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2.10.25

coraggio della madre del femminiciia : «Deve pagare, merita l’inferno: piango per la famiglia di Cinzia Pinna prima che per lui»

in sottofondo   
  Deux Arabeques L66 n 1   andamento  con moto  - Claude  Debussy

La mamma dell'assassino ieri ha dato una lezione di dignità.Una madre  , quella del femminicida di Cinzia Pinna,coraggiosa o ( cosa a cui non credo avendo visto i video dell'unione sarda vedi sotto ) come diranno le male lingue  , opportunista interviene solo per tutelare la'attività   del figlio   .

Coraggiosa   comunque    , dicevo ,  perchè  di solito   certe madri sminuisono la  gravità   dei  fatti che  vedono  coinvolti i  loro  figli  o  com'e  succeso recente gli aiutan  ad occultare  prove    dei loro  crimini  .Chissà cosa ha subito in questi anni passati per essere arrivata al punto di sfogarsi in pubblico. Speriamo le stiano vicino❤️ Mi ha molto emozionato😢una grande donna coraggiosa e provata dal suo grande dolore ❤️Infatti   concordo  con L'Eco di Barbagia (@l_eco_di_barbagia) di  
@giorgio.ignazio.onano

































Ho ascoltato le parole di Nicolina Giagheddu, la madre di Emanuele Ragnedda, reo confesso dell’omicidio di Cinzia Pinna.

La signora Nicolina, ha dato a tutti una grande lezione di vita, presentandosi durante il soppraluogo dei Carabinieri nella villa di #Palau dove è avvenuto l’omicidio.
Alle telecamere, le parole lapidarie: “Mio figlio? Non andrò mai a trovarlo in carcere. Si merita l’inferno! Non si possono perdonare certe cose”.
E nel confermare una vita del figlio “al di sopra delle righe” la donna si è detta pentita di aver affidato a Ragnedda la tenuta di Conca Entosa, credendo nel suo progetto imprenditoriale.
Ma signora Nicolina, la vera lezione di vita l’ha data con le parole: “In questo momento devo essere forte per tutte le donne. Ho sempre dato libero arbitrio a mio figlio, ma ciò non significa che sia autorizzato a uccidere”.
E nel rivolgere un pensiero alla famiglia di Cinzia Pinna ha poi rilanciato: “Non ho parole. Piango prima per loro e poi per ciò che ha fatto mio figlio”.
Alla signora Giagheddu giunga il nostro abbraccio. Le siamo vicini, perché è colpita doppiamente da questa tragedia che tocca il cuore di tutti i sardi.

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 da  l'unione  sarda  

La madre di Ragnedda: «Deve pagare, merita l’inferno: piango per la famiglia di Cinzia Pinna prima che per lui»Le durissime parole di Nicolina Giagheddu durante il sopralluogo degli inquirenti nella tenuta di Conca Entosa
«Deve pagare. Sono io la prima a fargliela pagare». Per la famiglia di Cinzia Pinna «non ho parole. Sto piangendo prima per loro e dopo per mio figlio». E ancora: «Non si perdonano certe cose, non si possono perdonare».
Sono dichiarazioni durissime quelle di Nicolina Giagheddu, madre di Emanuele Ragnedda, il quarantunenne che ha confessato l’omicidio della trentatreenne di Castelsardo.La donna, con la voce rotta quando parla della vittima e sicura quando si riferisce al figlio, ha parlato davanti alla tenuta di Conca Entosa, dove la notte tra l’11 e il 12 settembre l’imprenditore ha esploso alcuni colpi di pistola contro Cinzia Pinna, per poi nascondere il corpo vicino a un albero, nel terreno recintato. «Una volta un bambino autistico che è venuto qui mi ha chiesto se questo fosse il paradiso. Io gli ho risposto: “Tu credi sia il paradiso?”. Lui mi ha risposto “sì”. Beh, mio figlio lo ha trasformato in un inferno. Allora si merita l’inferno», ha detto ancora la donna. «Conca Entosa è un pezzo del mio cuore». Quella terra che le era stata lasciata dal padre e che lei aveva trasferito al figlio, per permettergli di avviare la sua impresa vitivinicola: «Ho creduto nel suo progetto e gliel’ho affidata, in questo ho sbagliato. Non mi sento in colpa. Io a mio figlio ho sempre detto “libero arbitrio”, ma non significa che puoi togliere una vita, uccidere una ragazza, un’anima».   


