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13.1.25

L’ultimo bambino di Auschwitz: Filippo Boni incontra Mandić, che il 2 marzo 1945 chiuse i cancelli del lager

 




Roma, 13 gennaio 2025

  da   https://www.msn.com/it-it/channel/source/Quotidiano.Net

L’autostrada sfila all’ora del tramonto e nell’aria c’è puzza di bruciato. Qualcuno ha incendiato sterpaglie al confine tra l’Italia e la Slovenia, dove finisce Trieste e un tempo iniziava il mondo non allineato del maresciallo Tito, prima della caduta del muro di Berlino e della fine del comunismo. (...) Il cielo è pallido, in una pausa di questo lungo viaggio verso Opatija, in Croazia, dove vive Oleg Mandić, il bambino sopravvissuto ad Auschwitz che il 2 marzo 1945, insieme all’Armata Rossa, chiuse i cancelli del lager. Ci sta aspettando. Mia figlia dorme profondamente sul sedile posteriore, mia moglie è vicino a lei. Osservo il suo profilo delicato, ascolto il suo respiro; in questo parcheggio dell’Italia orientale, in un crepuscolo di fine estate, ha il potere di trasformare tutto in una nevicata indefinita e senza tempo, che ogni cosa seppellisce di tenerezza. Già. In fondo è questo il potere dei bambini. Seppellire tutto di tenerezza, salvare da ogni male l’uomo adulto e qualsiasi sua pulsione verso l’abisso. I bambini sono la nostra salvezza. Poco fa, quando ho chiesto a un tizio di questo autogrill se sapesse quanti chilometri mancassero ad Abbazia, lui mi ha risposto preciso, in un italiano macchiato di slavo, e poi un po’ incuriosito mi ha chiesto cosa cercassi laggiù. Gli ho spiegato che presto avrei dato voce all’ultimo bambino sopravvissuto ad Auschwitz, che vive là. Lui si è accigliato e perplesso mi ha risposto: “L’ultimo bambino di Auschwitz? Ancora? Dopo ottant’ anni, si parla ancora dei bambini di Auschwitz?”. Ho finto di non sentire. Ho abbassato gli occhi, mi è venuto un conato di vomito e mi sono allontanato, ferito, più che indignato. Non è l’unico a cui ho sentito fare riflessioni di questo tipo nel tempo, dimostrazione che lo spettro del male assoluto è tutt’altro che sconfitto.Sul sedile della mia auto, vicino a mia figlia che dorme, un quotidiano accartocciato dal vento scrive che anche ieri, a Gaza, sono morti dieci bambini e altrettanti sono sotto le macerie, e molto probabilmente non usciranno vivi. Nell’attacco terroristico di Hamas contro Israele lo scorso 7 ottobre 2023 vennero uccisi, insieme a 1400 persone innocenti, decine e decine di bambini inermi. Tra l’ottobre 2023 e il 31 agosto 2024 tra i circa 34.000 nomi di vittime presenti nell’elenco del ministero della Salute di Gaza, 11.300 sono bambini, il 30% dei quali aveva meno di cinque anni. Di questi, circa 710 avevano meno di dodici mesi, il 20% di loro sono nati e morti durante la guerra. Altri 2800 piccoli uccisi ancora non sono stati riconosciuti. Ma non è solo a Gaza, oggi, nell’autunno del 2024, che i bambini vengono massacrati. In Ucraina, su oltre un milione di vittime, 575 sono bambini. Poi c’è la Siria, lo Yemen, l’Afghanistan, la Repubblica Democratica del Congo, Haiti, l’Ecuador, la Nigeria, il Mozambico, il Burkina Faso, il Benin, il Sudan, il Mali, il Pakistan, l’Honduras, Puerto Rico e altri ancora. Un bambino su cinque, nel 2024, sulla terra, vive in aree interessate da un conflitto. Molti sono nati sotto le bombe e non sanno cosa significhi vivere in pace. I bambini non iniziano mai nessuna guerra e non hanno mai il potere di decretarne la fine. I bambini le subiscono e basta, le guerre.Eppure, di fronte a tutto questo, molti oggi si chiedono se ha ancora senso parlare di Auschwitz, del male assoluto, degli adulti e dei bambini finiti nel vento attraverso i camini. Durante la Seconda guerra mondiale, i nazisti massacrarono un milione e mezzo di bambini circa. Molti di loro bruciati nei campi di sterminio, nel punto più profondo dell’orrore assoluto. I più ottimisti si illusero che dopo Auschwitz il mondo sarebbe cambiato. È stato così solo in piccolissima parte, purtroppo. È forse scomparso l’abominio dei campi di sterminio, ma l’esecro dell’uomo sull’uomo, le atrocità, le violenze, le discriminazioni e i genocidi non sono mai finiti. Per questo motivo ho trascorso mesi e mesi nel doloroso e complesso tentativo di calarmi nell’animo e nel cuore di Oleg Mandić e di interpretarne la vita, il sentire, la voce; scrivere di un bambino e di una madre del passato, soprattutto di quel passato, per i bambini e le madri del futuro. È così che ha preso vita questo libro. Per un atto d’amore e d’umanità. E perché credo sia più difficile rinunciare all’amore che alla vita.
Ho scritto questo libro per tutti i derelitti della terra. L’ho scritto per i dimenticati, per i soli, per i perseguitati, per quelli che hanno perso l’ultimo treno. L’ho scritto per chi non ha più voce e per chi voce non l’ha mai avuta, oppure gli è stata tolta. Ho scritto questo libro per tutte le vittime di tutti i genocidi e di tutte le guerre della storia. Tutte. Nessuna esclusa. Quelle di ieri e quelle di oggi. Soprattutto per i bambini. (...) Ho scritto questo libro per Oleg Mandić, l’ultimo bambino uscito vivo da Auschwitz, per i suoi occhi azzurri, per la sua esistenza straordinaria, per come ama sua moglie; per il modo in cui riesce ancora a guardare il mare dalla terrazza del suo studio, a novantun anni compiuti, nonostante tutto. Ho scritto questo libro perché il bambino che lui fu siamo tutti noi. Ho scritto questo libro per parlarti della grandezza di tutte le madri della terra, nel cui grembo si rigenera la speranza. Già. È soprattutto di speranza che dovrebbe esser fatto, il futuro. Ho scritto questo libro perché è il più grande inno all’amore e alla pace che potessi mai scrivere per mia figlia. (...) Dorme sul sedile posteriore, accanto a un giornale accartocciato che parla di guerre, in questo viaggio che profuma di salvezza. E respira. Respira. Respira.

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