31.10.16

la violenza e l'omicidio contro le donne è un semplice omicidio o un femminicidio ? secondo me il secondo . e second vo ?i

Inizialmente   ho condiviso 

per provocare e perchè credevo che il termine femminicidio fosse uno di quei neologismi linguisticament e ipocriti e politicament e corretti , questo post   di http://www.bastabugie.it becera pagina  clerico fascista  ( le mie solite condivisione senza leggere cio che cavolo cazzo condivido e prendendo poer buono il titolo , senza rendermi conto  come  mi è stato  fatto  notare  dall'amica  ed utente   : 


Daniela Tuscano Bel modo di provocare, postando un link fascista che peraltro afferma l'esatto contrario di quanto dici tu. Infatti, secondo loro, le stragi di donne sono episodi occasionali e rari, mentre vuoi mettere coi poveri maschietti ammazzati dalle perfide femmine? Ogni giorno ce n'è uno, no? Poi tu sei libero di considerarlo "neologismo astruso" (perché?), ma esiste, e non ci sarà barba di post sessista che mi farà cambiare idea. Si chiama femminicidio e tale resta.

Poi leggendo sia   sempre  sulla  mia  bacheca  ( qui l'intera  discussione )   di fb   questo commento di una  mia   amica  e  compaesana    avvocatessa

Marianna Bulciolu Il femminicidio , come l'infanticidio, è un omicidio più grave perché commesso il primo per motivi futili , come gelosia , possesso ecc. , il secondo perché commesso contro un bambino. Quindi nel femminicidio non rientrano tutti gli omicidi contro le donne , ma quelli che gli uomini commettono per certi motivi, e questo rappresenta, a mio avviso giustamente, un 'aggravante.

e da questo articolo  di  http://www.mentecritica.net/ sempre  della stessa    amica  daniela   che    riporto integralmente  

Femminicidio: Il Peccato Originale 


Dunque, i numeri. Dal solo mese di maggio ad oggi, fanno venti.
Intendo i casi. Le persone sono molte di più, perché alcune vicende sono avvenute nello stesso giorno coinvolgendo più persone.
Cito, in ordine sparso:
  • Roma, assassinio di Alessandra Iacullo, 25 anni, confessa il fidanzato cinquantenne: “Ero geloso”.
  • In varie regioni d’Italia, Ilaria, Chiara e Alessandra vengono uccise lo stesso giorno dai rispettivi partner. Erano intenzionate a lasciarli.
  • Napoli, donna accoltellata in aperta campagna, accusato l’ex marito, geloso.
  • Biloca, ragazza diciassettenne subisce un tentativo di stupro mentre si reca a scuola.
  • Bergamo, estetista aggredita dall’ex marito che aveva denunciato.
  • Calabria, trovata donna uccisa. Subiva violenze da parte del marito da una trentina d’anni.
  • Caserta, aspirante Miss Italia ridotta in fin di vita dal fidanzato che le spappola la milza. Lei si riprende: “Lo perdono, perché lo amo”.
  • Perugia, due stupri nella stessa notte.
  • Pesaro, l’ex partner d’una avvocata (molti giornali scrivono “avvocatessa”) le getta acido in faccia per lavare l’onta d’essere stato abbandonato.
  • Vicenza, dopo aver denunciato l’ex partner per maltrattamenti una donna viene sfregiata con l’acido da maschi incappucciati.
  • Acilia, dopo l’abbandono insegue la moglie con l’auto, fino a stritolarla. Poi inscena il suicidio (che, naturalmente, non va in porto).
  • Padova, poliziotto uccide la moglie e si suicida (questa volta, stranamente, ci riesce). I giornali titolano: “Motivi sentimentali”.
  • Frosinone, un operaio costringe la moglie a girare film porno davanti ai figli e la violenta ripetutamente. In più la minaccia con la frase: “Zitta o farai la fine di Melania Rea”.
  • Napoli, spranga l’ex moglie poi devasta il negozio del nuovo compagno di lei: “Non potevo sopportare di essere abbandonato”.
  • Napoli, picchia la moglie col matterello per ucciderla. Viene fermato in tempo.
  • Firenze, massacra la moglie incinta: “Non hai pulito bene la casa”.
  • Milano, si avventa sull’ex compagna e l’abbatte a coltellate. E continuerebbe a infierire sul corpo se non fosse fermato da un ragazzo diciassettenne che ha tentato vanamente di salvare la donna. Lui continua a farneticare: “Mi ha lasciato, non posso sopportarlo”.
  • Novara, otto minorenni (maschi) indagati per istigazione al suicidio della quattordicenne Carolina, ingiuriata e diffamata all’inverosimile.
  • Roma, una ragazza viene indotta a ubriacarsi quindi stuprata.
In ordine cronologico, questo è l’ultimo caso, posto li abbia ricordati tutti. Il più efferato, però, sintesi perfetta e atroce di tutti gli altri, è avvenuto però, come si sa, poche ore fa in Calabria:
  • Fabiana, 15 anni, accoltellata e bruciata, ancor viva, dal “fidanzatino” (così si legge su quasi tutti i media) maggiore di lei di un anno. Osceno l’articolo dell'”Unità” (!), che parla di “dramma della gelosia e dell’adolescenza”.
A ciò si aggiungano due dati:
  • A Modena, scarcerato dopo appena un anno Ivan Forte, che strangolò la fidanzata Tiziana da cui aveva avuto un figlio.
  • A Milano, la metà delle denunce per violenza sulle donne vengono archiviate.
Numeri. Semplici numeri. In svariate occasioni, anche da questa sede, ho analizzato le radici culturali, sociali e storiche del femminicidio. Non mancherò di ricordarle questa volta ancora, l’ennesima. Ma ogni capitolo s’arricchisce di dolenti, agghiaccianti novità.
Ne menziono solo uno, a paradigma della controffensiva maschile di fronte al fenomeno: la dotta dissertazione di tale prof. Tonello sul “Fatto Quotidiano” di alcuni giorni fa (“Femminicidio, i numeri sono tutti sbagliati” ).
Un testo pericoloso, sia per i contenuti, sia per il lessico all’apparenza neutro, distaccato, insomma “razionale”.
L’illustre cattedratico esordisce contestando i numeri di violenza antifemminile evocati dai media e sottolineando l'”enfasi” posta sulle venticinque donne uccise da inizio anno (il suo scritto risale all’11 maggio scorso). Annota anche, tra l’indignazione e lo scherno, che “si mescolano disinvoltamente aggressioni e omicidi, stupri e molestie, molestie psicologiche e aggressioni con l’acido”, mentre per lui solo gli omicidi (il termine “femminicidio” è ovviamente rifiutato, vedremo poi perché) possono semmai suscitare un campanello d’allarme poiché, in tutti gli altri casi, la donna non è stata uccisa. Stupri e sfregi con l’acido – soluzione “all’indiana”, barbara quant’altre mai, per negare la specificità della donna, quindi la sua esistenza, una sorta di burqa di fuoco: ma l’autore non vi fa caso – non sono da considerare delitti, la donna fisicamente non muore.
 