l'unione   on li fas  incorporare    quind  ecco vi   i link  su   cui cliccare 




  





Cronaca Sardegna

La madre di Ragnedda: "Mio figlio merita l'inferno"

Video di Andrea Busia

Cronaca Sardegna

La madre di Ragnedda condanna il figlio: "Deve pagare"

Video di Andrea Busia 

non so che altro aggiungere quindi concludo qui il post d'oggi con piena solidarietà alla madre coraggiossima . E a quelli che dicono o scrivono   che  resta il fatto che comunque lei ha ancora un figlio vivo al contrario dei poveri genitori di Cinzia. Che  si  è vero. ma chiedo loro   : <<
cos'altro ti serve da queste vite ora che il cielo al centro le ha colpiteora che il cielo ai bordi le ha scolpite. >> praticamente cosa si vuole di più da una madre che già porta su di se un grosso fardello come questo .

dilemmi vivere isolati in una torre d'avorio o turris eburnea , affrontare a brutto muso la realtà , o accontentare del solito in media stat virtus ?

 


1.10.25

Elisabetta Polcino e Cinzia pinna e le narrazioni mediatiche tossiche

Non facciamo neppure in temo a piangere la morte dell'aomicidio di Cinzia Pinna ( poi si scopre che dalle indagini in corso che non è un semplice omicidio \ assasinio ma un Femminicidio vero è proprio ) che ci ritroviamo di fronte all’ennesima tragedia di un'altro femmincidio con l'aggravante che a essere uccisi oltre la partner sono ache i figli - su cui forse nessuno poteva fare nulla - e al dramma di come viene riportato, raccontato, e su questo - almeno su questo - tutti noi possiamo

fare moltissimo non comprando o on visitando tali siti giornalistic o mon guarano crte trasmissioni e tg .Un pensiero commosso a Elisabetta e alla sua famiglia, ma l’attenzione in queste ore va soprattutto ai figli, vittime collaterali di una tragedia che è a tutti gli effetti e nient’altro che un femmincidio.Sempre lo stesso, e sempre per le stesse ragioni di possesso e sopraffazione.

rai fra disinformazione e censure il lupo perde il pelo ma non il vizio il caso Vespa e la global flottiglia e Avs: “Lega protesta e film su Open Arms sparisce dalla prima serata. Rai piegata alla maggioranza”

 Leggendo sulla    bacheca  di   lorenzo tosa 

Quello che ha fatto e detto ieri sera Bruno Vespa a “Porta a Porta” nei confronti di Tony La Piccirella e l’intera Global Sumud Flotilla è indegno di essere trasmesso sulla prima rete del Servizio Pubblico.Un misto di arroganza, aggressività, violenza verbale, classismo, disinformazione pura intollerabile persino per gli standard vespiani.A un certo punto Vespa ha incalzato l’attivista usando la proposta del cardinale Pizzaballa sugli aiuti non come una domanda ma come polpetta avvelenata per
metterlo in difficoltà.
“Voi vi fidate o no di Pizzaballa?”La Piccirella con invidiabile calma ha risposto che “quella proposta è non conforme alla natura della missione", scatenando le ire di Vespa."Quelli prendevano gli aiuti e li portavano ai ‘poveracci' di Gaza."Li ha chiamati così: i “poveracci” di Gaza. Perché per Vespa questo sono i palestinesi. Ma mica è finita qui perché, non pago, di fronte all’ennesima spiegazione puntuale di La Piccirella, Vespa ha urlato con la bava alla bocca. “E allora vi posso dire che non ve ne fot** niente delle persone che sono lì?“Dopodiché ha buttato giù la linea, impedendo ogni risposta, ogni replica, ogni dialogo o contraddittorio.Perché questo fa chi non ha argomenti: offende e censura.È riuscito a insultare e accusare delle persone che da trenta giorni sono in mare a rischiare la vita di fronte all’esercito israeliano per portare aiuti a una popolazione massacrata e affamata.Credo di non aver mai visto una pagina così vergognosa su una rete Rai. E ne ho viste a centinaia.Solidarietà totale a Tony La Piccirella e a tutto l’equipaggio della Flotilla.E denuncerò immediatamente Bruno Vespa al Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti. Perché esiste un limite di decenza non valicabile. Anche per Vespa.

