle case ma non guadagnava abbastanza da essere autonoma, nel frattempo aveva perso i genitori e con loro l’idea di avere degli alleati.
Lei e il marito vivevano in un minuscolo appartamento, la bambina piccola dormiva in cucina, mancavano sempre i soldi, aumentavano le tensioni e le violenze e lui cominciò a tradirla. Nel 1976 lei propose la separazione consensuale, lui accettò, aveva un’altra donna e tornò a vivere da sua madre, ma presto anche lei lo buttò fuori.

«Io non lo volevo più vedere, ma le figlie ogni giorno chiedevano che tornasse, piangevano, urlavano e mi facevano sentire in colpa. Un anno dopo si presentò alla porta, mi disse che aveva capito i suoi errori, che era cambiato, mi fece una montagna di promesse. M’illusi e lo lasciai rientrare. Durò poco, lui tornava a notte fonda ma non voleva che uscissi, era violento e, se osavo discutere, mi prendeva per il collo. Lo imploravo di non farlo davanti alle figlie, ma non aveva nessun freno». La più grande ricorda tutto benissimo, alla polizia ha raccontato delle minacce e del lancio di oggetti fin da quando erano piccole: «Mia madre è stata insultata e minacciata tutti i giorni della vita, dalla mattina alla sera».

Quando le figlie escono di casa, all’inizio degli anni Novanta, la situazione peggiora ulteriormente: «Continuava a pretendere di avere certi rapporti, brutti e malati. Ricordo la sua reazione quando gli dissi di non toccarmi più: “Non ci sono più le ragazze a difenderti, se voglio ti lego e faccio quello che mi pare”. Gli risposi: “Tu sei un grullo, abbiamo più di cinquant’anni, lasciami in pace”. Allora lui prese un cuscino e minacciò di soffocarmi. Gli dissi che l’avrei denunciato, rispose con un ghigno: “Che vuoi fare, bastarda, tanto nessuno ti difende». Le chiedo perché rimase ancora lì, le figlie ormai erano grandi: «Perché non avevo un posto dove andare e i soldi per vivere e così mi inventai il soppalco, un posto dove rifugiarmi».

Il suo inferno privato prosegue per altri 15 anni, poi, quando si avvicina ai 70 (siamo nel 2009), si rivolge ai servizi sociali del Comune di Firenze che si attivano subito: tentativi di mediazione, terapia familiare, propongono servizi di assistenza domiciliare, aiuti per le commissioni, la pulizia della casa; il marito è aggressivo con le assistenti sociali e rifiuta tutto. Marisa grazie al sostegno riesce a separarsi legalmente nel 2010 e non avendo dove stare accetta di andare a convivere con un’altra anziana a cui dava aiuto e assistenza. La donna, però, morì due anni dopo e lei si trovò di nuovo per strada. La figlia la convinse ad andare dalla suocera che aveva 103 anni. Un altro inferno: «Mi faceva fare la cameriera, non avevo ancora diritto a 73 anni ad avere la mia vita». L’anno dopo anche la suocera venne a mancare.

Marisa abbassa la voce, non vorrebbe nemmeno dirmi cosa è successo dopo: «Tornai a casa con lui. Mia figlia cominciò a dirmi che piangeva tutti i giorni: “Mamma, guarda che ha fatto i conti con sé stesso, è pentito, è solo, è depresso, ha il diabete, cade spesso per terra e io non me ne posso occupare. Prova, ti prego, intanto fai domanda per un alloggio”». La figlia maggiore non ne vuole più sapere e si è allontanata, la minore, che fa l’infermiera e vive sola con una bambina di sei anni, non vuole il carico del padre. Così Marisa torna nelle due stanze della casa popolare con l’ex marito, ormai hanno 76 e 77 anni. La calma dura pochi giorni, ricominciano subito i maltrattamenti verbali, fisici, le minacce, il lancio di oggetti. I servizi sociali fanno segnalazioni all’autorità giudiziaria nel 2015, 2018, 2019, propongono soluzioni ma si scontrano sempre con due dati: Marisa non vuole denunciare il marito perché pensa che perderebbe il rapporto con le figlie e non accetta l’inserimento in una casa-rifugio perché significherebbe non poter più vedere la nipote.

L’attrice americana Alyssa Milano, 47 anni, è famosa per essere stata tra le protagoniste della serie tv “Streghe” e per aver lanciato – il 15 ottobre 2017 – la campagna #MeToo. È appena scoppiato lo scandalo degli abusi sessuali che travolge il mondo dello spettacolo e non solo, con le denunce fioccate a carico del produttore cinematografico Harvey Weinstein, quando Alyssa pubblica su Twitter l’appello a rompere il silenzio: «Se tutte le donne molestate o violentate scrivessero “Me too” nel loro status, potremmo far capire quant’è vasto il problema». A incoraggiarla, la collega Rose McGowan, tra le prime ad accusare Weinstein. In 24 ore #MeToo riceve mezzo milione di adesioni; campagne simili nascono su altri social e in altri Paesi (ritratto di Marta Signori)

Poi arriva il virus e quella telefonata: «In Commissariato sono stati gentilissimi, io tremavo, mi hanno ascoltata, mi hanno rassicurata, non potevo credere a tanta attenzione e correttezza. A un certo punto mi hanno anche accompagnata in bagno, non avevo mai ricevuto tanta gentilezza in vita mia». Le chiedo perché non l’ha fatto prima, perché non è andata a denunciarlo quarant’anni fa. «Perché era un’altra Italia, perché pensavo che non mi avrebbero creduto, perché si dava ragione agli uomini. Ho sprecato la vita». Il suo avvocato, Mattia Alfano, la rassicura, le parla di un futuro senza incubi. Lei finalmente sorride.

Le chiedo se ha dei progetti: «Sì, rimettere a posto quelle due stanze e, per il tempo che mi è rimasto, vivere in pace, frequentare le amiche, fare la nonna e mostrare alle mie figlie che alla fine ho fatto la cosa giusta. E se posso, parlare anche alle ragazze giovani». Per dire cosa? «State attente ai segnali, non sottovalutateli e non giustificateli. Certo, le persone possono cambiare ma non fatevi illusioni, chi è nato storto non diventa dritto. Non fate l’errore di pensare: “Io lo cambierò, io lo salverò”; questa idea da infermiera del bene non porta da nessuna parte. E sopportare in nome dei figli è un tragico sbaglio: non sono stata una buona madre a restare. Cosa impara un figlio di fronte alla violenza quotidiana? E si smetta di usare quelle frasi terribili che provano a giustificare l’ossessione possessiva di certi uomini dicendo che è “troppo amore”. Non è amore, è solo egoismo, per la violenza non esistono giustificazioni».

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