Egli passa quindi in rassegna i dati, a suo dire sicuri, dell’Istat e scopre cosa? Che la violenza sfociata in assassinio ai danni delle donne non solo non è aumentata, ma sarebbe addirittura in calo.
Certo, egli concede, “pure un solo cadavere è di troppo” ma in un Paese di 60 milioni di abitanti ci saranno sempre “i mafiosi, i violenti, i folli”. Di femminicidio poi nemmeno parlarne, il neologismo è orribile (esiste già il correlativo “omicidio”, perché coniarne un altro?) e, del resto, non significa nulla: assurdo paragonare l’inesistente la mattanza di donne p. es. alla Shoah perché – cito testualmente – “gli ebrei Samuel, Israel, Ruth o Esther venivano mandati dai nazisti nelle camere a gas per il solo fatto di essere di religione ebraica, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione. Le donne uccise da ex partner non vengono uccise ‘in quanto esseri umani di sesso femminile’ bensì esattamente per la ragione opposta: per essere quella donna che ha rifiutato quell’uomo”.
Si tratta del ragionamento d’un cattedratico, d’un professore universitario, che dovrebbe conoscere la storia.
Pur ritenendo impensabile, nel 2013, dover confutare simile concentrato d’ignoranza, stupidità e cattiveria, pure il frangente mi ci costringe, non foss’altro perché la maggioranza dell’opinione pubblica, e quasi la totalità dei maschi, vi aderisce volentieri, non pochi addirittura plaudendo (uno di loro, tra i commenti, ha persino invitato i suoi congeneri alla rivolta contro la disinformazione operata dal “nazifemminismo”). Mi appresto dunque a bere l’amaro calice.
1) Tonello rispolvera l’antico ma sempre efficace alibi del delinquente “folle, violento o mafioso”. Un modo – peraltro, tipicamente maschile – di gettare la colpa fuori di sé. Sull’altro, sul diverso. Non ha potuto, come certo avrebbe desiderato, imputare la responsabilità agli stranieri, magari islamici, perché gli autori di questi delitti sono tutti italiani, appartengono alle categorie sociali più disparate e la loro età varia dalla maturità, talora dalla vecchiaia, fino, negli ultimi casi, addirittura alla puerizia. I motivi ispiratori dei loro delitti sono però identici: gelosia, abbandono.
Resta da vedere se siano “folli, violenti o mafiosi”. Chiaramente no. Si tratta di persone del tutto normali, persino – come invocano le sempre protettive famiglie dei minorenni implicati – di “bravi ragazzi”, educati, rispettosi. Non i diversi da temere, entità astratte e mostruose emergenti dal fondo scuro della marginalità sociale, ma i nostri vicini di casa, gli stimati professionisti cui affideremmo una pratica, i valenti operai specializzati e i padri di famiglia amorevolmente premurosi coi figli. No, esimio luminare Tonello, il mostro non è il diverso, il mostro cova in ognuno di noi. Nel Suo linguaggio asciutto e nel piglio professorale col quale nega l’evidenza per non mettere in discussione il modello culturale e (dis)educativo imperante dall’alba dell’umanità.
2)  Ignoro cosa insegni Tonello. Spero, per lui ma soprattutto per i suoi studenti, non storia o materie affini. Sa infatti, o dovrebbe sapere, anche un alunno di dodici anni, nemmeno particolarmente edotto, che gli ebrei furono sterminati non “per il solo fatto di essere di religione ebraica”, ma per il solo fatto di esistere. Fossero o no convertiti al cristianesimo, per il pagano Hitler non aveva la minima importanza: ne è la più illustre, ma ovviamente non unica prova sant’Edith Stein, filosofa tra le più insigni del suo secolo, autrice d’importanti e pionieristici studi intorno alla donna, e martire ad Auschwitz nel 1942. Affermare che lo sterminio degli ebrei aveva motivazioni religiose significa non aver compreso nemmeno alla lontana, e forse nemmeno studiato, le radici del nazismo, e viene seriamente da chiedersi come l’individuo che osa sproloquiare simili bestialità possa permettersi di scrivere su una testata nazionale e/o d’insegnare negli atenei.
3) Sul cinismo e freddezza con la quale è liquidato, o notevolmente ridimensionato,  l’omicidio – come si ostina a definirlo Tonello – di “quella donna per aver rifiutato quell’uomo” la verecondia imporrebbe di sorvolare, ma non si può. Nella prosa che si vuole asettica e scientifica, in realtà sfilacciata e perniciosa, di Tonello non balena neppur per un attimo la futilità del movente. “Per essere quella donna che ha rifiutato quell’uomo” è infatti un’argomentazione risibile, un’aggravante e non un’attenuante del crimine. Soprattutto quando “quell'”uomo, assassino di “quella” donna, al contrario di ciò che asserisce Tonello, peraltro senza lo straccio di prove o statistiche altrove da lui così insistentemente addotte per confermare le sue tesi, non appartiene per nulla alla categoria dei “folli, violenti o mafiosi”.
4) “Le parole sono importanti!”, esclamerebbe ora il Nanni Moretti di “Palombella rossa”, parafrasando Pasolini. E giungiamo al famoso, o famigerato, termine “femminicidio” che Tonello, Gilda e molti/e altri non vogliono nemmeno sentir menzionare. Non esistono “femminicidi” secondo costoro, bensì “omicidi”. Vengano puniti come tali, e non facciamola tanto lunga.
Ebbene, “omicidio”, la cui etimologia Tonello evidentemente non conosce – zero in italiano oltre che in storia, quindi, per il nostro chiarissimo docente – deriva da “homo” e “cidium”, da “caedes” (=uccisione), e indica la morte d’un uomo per mano d’un altro uomo. Infatti: la morte d’un uomo.

Tonello, Gilda e molti/e altri alzerebbero il sopracciglio, fors’anche si straccerebbero le vesti urlando al mio “nazifemminismo estremista”: ma via, lo sanno tutti, per uomo s’intende essere umano, pertanto anche la donna!
Ecco, è proprio il “pertanto” che guasta: se le parole sono importanti, l’ossimoro, da tutti considerato naturale e persino ovvio, del “neutro maschile” è insensato.
Il neutro maschile non include: anzi, è l’esclusione per antonomasia. Il neutro maschile è la cifra linguistica che giustifica ogni violenza, razzismo, prevaricazione, guerra, schiavitù, omofobia e, naturalmente, misoginia e sessismo. Dalla notte dei tempi. Il neutro maschile presuppone un’umanità modellata su un solo archetipo: il maschio, l’essere umano vero e proprio – esattamente come intendono i suoi difensori, non accorgendosi dell’equivoco -, immagine e incarnazione di Dio (alle donne, immagini solo terrene e, per giunta, malriuscite dell’uomo-maschio, non è infatti concesso il ministero sacerdotale né di rappresentare in nessun modo la divinità). Cui tutto è concesso, cui è stato dato in compito di dominare la Terra – e i suoi abitanti, a partire dalla compagna messagli al fianco.
Il linguaggio, espressione tipicamente e compiutamente umana, è dunque sempre stato in mano al maschio, declinato al maschile secondo sensibilità e mentalità maschili. Dalle quali la donna è di necessità esclusa; di qui l’esigenza di coniare nuovi termini. No, non è omicidio, è femminicidio. No, non si tratta del singolo uomo che uccide la singola donna, ma di tutta una mentalità che avalla, presuppone, prepara queste morti. E, se non tutte giungono a tale epilogo, il seme dell’odio è stato comunque gettato. Chi potrebbe rispettare e considerare di pari dignità un individuo ritenuto persino dai più grandi ingegni umani, non esclusi uomini piissimi e talora in odore di santità, infido, sensuale, lascivo, linguacciuto, di debole cervello e, in tempi più recenti, sottovalutato o cancellato dai libri di scuola, mercificato dal consumismo sessuale e degradato a puro oggetto di piacere? Eppure è questo che quotidianamente e, in varie forme a seconda delle latitudini e delle religioni, viene inculcato fin dalla più tenera età.
Oggi poi il sesso, perduta quell’aura di sacertà che lo contraddistingueva come compimento, diremmo linguaggio fisico, d’una intesa spirituale, è divenuto sfogo bruto e velleitario, da consumare subito e, anche in tal caso, da pretendere, in particolare se la ragazza è la “propria” ragazza, se è carina, se ha corrisposto a un bacio. Un rifiuto da parte sua viene ritenuto un’insopportabile onta, un’inconcepibile ribellione.
Già negli scorsi anni scrivevo che il problema del femminicidio non riguardava tanto le donne quanto gli uomini. La questione è maschile, non femminile. E questo, non è stato compreso del tutto nemmeno dalle stesse donne, se è vero che pure le più attente e sensibili, nel commentare lo strazio di Fabiana, la bambina arsa viva dal coetaneo per essersi rifiutata di cedere alla fregola di lui, si rivolgono alla madre dell’assassino rivolgendole aspri rimproveri: “…Perché, cara madre, se tuo figlio ha ritenuto che picchiare, violentare ed uccidere una donna fosse un suo diritto divino…se tuo figlio si è sentito in dovere di punire con la violenza “l’onta” subita dalla donna che lo aveva lasciato/rifiutato…se l’uomo che tu hai portato in grembo e cresciuto è arrivato a tanto…la colpa è ANCHE TUA! Che madre sei stata e che donna sei stata? Cosa hai insegnato a tuo figlio?”, chiede accorata Anna Rita Leonardi nella sua lettera aperta . Tutto vero, naturalmente: moltissime donne – l’ultimo caso, la miss che ha ritirato la denuncia al suo aguzzino – hanno introiettato la stessa misoginia di cui la società è imbevuta senza insegnare alcun rispetto verso le congeneri ai loro figli maschi.
Ma il padre, dov’era? I genitori non sono due? Perché, in casi simili, l’uomo non viene mai chiamato in causa? Non è stato lui, anche per legge, qui in Italia, fino al 1975, il “capofamiglia”? Non è lui la guida morale e spirituale della casa, l’essere umano per eccellenza, il rappresentante di Dio in terra e via esaltando? O lo è solo quando si tratta di ricevere privilegi e onori?
Scriveva Edith Stein negli anni Trenta del secolo scorso: “In origine fu affidato ad ambedue [all’uomo e alla donna, n.d.A.] il compito di conservare la propria somiglianza con Dio, di custodire la terra e di propagare il genere umano. […] Dopo il peccato, il rapporto reciproco si mutò, da puro legame di amore, in legame di dominio e soggezione, e fu sfigurato dalla concupiscenza”. L’umanità, e il maschio in particolare, non ancora divenuto uomo, sembrano a ogni latitudine, nel terzo millennio, ancora macchiati da questo peccato originale.
 


30.10.16

ASPETTANDO i morti e morti ( preferisco usare un termine dialettale anzi che l'inglesismo ed imposto HALLOWEEN

dalla pagina  di  https://www.facebook.com/lina.labruna
mi  spiace  am non biasimo Michele Serra  sull'amaca d'oggi

Captain Fantastic ci sputa in faccia la verità: siamo noi quelli brutti L'ultima opera del regista Matt Ross, interpretata da un grande Viggo Mortensen, è un film-favola sulla verità e sull'ipocrisia della nostra epoca post tutto e ha un potere catartico, ma soltanto se siamo disposti ad accettare la lezione e non mentire, soprattutto a noi stessi

Lo  so  che  mi  ero promesso come  codice etico di non vedere   in streaming  o scaricare prima  di tre mesi   o aspettare  l'uscita  in dvd  film    che  sono   appena usciti in italia   o  come  in questo caso   che ancora  devono uscire  in italia  come  ne l  caso  del  fil  di  cui parlo  qui    . Ma  oltre  alle solite  ragioni  ( il cinema  locale  porta  - salvo eccezioni -  film  da cassetta  come l un mio prof  all'università , piccola  distribuzione  , monopolio e pressioni  delle  grandi  case     sule altre  , ecc )   c'è il fatto   che  volevo  anticipare  l'eventuali critiche   e stroncature   dei media  di destra o  conservatori   a

 Captain Fantastic è un film del 2016 scritto e diretto da Matt Ross.Protagonista del film è Viggo Mortensen, un uomo che tenta di reintegrarsi nella società dopo aver vissuto in isolamento con la sua famiglia per oltre un decennio.