  e  su   repubblica  trammite msn.it 




Rai, Avs denuncia: “La Lega protesta e il film su Open Arms sparisce dalla prima serata”_open arms film© fornito da La Repubblica

Il film su Open Arms, la Ong spagnola impegnata nel Mediterraneo nel salvataggio dei migranti, sparisce dalla prima serata di RaiTre e viene spostato più tardi “dopo le proteste della Lega”, denuncia Avs.
Il film era stato scelto da RaiTre in occasione della Giornata internazionale per le vittime dell'immigrazione ma “essendo la Open Arms l'organizzazione che ha portato a processo il leader leghista Matteo Salvini, dal suo partito si sono fatti sentire con un fuoco di fila di dichiarazioni per chiedere lo spostamento, se non addirittura la non messa in onda. Fuoco di fila che ha centrato l'obiettivo, perché in serata la dirigenza Rai ha fatto marcia indietro spostando tutto a tarda notte e annunciando la messa in onda di 'Io Capitano' di Garrone", riferisce il capogruppo dell'Alleanza verdi e sinistra Peppe De Cristofaro, presidente del gruppo misto di palazzo Madama e componente della commissione di Vigilanza Rai.
Per De Cristofaro questo non sarebbe un caso isolato perché “anche No Other Land, documentario premio Oscar, non avrà la prima serata del 7 ottobre, come invece annunciato, ma viene spostato al 21 dopo le pressioni di FdI. Ci troviamo di fronte a clamorosi cambi di programmazione perché Fratelli d'Italia prima e la Lega poi hanno protestato. Una intromissione sulle scelte editoriali gravissima. Il servizio pubblico è ormai piegato alle volontà dei partiti di maggioranza e per questo è necessaria una nuova governance della Rai – conclude ’esponente di Avs – Una nuova Rai senza i partiti, attenta al pubblico e con una mission di servizio pubblico. I vertici Rai dimostrano di essere eterodiretti dai partiti di maggioranza, poi si arrabbiano quando definiamo la Rai TeleMeloni".  

mi  chiedo   che ...  cavolo ci  stanno a fare   in commissione  , tanto    che  cisiano  o non ci siano  non cambia niente  , a  scaldare la sedia e   a  portarsi a casa  la pagnotta . Da  quando è stata  fondata la rai   è sempre  peggio , ovvero il lupo perde il pelo ma  non il  vizio  cioè   è sempre  schiava   del potere politico .  Infatti come Lorenzo Tosa  «  Credo di non aver mai visto una pagina così vergognosa su una rete Rai. E ne ho viste a centinaia » nonostante sia anagraficamente ttopo piccolo rispettoso alla sua attività

Cristina Irrera, 26 anni, riceve sui social 50 mila insulti e minacce di stupro: «Messaggi generati dall'AI, pubblicato pure il mio indirizzo di casa»

ecco perchè , o almeno uno dei tanti , portali \ comunty come phicanet o mia moglie rimangono in piedi per 20 anni . perchè le donne hanno paura a denunciare  sia che siano vittime che non e  che gli succeda     quello   che   è successo a  lei  .