Lo  so  che  mi  ero promesso come  codic e etico di nonm vedere   in streaming  o scaricare prima  di tre mesi   o aspettare  l'uscita  in dvd  film    che  sono   appenna usciti in itlaia   o  come  in questo caso   che ancora  devonousiocre  in italia   . Ma  oltre  alle solite  ragioni  ( il cinema  locale  porta  - salvo eccezioni -  film  da cassetta  come l un mio prof  all'università , piccola  distribuzione  , monopolio e pressioni  delle  grandi  case     sule altre  , ec c )   c'è il fatto   che  volevo  anticipare  l'eventuali critiche   e stroncature   dei media  di destra conservatori   a ad un altro bellissimi film Into  the wild 


il sito community ( https://www.facebook.com/SRTproject/ ) da cui l'ho preso e semi legale perchè :

SRT project è una community di amanti del cinema che non ha scopo di lucro. Il sito non riceve donazioni, nè dirette nè da inserti pubblicitari. I sottotitoli offerti da questo sito vengono realizzati completamente in modo gratuito dai subber e sono da considerare delle libere traduzioni. Il sito e i suoi utenti non si assumono nessuna responsabilità sull'utilizzo di qualsiasi genere che ne viene fatto da eventuali terzi. Il sito non include file audio o video protetti da copyright, né i link per ottenerli e non incoraggia in alcun modo la fruizione o la distribuzione di materiale protetto da copyright da  .https://www.facebook.com/SRTproject/app/137541772984354/



Cercatelo al cinema, questo «Captain Fantastic», a partire dal 7 dicembre. Non vi deluderà.La verità è cinica, alle volte. Ma non solo. La verità è un'arma, e quando la tribù si trova a fare i conti con la realtà esterna, quell'arma è di una potenza indescrivibile. Distrugge come un fiume in piena le ipocrisie di una società che, a furia di mentire a se stessa, si è mostrificata, abbrutita.( il succo di questo film )  .  Un filmn  bellissimo  . ottima colonna  sonora  . 

http://www.comingsoon.it/film/captain-fantastic/53268/video/?vid=24787  intervista    al protagonista principale      
 con   un'ottima recensione http://www.comingsoon.it/film/captain-fantastic/53268/recensione/

(....)
Oggetto curioso nel suo mix di commedia, dramma e road-movie, di arificioso Captain Fantastic non ha nulla. E non va definito - come ha fatto qualcuno - un film per hipster medioborghesi che mangiano bio. E’ dura, infatti, la vita nella foresta (a caccia di animali)  della famiglia del "capitano mio capitano" dalla barba incolta. E’ vera inoltre, visto che è simile a quella che negli ’80 ha condotto Matt Ross in diverse comuni alternative. Soprattutto, è segnata dal continuo esercizio di una disciplina che dovrebbe essere imposta a chiunque: la cultura.
Ecco, Captain Fantastic è un’ode alla buona istruzione, ai libri, alla maniera giusta di essere intellettuali: senza ostentazioni, narcisismi. E’ un grande uomo in questo senso Ben, che un po’ come il film rivela però delle fragilità nel momento in cui entra in contatto con la civiltà, insieme di input superficiali. Quando il racconto, e con esso i Cash, si accostano al progresso, si fa strada insomma un’impasse anche narrativa, una stasi, una nebbia un po' melmosa da cui Ross decide di lasciarsi avvolgere, esercitando il diritto di far evolvere, sì, il suo protagonista, ma di non scegliere né messaggi né soluzioni definitive. Perché il film, in fondo, nasce da un dilemma irrisolvibile: Platone va d’accordo con il Kentucky Fried Chicken? Il rifiuto del consumismo non rischia di trasformare giovani menti geniali e corpi dall'incredibile potenza cardiovascolare in dei freak? Ed è possibile oggi essere genitori sempre presenti?Non c’è una risposta per queste domande che il regista pone senza giudicare. Nel suo apologo darwiniano, l’unica realtà plausibile è una "zona" a metà fra i compromessi del presente e il libero arbitrio e pensiero, nella speranza che nella democratica America si possa seguire un cammino lontano da quello suggerito dalle religioni organizzate, magari dando alle fiamme una bara al suono di "Sweet Child O' Mine" dei Guns 'n Roses. (  .... )   continua  nel  secondo  link  
  Un  film bellissimo  ed  intenso  da  dove  i due  mondi quello alternativo  rappresentato  da  Ben    e i suoi  figli  , tenta  \  prova   a   dialogare     con i parenti     di  LUi  ed i  familiari  di Lei .   

  non so  che  altro  dire  .meno  male  che   viene  in  aiuto   una delle  canzoni  del film 








Le "dicerie" dell'untore d matteo tassinari

Le "dicerie" dell'untore

Bufalino:
l'infelicità è umana
         di Matteo Tassinari
Ha in mano solo un poker di parole e non basta a vincere nel gioco della vita. E allora Gesualdo Bufalino si cala negli oggetti della tenerezza, nelle memorie, nei vecchi film trasmessi dalla televisione, nel crepuscolare pianto di tante perdite. Del resto, è vero che i vincitori non sapranno mai quello che si perdono.
Leonardo Sciascia
Dicerie
dell'untore 
Attore in un “teatrino della seduzione” Bufalino sa bene, stretto dall'inflessibilità dei giorni, che è meglio trascorrere l'esistenza come se fossero reali tutte le "larve" della fantasia, i pregiudizi, e le credenze o convinzioni infondate che è causa di idee, timori, sospetti non giustificato. Scrittore rivelatosi tardivamente nel 1981 a 62 anni con il romanzo “Diceria dell'untore”, grazie anche al prezioso e qualificato incoraggiamento di Leonardo Sciascia ed Elvira Sellerio.
  L'hobby della lettura
Elvira Sellerio, editrice
L'opera gli valse nello stesso anno il prestigioso Premio letterario Campiello. Bufalino, fin dai suoi primi anni, trascorre ore ed ore nella piccola biblioteca del padre, un fabbro con l'hobby della lettura. Sa di avere indossato spesse volte una maschera e di aver preferito il contraffatto all'autentico.
Però vuole anche entrare in sintonia con il quotidiano e inventare la verità. Tra due dimensioni, le lusinghe della letteratura e il crepitio del reale, questo madonnaro mentale ci consegna in “Bluff di parole”, un'ampia miscellanea di citazioni, motti, macerie di diario, pensieri a gogò, Bufalino, plasma un capolavoro.
Gesualdo Bufalino


La Calunnia,
dal Barbiere di   Siviglia
La calunnia è un venticello, un'auretta assai gentile che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente incomincia a sussurrar. Piano piano, terra terra, sottovoce, sibilando, va scorrendo, va ronzando. Nelle orecchie della gente s'introduce destramente e le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo lo schiamazzo va crescendo prende forza a poco a poco, vola già di loco in loco; sembra il tuono, la tempesta che nel sen della foresta va fischiando, brontolando e ti fa d'orror gelar. Alla fin trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia e produce un'esplosione come un colpo di cannone, un tremuoto, un temporale, un tumulto generale, che fa l'aria rimbombar. E il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte deve crepar. Così volle la divina commedia, l'insensibile dramma dell'umanità. 
Il    paradosso
esorcizza la     morte
La polemica lo esalta, lo celebra come scrittore raffinato, ma lo rende anche prigioniero di qualche bersaglio, troppo insistite le frecciate al vetriolo dirette ai critici in solo "Sacrestani" di una messa di cui lo scrittore, anche il più indegno, è il celebrante. Piaceva a Bufalino, il fatto che si scrive per guarire sé stessi, per sfogarsi, per lavarsi il cuore. "Si scrive per dialogare anche con un lettore sconosciuto", scrisse sul Corriere della Sera

Sfogarsi per lavarsi il cuore
Si scrive per guarire sé stessi, per sfogarsi, per lavarsi il cuore. Si scrive per dialogare anche con un lettore sconosciuto. Ritengo che nessuno senza memoria possa scrivere un libro, che l'uomo sia nessuno senza memoria. Io credo di essere un collezionista di ricordi, un seduttore di spettri. La realtà e la finzione sono due facce intercambiabili della vita e della letteratura. Ancora una volta l'autore ci propone una falsità, ma dichiarandola dimostra di non volere ingannare il "suo" lettore, bensì di farlo riflettere su come la finzione sia già presente nei luoghi che frequentiamo quotidianamente senza accorgercene.

Futuri     polverosi
Ogni sguardo dello scrittore diventa visione, e viceversa. Ogni visione diventa uno sguardo che s'imprimerà sicuramente in qualche suo testo, magari anche fra venti anni. Uno scarto di dieci primavere, può oggi essere un capolavoro, questo per dire come il tempo, e le sue imperiose modifiche capaci di trasformare il gusto del lettore, i suoi desideri e le sue aspettative. In sostanza è la vita che si trasforma in sogno e il sogno che si trasforma in vita, così come avviene per la memoria, dove tutto risiede, ma poco si ricorda per l'afflusso confusionario di notizie overdose e incisiva su chi la segue. La realtà è così sfuggente ed effimera... Non esiste l'attimo in sé, ma esiste l'attimo nel momento in cui è già passato. Piuttosto che vagheggiare un futuro vaporoso ed elusivo, preferisco curvarmi sui fantasmi di ieri senza che però mi impediscano di vivere l'oggi nella sua pienezza.
I fotografi, che vivono di istanti decisivi, sembrano attirati come da un sortilegio laddove avvengono i fatti nel momento preciso
Il reale     scivoloso
Ritengo che nessuno senza memoria possa scrivere un libro e che l'uomo sia un egregio signor nessuno senza memoria. Come credo di essere un collezionista di ricordi, un seduttore di spettri, un Casanova delle reminiscenze, un raccoglitore di flashback. La realtà e la finzione sono due facce intercambiabili della vita e della letteratura. Ogni sguardo dello scrittore diventa visione e viceversa, ogni visione diventa uno sguardo. In sostanza è la vita che si trasforma in sogno e il sogno che si trasforma in vita, così come avviene per la memoria.
Sostiene Bufalino
Il reale è scivoloso e caduco e non accetta il frangente, il baleno, l'istante in sé: "Ma esiste l'attimo - scrive Gesualdo Bufalino - nel momento in cui è già passato. Piuttosto che vagheggiare un futuro vaporoso ed elusivo, preferisco curvarmi sui fantasmi di ieri senza che però mi impediscano di vivere l'oggi nella sua pienezza" sosteneva lo scrittore siciliano in grande amicizia di Leonardo Sciascia. Il più inarrivabile e dogmatico Carlo Emilio Gadda, ci dice sfrontatamente: "Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo. Ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, anche ironia, forse le ragioni o le irragioni del fatto". Come non dargli ragione?
Scrivere per guarire 
Il paradosso gli accelera la possibilità di forzare la sua nativa inclinazione ad esorcizzare la morte con una nuvola di sillabe e grazie alla sua enfatizzazione della dissacrazione chiedendo conforto ai passatempi della scrittura e alle malinconie del pensiero. Malato di ricordi, Bufalino, ancora acerbo di esperienza ma già evoluto e strutturato, anche se ancora fiorente rispetto a ciò che poi col tempo porterà all'Indice.
 Con estrema libertà
Pasolini con Laura Betti
Ne scaturisce un“quadernaccio o scartafaccio” in cui Gesualdo Bufalino può coltivare i vizi più cari e muoversi con estrema libertà, andando a zonzo sopra e sotto le righe. Conviene, a chi nasce, molta oculatezza nella scelta del luogo, dell'anno, dei genitori. Un bluff di parole si affida ad un gioco di umori momentanei. Quel peso del mare siciliano che lo frustra e tutto seppellisce nel suo cimitero di minuti.
Gl'indispensabili 

Dedicato a chi si pensa ancora giovane e dentro di sè
ha una paura fottuta della morte.
Il Camposanto è zeppo di figure del genere, gl'indispensabili
Satira in      cassaintegrazione
Un velo di sarcasmo e di “maledettismo”, copre la rappresentazione di un io messo “in cassa integrazione” dalla vita. Un io che invecchia tra i libri, affonda in occasioni mancate ma risorge con aurorali stupori, fiere passioni, curiosità di capire il senso del suo tempo e decifrarne le ipocrisie.
Umberto Eco
La filigrana della sua storia di artista, del suo cammino di rabdomantico cercatore di Atlantidi sommerse di lutti e derive, macerie e incanti e ricordi e trappole di suoni, amante delle prosodie, della schiavitù della rima, dalla sontuosa e mortuaria "Diceria", argomento prevalente è la morte per poi dipanare la dinamica del testo in modo trasversale nascondendosi per poi, all’improvviso e senza accenni provvisori, riapparire.
Un ragazzo effemminato
E questo sotto i drappeggi di una scrittura in bilico fra strazio e falsetto, e in uno spazio che è sempre al di qua o al di là della storia - e potrebbe anche simulare un palcoscenico o la nebbia di un sogno dallo sguardo esiliato di Museo d'ombre, dalla torva e corteggiata malinconia di Argo il cieco.

ovvero i sogni della memoria, edito per i tipi di Sellerio. Essendo siciliano, non poteva non occuparsi anche di mafia, affermando che sarà vinta da un esercito di maestre elementari.

La favola delle Cere 
Sentenze, parabole, silhouette di moralità, citazioni letterarie, esili spunti di racconto, dannazioni e sogni e fili di fumo transitano in una scrittura raffinata, graffiata d'ironia e pervasa da una coscienza etica e civile che talora svicola nella favola sofisticata, come in "Cere perse", oppure si rifanno a suggestioni parcellari, a minimi intrecci d'avventura, tra evocazioni di un privato che si ingigantisce quanto più finge di civettare con umori e deliri.

27.10.16

Segnalazione su Portale SEO

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Coscogno di Pavullo, l’anti-Gorino «Noi sfamiamo i profughi»

Ecco una storia   da  far leggere   e raccontare  agli abitanti  (  compresi quelli   che  sono rimasti in silenzio e  non  si  sono opposti ai loro compaesani   ) di  Gorno   in cui la  gente  ragiona senza  usare  la pancia  lasciandosi prendere  dalla paura  e diventa  vedere  questo  video  ( non sono riuscito  a  trovare il   codice   per    riportarlo qui  sul  blog  )      xenofobo e razzista   anche  quando  non lo  è  mai stato  , stando  alle dichiarazioni  , lasciate per   gettare  acqua  sul fuoco e  non passare per  razzisti   )  infatti  non li volevano e li vedevano con sospetto ma poi ..... a


Coscogno di Pavullo, l’anti-Gorino «Noi sfamiamo i profughi»


Pavullo (Modena). Quando i profughi erano arrivati il 19 agosto era scattata la levata di scudi. Il sindaco fu costretto ad affrontare la situazione in un’assemblea pubblica. Dopo due mesi quei migranti che avevano scatenato un’accesa protesta, sono diventati quasi come dei figli per la popolazione in gran parte anziana del paese
La frazione di Pavullo ha adottato i migranti e li aiuta quando i soldi non bastano «Se lo meritano: sono bravi ragazzi, educati e sempre pronti a dare una mano»



di Daniele Montanari








PAVULLO. Quando erano arrivati il 19 agosto era scattata la levata di scudi “protettiva” sulla frazione. Nulla a che vedere con le barricate che si sono viste due giorni fa a Gorino, nel Ferrarese, ma il sindaco fu costretto ad affrontare la situazione in un’assemblea pubblica.
Ora, dopo due mesi quei migranti che avevano scatenato un’accesa protesta, sono diventati quasi come dei figlioli per la popolazione in gran parte anziana del paese, che sta vedendo in loro dei gran bravi ragazzi. Al punto da preoccuparsi anche che mangino abbastanza e da sopperire, in caso contrario.
Accade a Coscogno (Pavullo), dove è stato più che superato lo “choc” dell’arrivo di dieci profughi (sette dal Mali, due dal Gambia e uno dalla Costa d’Avorio), sembrati subito troppi a fronte di nemmeno 300 abitanti. La dimostrazione plateale la si è avuta in questi giorni, in cui si sono avvertiti i risvolti diretti del mancato pagamento da parte dello Stato alla Caleidos, la coop che gestisce l’accoglienza, di quasi 5 milioni di euro di arretrati. Prima a ognuno di loro venivano corrisposti 225 euro al mese, 150 per comprarsi da mangiare e 75 (la cosiddetta “pocket money”) per esigenze varie. Adesso la coop riesce a dare loro solo i 75, che devono servire per tutto. Ma nell’ultima settimana i ragazzi erano rimasti quasi senza niente: «Ci veniva fame», hanno raccontato ieri due del gruppo mentre aspettavano di andare alla lezione pomeridiana di italiano. «Però – hanno precisato subito – qui ci hanno aiutato tanto».



nfatti scattata la mobilitazione generale, tra persone che hanno portato loro qualcosa da casa e altre che hanno pagato da mangiare e bere al bar.
«Non si può fare altrimenti di fronte a persone così educate – conferma un signore che vuole l’anonimato ma è il benefattore maggiore – se vedono che c’è bisogno di una mano son subito lì. Portano pesi, puliscono, spazzano... E anche se fa freddo non vengono dentro al bar, se non li chiami». «Si stanno comportando solo bene, uno l’altro giorno voleva anche aiutarmi in concessionaria», sottolinea Giuliano Cornia. «Sono gentili, e non danno nessuna noia» conferma Leonardo Chezzi. «Sanno che mi fa male la schiena e mi aiutano a portare in casa la legna – racconta Armando Pignattari – io quando posso pago loro sempre qualcosa». «Ci fa piacere la solidarietà che si è attivata e ringraziamo la gente di Coscogno», nota Elena Oliva, presidente Caleidos.




«Anche il nostro personale sta facendo oltre il dovuto, anticipando in diversi casi i pagamenti al supermercato col proprio portafogli, perché nessuno ci fa più credito. Ma non può essere questo il sistema, lo Stato non può scaricarci addosso il problema contando sull’umanità.Questo è un sopravvivere, non un vivere. Non è il progetto d’accoglienza per cui ci siamo spesi».