fonte Corriere della sera di Elisabetta Andreis
«
Ti veniamo a prendere». «Se ti becco ti stupro». «Goditi il cane, non lo vedrai più». Non sono minacce sussurrate in un vicolo, ma cinquantamila frasi comparse sotto i post sui social di Cristina Irrera. Una ragazza di 26 anni, siciliana - arrivata a Milano da Messina per fare l'università alla Statale - che da anni racconta online di diritti, lavoro, violenza di genere. Dal 9 febbraio la sua bacheca è diventata un campo di tiro: prima insulti isolati, poi un’ondata continua che non lascia spazio a equivoci.
Milano
 la ragazza è stata presa di mira da un'improvvisa campagna d'odio. I testi, spesso riprodotti in automatico, arrivano da server registrati all'estero. La tempesta si è scatenata dopo che ha denunciato un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Le indagini della Polizia postale","description":"Milano, la ragazza è stata presa di mira da un'improvvisa campagna d'odio. I testi, spesso riprodotti in automatico, arrivano da server registrati all'estero. La tempesta si è scatenata dopo che ha denunciato un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Le indagini della Polizia postale","«Ti veniamo a prendere». «Se ti becco ti stupro». «Goditi il cane, non lo vedrai più». Non sono minacce sussurrate in un vicolo, ma cinquantamila frasi comparse sotto i post sui social di Cristina Irrera. Una ragazza di 26 anni, siciliana - arrivata a Milano da Messina per fare l'università alla Statale - che da anni racconta online di diritti, lavoro, violenza di genere. Dal 9 febbraio la sua bacheca è diventata un campo di tiro: prima insulti isolati, poi un’ondata continua che non lascia spazio a equivoci. L’odio digitale ha cambiato forma in pochi giorni. Dalle offese si è passati a quello che nel gergo dell'odio online si chiama «doxxing»: «Hanno diffuso il nostro indirizzo di casa, perfino la posizione del citofono ripetuta ossessivamente dopo un video girato dal balcone». Non più soltanto parole, ma coordinate pratiche. Minacce che hanno iniziato a toccare anche amici, familiari, colleghi. «C’è un punto in cui gli insulti smettono di sembrare parole e diventano un rumore di fondo», dice Cristina. «Non mi sorprendono più. Ma non significa che abbiano vinto: significa che ormai so che il mio spazio pubblico non sarà mai neutro».&nbsp; La ragazza non è nuova all’attenzione mediatica: nel 2022 era già finita sui giornali per essere intervenuta in metropolitana durante una rapina e aver denunciato le borseggiatrici. Stavolta, a scatenare la tempesta, sembra essere stato un video in cui racconta la chiusura di un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Da lì le ondate sono diventate cicliche. I consulenti che la affiancano stimano decine di migliaia di commenti: insulti, minacce di violenza sessuale, richiami a «punizioni collettive».&nbsp; Le conseguenze non sono virtuali. Collaborazioni professionali interrotte dopo telefonate ai datori di lavoro. Anche il nome del bar dove serviva ai tavoli part time è stato reso pubblico. Persone vicine bersagliate da messaggi. Lei stessa costretta a cambiare password sette volte in pochi giorni. «Limito profili e contenuti, ma i messaggi continuano a circolare», racconta. Per difendersi ha raccolto e consegnato alla Polizia Postale un dossier imponente di prove: centinaia di screenshot, prime analisi forensi. La querela ipotizza cinquantamila minacce e atti persecutori, diffusione illecita di dati personali e, a seconda degli sviluppi, anche il reato di estorsione. Ma il nodo resta sempre lo stesso: ricondurre l’esecuzione materiale — gli account che postano — al mandante effettivo. Dietro quei profili spesso ci sono account rubati, infrastrutture frammentate, pacchetti di commenti acquistabili online.&nbsp; Le prime analisi tecniche mostrano tre schemi ricorrenti: utenti reali compromessi dopo aver comprato follower da servizi poco affidabili; pacchetti a pagamento che «spediscono» commenti su commissione; testi ripetitivi al punto da far pensare a un’automazione, forse tramite strumenti di intelligenza artificiale. Molti account risultano registrati all’estero: un dettaglio che rende più complessa la tracciabilità e aumenta le possibilità che il mandante resti nascosto dietro una catena internazionale di server e intermediari. Per andare oltre servono dati grezzi — log, IP, metadati — che solo le piattaforme possono fornire in tempi rapidi. Le richieste a X, Instagram e TikTok fanno già parte del fascicolo, ma la velocità con cui arriveranno le risposte pesa quanto la capacità tecnica degli investigatori.