26.10.16

l'obesità si può tenere sotto controllo e sconfiggere senza medicine Il racconto di un 31enne che superava i due quintali: «Nessun intervento, in 8 anni ho ripreso in mano la mia vita»

Precisazione    doverosa 
A  chi  avendo  letto   il mio precedente  post   :   come   curare e  tenere  a  bada   senza  farmaci  (  se  non in casi  gravissimi ed estremi  )   la depressione afferma    che  sono  un  ciarlatano ,  un complottista  ,  populista   e menate  simili  rispondo  che    :    sono uno   che crede  , ed  ha  provato    e lo fa  continuamente  ,   che certi  problemi   si   combattono  o s'attenuano(  cioè non vuol  dir e  che    non bisogna  usare  i farmaci   ma usarli   nei  casi meno  gravi    ed   estremi   senza  farmaci   ma  con una  semplice  analisi  e auto  analisi   psicologica  . Infatti 
un  abuso  ed  un uso  scriteriato  di  farmaci   non fa bene  e creano gravi effetti collaterali ed   assuefazione ed    dipendenza  ,  tant'è che   molti parlano  di  droghe  legalizzate   . Inoltre  è scientificamente  provato  che  certi problemi   di salute  hanno  un origine  psicologica   e  come tale  si  può  risolvere  o  quanto meno integrarla  , ovviamente   nei casi  più gravi ,  con i  farmaci  .
Introduzione  all'articolo
Ai  vecchi lettori e  fans  che mi dicono  che  ho  abbandonato  il parlare  di me  , il  mio   personale    questa  storia  è la mia  risposta  . Infatti   anch'io  soffro di problemi legati al cibo : colite  , reflusso  gastro esofageo   (  ed  è grazie  alla lotta   fatta  di cadute  e  ricadute  che   non sono arrivato  ai livelli  del protagonista  della storia  sotto  riportata  ) , ed  in particolare  fame  nervosa   . Ecco quindi  che  come  ci è  riuscito  lui  ,  ci posso  riuscire  ion almeno a tenerla  sotto controllo ed  evitare   di colmare  i  miei  vuoti  , le mie delusioni  ,  le  batoste  e  gli urti  che ricevo dalla  vita  , ecc    facendo  come ha  fatto lui    ed accettando il rischio di cadere  e  di   dover  rincominciare da  capo .  Ma  ora  basta  annoiarvi  .ed eccovi la  sua  storia


  da http://laprovinciapavese.gelocal.it/pavia/cronaca/2016/10/26

 la storia
«Rischiavo di morire, ho perso 120 chili» Palestro. Il racconto di un 31enne che superava i due quintali: «Nessun intervento, in 8 anni ho ripreso in mano la mia vita»




PALESTRO. Ha perso 120 chili in otto anni. Dai 23 ai 31 anni è passato da 215 chili, distribuiti su un metro e 70 centimetri d'altezza, ai 95 attuali. Riccardo Silva fa il cuoco e vive a Palestro, dove è cresciuto ed è molto conosciuto. A 23 anni ha deciso di cambiare la sua vita. «Ho fatto tutto da solo, senza ricorrere a interventi chirurgici – spiega il giovane di Palestro – I medici mi hanno solo aiutato con una terapia farmacologica per la cura della tiroide, che aveva delle disfunzioni: per questo sono stato ricoverato in una clinica a Piancavallo, località nel territorio di Oggebbio, in provincia di Verbania. Quando sono entrato in clinica i medici sono stati chiari: mi hanno detto che se fossi andato avanti così non sarei vissuto a lungo». Riccardo Silva era arrivato a vestire la taglia 78 di pantaloni, ora è tornato ad una più onesta 54 di taglia: «Ho preso in mano la mia vita. Ho deciso di migliorarla in questi anni ed i risultati ora si stanno vedendo, anche se ho ancora molto lavoro da fare per perdere altri chili – sottolinea il 31enne di Palestro –. Adesso ricorrerò anche alla chirurgia, ma solo per la sistemazione della pelle in eccesso, che è rimasta in seguito al dimagrimento: sono in lista d'attesa per l'intervento». La cura alla tiroide è stata fatta durante quattro ricoveri, nel 2008, 2011, 2015 e 2016, nella clinica di Piancavallo: trenta giorni di ricovero ogni volta in cui Riccardo veniva seguito dai medici nel suo percorso. Ma qual è stato il segreto di questo dimagrimento che ha del miracoloso? «Davvero niente di particolare, ho solo seguito la classica dieta mediterranea: non ho utilizzato nessuna dieta miracolosa di quelle di cui si sente tanto parlare in giro – spiega Riccardo –. Ho iniziato con la nostra dieta tradizionale, quindi mangiando pasta, pesce, carne, frutta e verdura in dosi giuste: prima dovevo assumere 2400 calorie al giorno, poi la quantità di calorie è scesa ma ho comunque un'alimentazione equilibrata e che mi sazia: non mi sento come uno che fa una dieta restrittiva, una di quelle con tante privazioni. Tutto questo è stato abbinato ad attività fisica: vado in palestra a Robbio, dove faccio corsa, cyclette. Ora sto iniziando a tonificare anche la massa muscolare con gli attrezzi della sala pesi. La cura della tiroide, abbinata alla dieta mediterranea e alla palestra mi hanno salvato, ma più di tutto serve in questi casi cambiare mentalità: è quello che fa la differenza». Ma com'era stato possibile arrivare a pesare oltre 200 chili ed avere la taglia 78 di pantaloni? «Avevo una dieta sregolata: fast food, aperitivi e cibo fuori pasto in continuazione – risponde il 31enne di Palestro – Uno stile di vita che mi stava rovinando. Ora, dopo un lungo percorso, posso dire che la mia vita è cambiata in meglio: la forza di volontà è stata quella che mi ha permesso di farcela da solo». Ma in questi anni com'è cambiata la sua vita? «È cambiata totalmente. Prima non potevo prendere i vestiti che volevo ed ora sì: e questo è solo un primo esempio – risponde Riccardo –. Ogni incombenza della vita quotidiana era diventata un problema: dal fare le scale o anche solo prendere la bicicletta per fare un giro in paese. Ora invece riesco a fare tutto: faccio anche 40 chilometri in bicicletta e d'estate faccio faticose passeggiate in alta montagna, tutte cose che mi sarei sognato un tempo. Comunque ho ancora molto da fare, voglio arrivare a 80 chili».

                                    Sandro Barberis

25.10.16

Razzismo, la redenzione di Derek Black dopo l'odio Il figlio dell'ex capo del Kkk ha voltato pagina.e vota per H.Clinton

come  una  persona   può cambiare  con la  conoscenza  dell'altro  e il  dialogo \  confronto . La  storia  di  Derek Black


figlio di  Stephen Donald Black più noto come Don Black (Athens, 28 luglio 1953) è un politico statunitense, tra gli esponenti di spicco del nazionalismo e suprematismo bianco
Ex-leader del Ku Klux Klan ed ex-membro del Partito Nazista Americano, nel 1981 è stato condannato per aver pianificato un colpo di stato in Dominica in violazione del Neutrality Act statunitense. È noto per essere il fondatore del sito internet a sfondo razzista Stormfront, definito il più grande sito d'odio presente in internet[7] e finito anche sotto inchiesta da parte della magistratura italiana.(  continua  qui  su wikipedia  ulteriori nees  sul padre  e su  di  lui  le  trovate  nel  secondo   articolo a  cura   di Mario Calabresi   sull' inserto domenicale  di repubblica  del   23\10\21016   )
Mi ricorda me   quando  ero adolescente   vicio   al becero nazionalismo   e  alla becera destra ovviamente senza generalizzare perchè : 1) il razzismo , l'antisemitismo , la xenofobia - vedere questi commenti sul mio fb a favore delle barricate del ferrarese contro i profughi  - l'omo e la trans fobia non hanno soprattutto dal 1989\92 colore ideologico \ culturale., 2  )  per esperienza   ho conosciuto   e    conosco  tutt'ora  a  destra  , anche  se  si contano  purtroppo  sulle  punte  delle mani  ,   gente  aperta  ed  intelligente  pronta  all'autocritica  come   la  storia      che mi  accingo a riportare


  Sempre  dallo  stesso  inserto  

                    di     Eli saslow
.
IL  loro  convegno  era  stato interrotto da una marcia di protesta e da un allarme bomba, perciò avevano deciso di riunirsi in segreto. All’insaputa di poliziotti e manifestanti, i nazionalisti bianchi si incontrarono in un albergo del centro di Memphis. Pochi giorni prima il Paese aveva eletto per la prima volta un presidente nero e ora, nel novembre del 2008, decine tra i razzisti più noti a livello



mondiale erano decisi a elaborare una strategia per gli anni a venire. “La battaglia per ripristinare un’America bianca comincia ora”, recitava il loro programma. La stanza era gremita da ex capi del Ku Klux Klan e neonazisti di primo piano, ma uno degli interventi di apertura era stato riservato a un ragazzo della Florida, uno studente universitario che aveva appena compiuto diciannove anni. Derek Black aveva già un suo programma radiofonico, gestiva un sito per bambini dedicato al nazionalismo bianco e aveva vinto un’elezione locale. L’organizzatore lo presentò come «la stella del nostro movimento», poi Derek si avvicinò al leggìo. «La strada da percorrere è la politica», disse. «Possiamo infiltrarci. Possiamo riprenderci il Paese».
"Anni  prima  che  Donald  Trump  lanciasse una campagna presidenziale basata, fra le altre cose, sulla politica della razza, un gruppo di nazionalisti bianchi dichiarati lavorava per rendere possibile la sua ascesa allontanando la propria ideologia dal settarismo radicale e avvicinandola sempre più all’estrema destra dello schieramento conservatore. Molti dei presenti in quell’albergo di Memphis si
 All’inizio all’università non sapevano nulla di lui, e Derek cercava di fare in modo che continuasse a essere così. Andò a un incontro introduttivo sul tema delle diversità organizzato dall’ateneo e ne concluse che il modo più sicuro per farsi ostracizzare là dentro era dichiararsi un razzista. Decise di non menzionare il nazionalismo bianco nel campus, almeno finché non si fosse fatto qualche amico. Le cose che prima lo facevano passare per uno strambo — i capelli
Alcuni  membri del gruppo che  si  riuniva  per lo Shabbat iniziarono a chiedere a Derek le sue opinioni e lui le chiarì a voce o per email. Disse che nei confronti dell’aborto era favorevole all’autonomia di scelta delle donne, era contro la pena di morte, non credeva nella violenza o nel KKK o nel nazismo e nemmeno nella supremazia bianca che era un concetto diverso dal nazionalismo bianco. In una email scrisse che la sua unica preoccupazione era che “l’immigrazione di massa e l’integrazione forzata” potessero sfociare in un genocidio bianco. Disse di credere nei diritti di tutte le razze, pur ritenendo che ciascuna razza avrebbe vissuto meglio nella sua terra d’origine. Poi all’inizio del suo ultimo anno al New College decise, una volta per tutte, di rispondere sul forum. Si sedette a un bar e iniziò a scrivere il suo post. «Mi è stato fatto notare che la gente potrebbe sentirsi impaurita a causa di ciò che è stato detto su di me. Vorrei cercare di dare una risposta ufficiale a queste preoccupazioni, in quanto non hanno motivo d’essere. Io non sono favorevole all’oppressione di nessuno per questioni legate alla sua razza, i suoi principi, la sua religione, il suo genere, il suo ceto socio-economico o altre cose di questo tipo». Il post sul forum, che avrebbe dovuto restare all’interno del college, fu fatto arrivare al Southern Poverty Law Center (Splc), che su Derek e altri leader razzisti teneva un file pubblico e che reagì scrivendo direttamente a Derek, chiedendogli spiegazioni. Stava forse sconfessando il nazionalismo bianco? «Le tue opinioni adesso divergono parecchio da quello che pensavano molte persone» diceva la mail. Derek ricevette il messaggio mentre si trovava in Europa per le vacanze invernali. Alloggiava da Duke, che aveva iniziato a mandare in onda il suo show radiofonico da una regione europea nella quale c’erano leggi particolarmente indulgenti nei confronti della libertà di espressione. Derek rispose al Splc dal divano a casa di Duke: «Tutto ciò che ho detto (sul forum) è vero» scrisse. «Credo anche nel nazionalismo bianco. Il mio post e la mia ideologia razziale non sono concetti che si escludono a vicenda».
erano trasformati da incappucciati del Klan a suprematisti bianchi e poi a “realisti razziali”, come si autodefinivano, e Derek Black rappresentava un altro passo in quell’evoluzione. Non usava mai epiteti razziali offensivi. Non propugnava atti di violenza o violazioni della legge. Aveva conquistato un seggio nel comitato locale del Partito repubblicano della contea di Palm Beach, Florida, dove Trump stesso aveva una casa, senza mai menzionare il nazionalismo bianco e parlando invece dei disastri prodotti dall’ideologia del politicamente corretto, dalle politiche di discriminazione positiva e dall’immigrazione incontrollata di Latinos . Black non era solo un leader del razzismo politico, era anche un suo prodotto. Il padre, Don Black, aveva creato stormfront primo e principale sito del nazionalismo bianco, con oltre trecentomila utenti. Sua madre, Chloe, era stata sposata con David Duke, uno dei più famigerati fanatici razziali statunitensi, e Duke era stato il padrino di Derek, tanto che alcuni nazionalisti bianchi avevano preso a chiamarlo “l’erede”. Ora Derek parlava a Memphis del futuro della loro ideologia. «Quello che voglio è che i Repubblicani si approprino del ruolo di Partito bianco». Qualcuno cominciò a battere le mani, e dopo non molto tutti applaudirono. Erano convinti che il nazionalismo bianco stesse per mettere in moto una rivoluzione. Erano convinti che Derek avrebbe contribuito a guidarla. «Tra alcuni anni ripenseremo a questo giorno», disse. «La grande battaglia intellettuale per salvare il popolo bianco è cominciata oggi». * Otto anni dopo, con le presidenziali del 2016, quel futuro immaginato a Memphis si stava infine concretizzando: Donald Trump ritwittava i messaggi dei suprematisti, Hillary Clinton teneva discorsi sull’ascesa dell’odio bianco menzionando David Duke, che aveva lanciato la sua campagna per un seggio in Senato. Il nazionalismo bianco era riuscito a occupare il centro della politica, ma una delle persone che meglio conoscevano quell’ideologia ora era lontanissima da quel centro. Derek aveva appena compiuto ventisette anni e invece di guidare il movimento stava cercando di tirarsi fuori non solo da quello, ma anche da una vita che non riusciva più a capire. Fin dall’inizio gli avevano insegnato che l’America era un luogo riservato agli europei bianchi e che tutti gli altri prima o poi avrebbero dovuto andarsene. Gli avevano detto di diffidare delle altre razze, del Governo federale, dell’acqua di rubinetto e della cultura pop. I suoi genitori lo avevano ritirato dalla scuola pubblica alla fine della terza elementare, quando avevano sentito il suo insegnante nero dire BJO U (forma negativa generica usata nel gergo afroamericano, OES). Derek era uno dei pochi studenti bianchi in una classe prevalentemente di ispanici e haitiani e i suoi genitori decisero che era meglio farlo studiare a casa. «Ora non subisco più aggressioni da bande di altre razze», scrisse poco tempo dopo, sulla versione per bambini del sito di , che aveva realizzato a dieci anni. «Sto imparando a essere fiero di me stesso, della mia famiglia e del mio popolo». Adesso che studiava a casa, era anche libero di cominciare a viaggiare con suo padre, che per diverse settimane all’anno andava nel profondo Sud per partecipare a convegni di nazionalisti bianchi. Don Black era cresciuto in Alabama e negli anni Settanta si era unito a un gruppo locale chiamato White Youth Alliance, guidato da David Duke, all’epoca sposato con Chloe. Il matrimonio finì e qualche anno dopo Don e Chloe si rincontrarono, si sposarono e nel 1989 ebbero Derek. Si trasferirono nella casa dove Chloe era cresciuta a a West Palm Beach. C’erano degli immigrati guatemaltechi che vivevano in fondo all’isolato e dei pensionati ebrei che si erano trasferiti in un condominio lì vicino. «Usurpatori», li definiva a volte Don. Durante i loro viaggi Don e Derek dormivano sempre da amici del movimento, e Derek ascoltava le loro storie. Di quella volta che a suo padre, all’epoca sedicenne, avevano sparato nel petto mentre lavorava per una campagna segregazionista in Georgia. Di quel giorno in cui lui e altri otto volevano salire su una nave carichi di dinamite, armi automatiche e una bandiera nazista: il loro piano, chiamato “Operazione Cane Rosso”, era impadronirsi del minuscolo Stato caraibico di Dominica, ma Don era stato scoperto, arrestato e condannato a tre anni di carcere. In prigione aveva imparato un po’ di computer e alla fine, nel 1995, aveva lanciato il  stormfront con il motto: “White Pride World Wide” . Negli anni, il sito cominciò ad attirare estremisti di ogni genere: skinhead, miliziani, terroristi e negazionisti. Secondo il Southern Poverty Law Center, organizzazione che monitora i gruppi estremisti, alcuni di quelli che scrivevano post su stormfront  erano passati all’azione commettendo reati, anche omicidi. Nel 2008 Don mise al bando epiteti offensivi, simboli nazisti e minacce di violenza, e Derek rafforzò il rapporto con suo padre diventando il suo più grande alleato ideologico. Cominciò a essere intervistato sull’incitamento all’odio, dalla tv per bambini Nickeloden da talk show di fascia diurna, dalla  e Hbo  e Usa  Today . «Il bambino diabolico», lo definiva a volte Don, con orgoglio e affetto. Cominciava a vedere qualcosa di diverso quando guardava suo figlio: non semplicemente un bambino nato all’interno del movimento, ma un leader emergente. Don aspettava da quarant’anni un risveglio razziale dei bianchi americani e ora cominciava a pensare che quell’adolescente che viveva in casa sua avrebbe potuto fare da catalizzatore. «Aveva tutte le mie qualità senza nessuno dei miei difetti», disse in seguito. Derek lanciò un programma radiofonico quotidiano. Attraverso la radio, contribuì a diffondere l’idea che era in atto un genocidio bianco, che i bianchi stavano perdendo la loro cultura e le loro tradizioni di fronte all’immigrazione di massa di individui di altre razze. Poi finì le superiori, si iscrisse a un community college e si candidò per un seggio nel comitato del Partito repubblicano della contea, battendo il consigliere uscente con il sessanta per cento dei voti. Quindi decise che voleva studiare storia europea medievale e fece domanda per il New College of Florida, una prestigiosa università con un corso di storia rinomato. «Noi vogliamo che tu faccia la storia, non che ti limiti a studiarla», gli ricordavano ogni tanto Don e Chloe. Il New College era una delle università più a sinistra di tutto lo Stato — «piena di canne e di omosessuali», spiegava Don in radio — e nel movimento c’era chi guardava con perplessità a quella scelta. Una volta, in trasmissione, un amico chiese a Don se non fosse preoccupato all’idea di mandare suo figlio in un «focolaio del multiculturalismo», e Don cominciò a ridere. «Se ci sarà qualcuno che verrà influenzato, saranno loro», disse. «Presto tutto il corpo docente e gli studenti sapranno chi c’è in mezzo a loro».