&nbsp; La vicenda mostra il lato più scuro di un mercato parallelo che monetizza attenzione e rancore: pacchetti di visibilità venduti come un servizio, campagne d’odio costruite come un prodotto. Chi denuncia pratiche predatorie o mette in luce contenuti illeciti rischia di diventare — oltre che bersaglio — involontario amplificatore del problema. «Io continuo a pubblicare, anche quando penso che non convenga», dice Cristina. «Voglio che sia visibile, che si capisca come funziona il meccanismo». Non è un gesto eroico, ma quotidiano: ribaltare l’assedio in racconto, l’insulto in testimonianza. Con una consapevolezza: la risposta individuale non basta. «La mia scelta non sostituisce la necessità di risposte istituzionali e tecniche più veloci ed efficaci», avverte. E qui resta la domanda aperta — per le autorità, per la politica, per le stesse piattaforme: chi paga queste campagne, e come si spezza la catena che porta l’odio dallo schermo alla porta di casa? «Ti veniamo a prendere». «Se ti becco ti stupro». «Goditi il cane, non lo vedrai più». Non sono minacce sussurrate in un vicolo, ma cinquantamila frasi comparse sotto i post sui social di Cristina Irrera. Una ragazza di 26 anni, siciliana - arrivata a Milano da Messina per fare l'università alla Statale - che da anni racconta online di diritti, lavoro, violenza di genere. Dal 9 febbraio la sua bacheca è diventata un campo di tiro: prima insulti isolati, poi un’ondata continua che non lascia spazio a equivoci. L’odio digitale ha cambiato forma in pochi giorni. Dalle offese si è passati a quello che nel gergo dell'odio online si chiama «doxxing»: «Hanno diffuso il nostro indirizzo di casa, perfino la posizione del citofono ripetuta ossessivamente dopo un video girato dal balcone». Non più soltanto parole, ma coordinate pratiche. Minacce che hanno iniziato a toccare anche amici, familiari, colleghi. «C’è un punto in cui gli insulti smettono di sembrare parole e diventano un rumore di fondo», dice Cristina. «Non mi sorprendono più. Ma non significa che abbiano vinto: significa che ormai so che il mio spazio pubblico non sarà mai neutro».&nbsp; La ragazza non è nuova all’attenzione mediatica: nel 2022 era già finita sui giornali per essere intervenuta in metropolitana durante una rapina e aver denunciato le borseggiatrici. Stavolta, a scatenare la tempesta, sembra essere stato un video in cui racconta la chiusura di un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Da lì le ondate sono diventate cicliche. I consulenti che la affiancano stimano decine di migliaia di commenti: insulti, minacce di violenza sessuale, richiami a «punizioni collettive».&nbsp; Le conseguenze non sono virtuali. Collaborazioni professionali interrotte dopo telefonate ai datori di lavoro. Anche il nome del bar dove serviva ai tavoli part time è stato reso pubblico. Persone vicine bersagliate da messaggi. Lei stessa costretta a cambiare password sette volte in pochi giorni. «Limito profili e contenuti, ma i messaggi continuano a circolare», racconta. Per difendersi ha raccolto e consegnato alla Polizia Postale un dossier imponente di prove: centinaia di screenshot, prime analisi forensi. La querela ipotizza cinquantamila minacce e atti persecutori, diffusione illecita di dati personali e, a seconda degli sviluppi, anche il reato di estorsione. Ma il nodo resta sempre lo stesso: ricondurre l’esecuzione materiale — gli account che postano — al mandante effettivo. Dietro quei profili spesso ci sono account rubati, infrastrutture frammentate, pacchetti di commenti acquistabili online.&nbsp; Le prime analisi tecniche mostrano tre schemi ricorrenti: utenti reali compromessi dopo aver comprato follower da servizi poco affidabili; pacchetti a pagamento che «spediscono» commenti su commissione; testi ripetitivi al punto da far pensare a un’automazione, forse tramite strumenti di intelligenza artificiale. Molti account risultano registrati all’estero: un dettaglio che rende più complessa la tracciabilità e aumenta le possibilità che il mandante resti nascosto dietro una catena internazionale di server e intermediari. Per andare oltre servono dati grezzi — log, IP, metadati — che solo le piattaforme possono fornire in tempi rapidi. Le richieste a X, Instagram e TikTok fanno già parte del fascicolo, ma la velocità con cui arriveranno le risposte pesa quanto la capacità tecnica degli investigatori.&nbsp; La vicenda mostra il lato più scuro di un mercato parallelo che monetizza attenzione e rancore: pacchetti di visibilità venduti come un servizio, campagne d’odio costruite come un prodotto. Chi denuncia pratiche predatorie o mette in luce contenuti illeciti rischia di diventare — oltre che bersaglio — involontario amplificatore del problema. «Io continuo a pubblicare, anche quando penso che non convenga», dice Cristina. «Voglio che sia visibile, che si capisca come funziona il meccanismo». Non è un gesto eroico, ma quotidiano: ribaltare l’assedio in racconto, l’insulto in testimonianza. Con una consapevolezza: la risposta individuale non basta. «La mia scelta non sostituisce la necessità di risposte istituzionali e tecniche più veloci ed efficaci», avverte. E qui resta la domanda aperta — per le autorità, per la politica, per le stesse piattaforme: chi paga queste campagne, e come si spezza la catena che porta l’odio dallo schermo alla porta di casa?",

Procuratrice Ancona, 'non tutti i casi di violenza sono uguali'

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