rossi lunghi fino alle spalle, il cappello da cowboy che portava sempre, la passione per le rievocazioni medievali — si incastravano perfettamente con il New College, dove le stramberie erano moneta corrente fra gli ottocento studenti. Forse erano “usurpatori”, come diceva suo padre, ma Derek li trovava anche piuttosto simpatici, e pian piano passò dal non parlare delle sue convinzioni all’impegnarsi attivamente per nasconderle. Quando un altro studente disse che aveva letto un articolo sulle implicazioni razziste del il  signore  degli anelli   J in un sito chiamato stormfrnmt .
 Derek fece finta di non averne mai sentito parlare. Nel frattempo, quasi tutte le mattine dei giorni feriali usciva dal campus e teneva via telefono il suo show alla radio. Diceva agli amici che erano telefonate che regolarmente faceva ai genitori. Dopo un semestre andò a studiare all’estero, in Germania, perché voleva imparare la lingua. Rimase in contatto con il New College anche attraverso un forum online riservato agli studenti. Una sera di aprile del 2011, notò un messaggio che era stato inviato a tutti gli studenti all’1.56. Era stato scritto da uno studente dell’ultimo anno che, facendo una ricerca sui gruppi terroristici, era incappato in un volto noto. «Avete visto quest’uomo?», recitava il messaggio, e sotto quelle parole c’era una foto inconfondibile. I capelli rossi. Il cappello da cowboy. «Derek Black: suprematista bianco, conduttore radiofonico… studente del New College???», c’era scritto nel messaggio. «Come deve reagire la nostra comunità?». Quando Derek fece ritorno al campus per il nuovo semestre, quel post aveva ricevuto più di mille risposte. Chiese il permesso di vivere al di fuori dello studentato e affittò una stanza a qualche chilometro di distanza. Alcuni dei suoi amici dell’anno precedente gli scrissero via email per dirgli che si sentivano traditi ma, per la maggior parte, gli altri studenti lo fissavano o lo ignoravano, anche se sul forum si continuava a parlare di lui. «Forse sta cercando di tirarsi fuori da una vita che non ha scelto». «Lui sceglie di essere un personaggio pubblico razzista. Noi scegliamo di chiamarlo razzista in pubblico». «Vorrei solamente che questo tizio morisse di una morte dolorosa, insieme a tutta la sua famiglia. È chiedere troppo?». Invece di rispondere, Derek leggeva il forum e lo usava come motivazione per organizzare un convegno di nazionalisti bianchi nell’est del Tennessee. «Vincere argomentando: tattiche verbali per chiunque sia bianco e normale», aveva scritto nell’invito. Un altro studente del New College era venuto a sapere del convegno e ne pubblicò i particolari sul forum, dove pian piano stava emergendo un nuovo approccio. «Ostracizzare Derek non servirà a niente», scriveva uno studente. «Abbiamo l’occasione di influenzare uno dei leader del suprematismo bianco in America». «Chi è abbastanza intelligente da pensare a qualcosa che potremmo fare per far cambiare idea a questo tizio?». Una delle persone che Derek aveva frequentato nel primo trimestre ebbe un’idea. Cominciò a leggere stormfront e ad ascoltare lo show radiofonico di Derek. Poi, alla fine di settembre, gli inviò un sms. «Sei libero venerdì sera?».Matthew Stevenson aveva cominciato a organizzare ogni settimana cene per lo Shabbat nel suo appartamento all’interno del campus. Era l’unico ebreo ortodosso in un ateneo dove le infrastrutture per ebrei scarseggiavano, perciò cominciò a cucinare per un gruppetto di studenti nel suo appartamento tutti i venerdì sera. I suoi ospiti erano per lo più cristiani, atei, neri, ispanici, chiunque fosse abbastanza aperto di mente da non avere problemi ad ascoltare qualche benedizione in ebraico. Ora, nell’autunno del 2011, aveva invitato Derek a unirsi a loro. Matthew, che portava quasi sempre la kippah, aveva una lunga frequentazione con l’antisemitismo, abbastanza da conoscere bene il KKK, David Duke e stormfront . Si rimise a leggere alcuni dei messaggi pubblicati da Derek sul sito dal 2007 al 2008: «Gli ebrei NON sono bianchi»; «Gli ebrei si insinuano furtivamente nelle posizioni di potere per controllare la nostra società»; «Se ne devono andare». Matthew decise che il modo migliore per provare a influenzare le idee di Derek non era ignorarlo o affrontarlo, ma semplicemente coinvolgerlo. «Forse non ha mai passato del tempo con un ebreo prima d’ora», ricorda di aver pensato. Era la prima volta che Derek riceveva un invito da quando era tornato nel campus, perciò accettò. Alle cene per lo Shabbat di Matthew in certi casi c’erano otto o anche dieci studenti, ma questa volta furono in pochi a presentarsi. «Trattiamolo come chiunque altro», raccomandò Matthew agli altri invitati. Derek si presentò con una bottiglia di vino. Per riguardo nei confronti di Matthew, nessuno fece allusioni al nazionalismo bianco o al forum. Derek era tranquillo e cordiale. Tornò la settimana dopo e quella dopo ancora fino a quando, dopo alcuni mesi, nessuno si sentì più minacciato. Nelle rare occasioni durante le quali era Derek a guidare la conversazione, si parlava di grammatica araba, o di sport acquatici, o delle radici del cristianesimo in epoca medievale. Derek dava l’immagine di persona brillante e desiderosa di sapere. Chiese a Matthew che cosa ne pensasse di Israele e della Palestina. Entrambi diffidavano ancora l’uno dell’altro: Derek si chiedeva se Matthew non stesse cercando di farlo ubriacare per spingerlo a dire qualcosa di offensivo che sarebbe stato riportato sul forum, e Matthew si chiedeva se Derek non stesse cercando di coltivare l’amicizia di un ebreo per mettersi al riparo da eventuali accuse di antisemitismo. In ogni caso, i due si presero in simpatia e iniziarono a giocare a biliardo in un bar nei pressi del campus. "

In verità, Derek era sempre più confuso in relazione a ciò in cui credeva. Smise di postare interventi su stormfront  Iniziò a inventare scuse per non curare più la sua trasmissione radiofonica: si stava preparando per un esame; stava facendo passare le pene dell’inferno ai suoi professori liberal. Aveva sempre basato le proprie opinioni sui fatti, ma negli ultimi tempi la sua logica era stata smantellata dalle email dei suoi amici del gruppo dello Shabbat. Riceveva da loro link a studi secondo i quali le disparità di quoziente intellettivo tra le razze potevano essere spiegate da circostanze attenuanti, come l’alimentazione prenatale e le opportunità di studio. Lesse articoli sul privilegio bianco e sulla sleale rappresentazione delle minoranze nei telegiornali. Un amico gli scrisse per email: «Il genocidio contro i bianchi è un concetto ingiurioso e umiliante nei confronti dei veri genocidi contro gli ebrei, i ruandesi, gli armeni». «Non odio nessuno per la sua razza o la sua religione» chiarì Derek sul forum. «Non sono un suprematista bianco. Credo che nessun popolo di nessuna razza, religione o altro avrebbe dovuto abbandonare la propria terra o essere segregato o perdere le sue libertà». «Derek», gli rispose un amico, «mi sembra che tu sia il rappresentante di un movimento nel quale tu stesso non credi più di tanto». Durante il suo ultimo anno al New College, Derek frequentò corsi sui testi sacri dell’ebraismo e sul multiculturalismo tedesco, ma per lo più le sue ricerche si concentrarono sull’Europa medievale. È così che imparò che l’Europa occidentale si era costituita non come una società di popoli geneticamente superiori, ma come un territorio tecnologicamente arretrato, che arrancava dietro la cultura islamica. Studiò storia dall’ottavo al dodicesimo secolo, cercando di rintracciare le origini dei concetti moderni di razza e di whitenees senza trovarli da nessuna parte. E quindi giunse alla seguente conclusione: «In pratica, ce li siamo inventati di sana pianta». Dopo la laurea, Derek iniziò a prendere in considerazione l’idea di fare una dichiarazione pubblica. Sapeva di non credere più nel nazionalismo bianco, e pensava di poter prendere le distanze dal suo passato modificando parte del suo nome e andando dalla parte opposta del paese per frequentare il master. Il suo istinto gli suggeriva di allontanarsi in punta di piedi, ma aveva sempre propugnato pubblicamente le sue idee, senza contare che lasciava dietro di sé trasmissioni radiofoniche, post su internet, apparizioni televisive. Quella stessa estate, stava ancora prendendo in considerazione il da farsi quando tornò a casa a trovare i suoi genitori. Suo padre stava seguendo l’ascesa del nazionalismo bianco sulla tv via cavo. Ormai, però, tutto ciò suonava ridicolo alle orecchie di Derek. Quella sera uscì di casa e andò in un bar portandosi dietro il computer, dove iniziò a scrivere una dichiarazione: «Una grande fetta della comunità nella quale sono cresciuto crede nel nazionalismo bianco, e i membri della mia famiglia che io rispetto moltissimo, in particolare mio padre, sostengono tale causa con fermezza. Non mi sentivo pronto a rischiare di provocare screzi in questi miei rapporti. Ma dopo avervi meditato a lungo, ho capito che essere sincero nei confronti della mia lenta ma progressiva disaffiliazione dal nazionalismo bianco è nell’interesse di tutte le persone coinvolte. Non posso essere favorevole a un movimento per il quale non mi è concesso stringere amicizia con chi desidero o per il quale la razza del mio prossimo mi impone di considerarlo in un dato modo, o di nutrire sospetto e diffidenza nei confronti dei suoi successi. Le cose che ho detto e le mie azioni hanno danneggiato persone di colore, di discendenza ebraica, attivisti che si adoperano affinché tutti siano trattati equamente. Mi scuso per il male che ho fatto». Proseguì con questo tono per altri paragrafi prima di spedire la mail all’Splc, proprio il gruppo che suo padre aveva considerato nemico per quarant’anni, aggiungendo: «Pubblicate pure tutto» . Quindi premette il tasto “invio”.
Il pomeriggio seguente, Don era al computer a fare ricerche su Google e il nome di Derek gli apparve nel titolo di un articolo. Da dieci anni, digitava “Stormfront” e “Derek Black” nella barra delle ricerche più volte a settimana, per monitorare l’ascesa del figlio nel nazionalismo bianco. Il titolo dell’articolo era “Figlio attivista di un importante leader razzista sconfessa il nazionalismo bianco”. Quando riuscì a telefonare a Derek, ricorda di avergli detto: «Gli hacker ti hanno rubato l’identità». «No, la lettera è mia» rispose Derek. E subito sentì suo padre chiudere la telefonata. Per alcune ore, Don rimase incredulo. Forse Derek gli stava giocando un brutto scherzo. Forse Derek credeva ancora nel nazionalismo bianco ma voleva aver vita facile. Quella sera, Don si collegò alla bacheca dei messaggi di stormfront . «Sono sicuro che questa notizia starà circolando ovunque in Rete, quindi inizio da qui» scrisse, postando un link alla lettera di Derek. «Non voglio parlare con lui. Derek dice di non capire perché ci sentiamo traditi da lui perché ha annunciato i “principi personali” in cui crede ai nostri peggiori nemici». Per giorni, Don non riuscì a postare nient’altro. «È stato l’evento peggiore nella mia vita di adulto».
Alcune settimane dopo Derek tornò a casa per il compleanno del padre, anche se sua madre e la sua sorellastra gli avevano chiesto di non farsi vedere. «Penso che potrebbero arrivare a ripudiarmi» scrisse a un amico. Tuttavia, essendo in partenza per la Florida per il master, voleva salutare i suoi. Arrivato a casa della nonna per la festa di compleanno del padre, Derek in seguito avrebbe ricordato la strana sensazione di essere considerato a malapena dalle sue sorellastre. Sua madre era stata cortese, ma gelida. Don aveva cercato di farlo entrare in casa, ma il resto della famiglia voleva che se ne andasse. Padre e figlio erano saliti in macchina e si erano allontanati, dirigendosi prima verso la spiaggia e poi al ristorante. Dopo qualche ora Don concluse che «era sempre il vecchio Derek» e la cosa lo sorprese. Il suo dolore era stato così immenso che si era aspettato di vedere in lui una specie di manifestazione fisica della perdita subìta. Chiese al figlio se stava fingendo di essere cambiato per avere una carriera più facile. Era il suo modo di ribellarsi? Quando Derek smentì, Don citò la teoria nella quale ormai era arrivato a credere, la stessa che David Duke aveva postato dopo la pubblicazione della lettera: Sindrome di Stoccolma. Derek sarebbe diventato ostaggio dello schieramento liberal e avrebbe poi provato empatia per i suoi rapitori. «Molto rassicurante come teoria», ricorda di aver detto al padre. «Come posso dimostrarvi che questo è ciò in cui oggi credo davvero?». Al ristorante Derek cercò di convincere Don per alcune ore. Gli raccontò del privilegio bianco e dei ripetuti studi scientifici sul razzismo istituzionalizzato. Citò le grandi società islamiche che svilupparono l’algebra e avevano preannunciato un’eclissi lunare. Ricorda anche di aver detto: «Non solo avevo torto, ma ho anche contribuito ad arrecare danni reali». A sua volta Don ricorda di aver risposto: «Non riesco a credere che sto discutendo proprio con te, tra tutte le persone possibili, di realtà razziali». Il ristorante ormai stava per chiudere, e i due non avevano compiuto nessun passo avanti per comprendersi meglio. Derek andò a dormire a casa di sua nonna, si alzò di primo mattino e lasciò il paese in macchina da solo. 
Da allora Derek continuò ogni giorno a fare il possibile per prendere le distanze dal suo passato. Dopo aver completato gli studi e conseguito il master, iniziò a studiare l’arabo per capire la storia dell’Islam delle origini. Dal giorno della sua defezione non ha più parlato di nazionalismo bianco. Si è invece dedicato con tutto se stesso a recuperare il tempo perduto e a cercare di conoscere meglio aspetti della cultura pop che un tempo gli era stato imposto di diffamare: gli articoli dei giornali liberal, la musica rap, i film di Hollywood. È arrivato ad ammirare il presidente Obama. Ha deciso di fidarsi del governo degli Stati Uniti. Ha iniziato a bere l’acqua del rubinetto. Ha fatto vari viaggi a Barcellona, Parigi, Dublino, in Nicaragua e in Marocco, immergendosi in quante più culture ha potuto. Ha messo a disposizione di estranei alla ricerca di un alloggio temporaneo la sua camera da letto, l’unica del suo appartamento. Si è sentito sempre meglio a potersi fidare delle persone, senza pregiudizi o preconcetti, e dopo un po’ ha iniziato a sentirsi completamente diverso dall’individuo che era stato. Poi, però, è iniziata la campagna elettorale per le presidenziali del 2016 e all’improvviso il nazionalismo bianco che Derek stava cercando di lasciarsi alle spalle è diventato l’ineludibile sottinteso costante del dibattito nazionale sui rifugiati, sull’immigrazione, su Black Lives Matter e sull’elezione stessa. Alla fine di agosto, Derek ha seguito in televisione un comizio di Hillary Clinton durante il quale la candidata ha parlato dell’ascesa del razzismo, spiegando che i suprematisti bianchi non hanno fatto altro che cambiare nome e farsi chiamare nazionalisti bianchi. Ha fatto riferimento a Duke e ha citato il concetto di “genocidio bianco” che Derek stesso un tempo aveva contribuito a diffondere e rendere popolare. Ha raccontato in che modo Trump avesse assunto per la sua campagna un manager che aveva legami con l’“alt-right”, la destra alternativa, e ha detto: «In sostanza, un movimento marginale ha preso il sopravvento sul Partito repubblicano». Si trattava del medesimo concetto nel quale Derek aveva creduto per così tanti anni della sua vita. «È spaventoso sapere che ho contribuito a diffondere questa robaccia» ha detto a un amico del gruppo dello Shabbat. Alla fine dell’estate, per la prima volta a distanza di anni, è andato a far visita ai suoi genitori. In una fase di dibattito pubblico sempre più acceso, voleva sentire cosa ne pensava suo padre. Si sono seduti in casa e per un po’ hanno parlato dei suoi corsi all’università e del nuovo pastore tedesco di Don. Poi, la loro conversazione ha svoltato di nuovo verso l’ideologia, l’argomento preferito di sempre. Don, che di solito non vota, ha detto che questa volta darà il suo pieno sostegno a Trump. Derek ha detto di essersi cimentato con un quiz politico online e di aver scoperto che le sue

opinioni collimano al novantasette per cento con quelle di Hillary Clinton. Don ha detto che le restrizioni imposte all’immigrazione gli paiono un buon punto di partenza. Derek gli ha risposto che in verità crede nell’importanza di autorizzare l’ingresso a più immigrati, perché ha studiato i vantaggi sociali ed economici legati alla diversità. Don ha pensato che ciò potrebbe sfociare in un genocidio bianco. Derek ha pensato che la razza è un concetto sbagliato in ogni caso. Sono rimasti uno di fronte all’altro, cercando un modo per colmare l’abisso creatosi tra loro. A un solo isolato di distanza c’era la Baia e proprio sull’altra sponda la tenuta nella quale Trump ha vissuto e trascorso le vacanze per anni, e dove ha fatto installare un palo alto ventiquattro metri per farvi sventolare una enorme bandiera americana. «Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato proprio Trump a rendere così alla moda queste idee?» ha detto Don. E nel momento in cui non erano mai stati così distanti l’uno dall’altro su questa affermazione non hanno potuto fare a meno di trovarsi d’accordo. ª
   

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