20.12.24

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing   



Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André di Pomezia, Plesso Martinelli. Quest’anno ha la quinta elementare: «Un bel gruppo di studenti che mi sono coltivata piano piano. Mi dispiacerà lasciarli andare, ma il nostro lavoro è questo: dargli le ali per volare per conto loro».
 E’ arrivata in Italia a cinque anni dalla Somalia: erano i primi anni 70. La sua mamma era già qui e lei, che aveva avuto la poliomielite, venne per farsi curare e stare con la sua famiglia. L’idea era di
tornare a casa dopo qualche anno. E invece: scuole elementari, medie, magistrali in collegio dalle suore e in contemporanea Ospedale Spolverini, don Gnocchi, operazioni ripetute per poter rafforzare le gambe e stare in piedi con le stampelle. Poi il Magistero e l’impossibilità di fare i concorsi perché non aveva la cittadinanza. A vent’anni dal suo arrivo, nel 1989,  riesce a ottenerla e dal 1992 insegna felicemente a Pomezia. E’ sposata e ha una figlia di undici anni: «Questo è il mio Paese. Ho fatto qui le scuole».
Come sono stati gli inizi come maestra?

«Quando ho saputo che sarei andata a insegnare a Pomezia, sono stata a vedere la scuola con mio padre. Troviamo il collaboratore, gli spiego che sono la nuova maestra. Lui, molto gentile, ci fa entrare, ci racconta come funziona la scuola, giriamo per aule e corridoi e io lo saluto dicendo che tornerò nel giro di qualche settimana. Quando ho preso servizio vedevo gli insegnanti un po’ cauti nei miei confronti. Una volta entrati più in confidenza mi hanno detto che il collaboratore aveva detto loro che parlavo a stento italiano».

Le è mai capitato un episodio spiacevole con i colleghi?

«Tempo fa c’era una collega che durante il collegio dei docenti mi diceva: “Tu come la pensi, cioccolatino?”. Le sembrava di usare un vezzeggiativo. Le ho fatto notare che se voleva usare un tono affettuoso avrebbe potuto chiamarmi con un diminutivo: Rahmuccia, casomai. La collega si è offesa».

Aneddoti, ricordi, ferite di una maestra nera, per di più con le gambe rese incerte dalla poliomielite. Rahma Nur è appassionata di poesia, ha scritto racconti e saggi, l’ultimo nell’Alfabeto della scuola democratica (Laterza, a cura di Christian Raimo). E’ diventata insegnante per caso e per necessità: «Non era il mio sogno: studiavo lingue e volevo viaggiare, scrivere e fare l’interprete, però ho passato il concorso, volevo essere indipendente e avere un lavoro. C’erano già state troppe lungaggini».

Non aveva cercato altri posti?

«Avevo provato a fare qualche colloquio ma sono una persona nera e con disabilità. Mentre studiavo sono stata presso una signora che mi chiamava la sua “dama di compagnia”».

Lei l’ha avuta dura. Ritiene che i tempi siano cambiati?

«Ho vissuto momenti davvero tristi e difficili. Nel collegio dove ho fatto le superiori mi sono sentita sola e non capita. Gli assistenti mi dicevano: perché non torni nel tuo Paese? Una volta risposi a una di questi assistenti, allora ero più coraggiosa… Le dissi: siete voi che siete venuti nel mio Paese in Somalia, a farci colonia».

E oggi?

«Oggi ci sono più persone che approfondiscono: si parla di più di antirazzismo, antiabilismo, femminismo. Sono persone che studiano e si documentano. Dall’altro lato però vedo che non ci si vergogna più di essere definiti razzisti, anzi, ci sono molti che si sentono orgogliosi di dire: "questi non li voglio qui nel mio Paese". Sono persone che hanno paura di affrontare questi temi perché non hanno gli strumenti per capire e superare i pregiudizi.

E i bambini?

I bambini sono più curiosi che paurosi. I miei studenti sono più preoccupati perché io non posso accompagnarli in gita o al campo scuola visto che non ci sono strutture accessibili. Quando tornano hanno pudore a dirmi che si sono divertiti, perché sono tristi per me. Purtroppo, le scuole non sono organizzate per gli insegnanti disabili. Ma loro i bambini mi vedono come persona, mi disegnano con la mia carrozzina blu piena di stickers, per loro è normale».

Lei, avendo vissuto tra due culture, porta in classe qualcosa di diverso o anche di più di altri suoi colleghi?

«Credo di sì. Per esempio, oltre ai nostri autori classici faccio conoscere  sempre poeti e poetesse di lingua inglese non solo europee. Ho fatto con i bambini lavori sulla poesia afroamericana, o su Mahmud Darwish con la poesia “Pensa agli altri”; mi piace molto Nicky Giovanni, una poetessa e attivista americana che è appena scomparsa. Un altro progetto che i bambini hanno amato molto è quello sulla poesia “Homesick blues” di Langston Hughues: l’abbiamo ascoltata letta da lui, abbiamo provato a tradurla, ci abbiamo messo la musica, il blues. Bellissimo… Ma faccio anche Ungaretti».

Chi le ha dato una mano nei momenti di difficoltà?

«Ricordo due insegnanti. Adriana è stata la mia maestra a Roma: diceva alla mia mamma che non dovevo stare lì nell’istituto, perché ero super, capace e sensibile. Ma io avevo bisogno di cure, della fisioterapia e non c’era alternativa. E’ stata la prima a credere in me e a farmelo capire. Poi ricordo con affetto la prima collega che mi ha accolta e sostenuta, Carmela Crea. Temevo di non essere in grado di entrare in comunicazione con i bambini. Poi ho capito che, se io non avevo paura, loro mi avrebbero visto soltanto come colei che ama il proprio lavoro e ama trasmettere curiosità e amore per il sapere.

E ora come si trova in classe?

«In classe sto bene, è il mio luogo sicuro e spero sempre lo sia anche per i miei studenti ma siamo molto soli: se hai un gruppo non omogeneo di studenti formato da italiani, neoarrivati, seconde generazioni devi diversificare anche le attività, dividendo gli studenti in gruppi. Bisognerebbe potenziare l’insegnamento dell’italiano L2, non in orario extrascolastico, ma dentro la scuola, per dare a tutti la possibilità di lavorare insieme anche facendo cose diverse. Trovo poi che si tenda a non dare importanza all’acquisizione degli strumenti culturali, alla capacità di pensare criticamente. Ci chiedono concentrarci sul fatto che lo studente deve essere inserito nel mondo del lavoro: ma questo viene dopo, prima bisogna imparare a imparare e poi è possibile scegliere la propria strada».

E le sue colleghe, lei come le vede?

«Ci sono tantissime insegnanti sensibili alla diversità culturale: cercano di conoscere le realtà che hanno in classe, di capire la cultura e la religione. I testi sui quali formarsi ci sono, ma in generale in Italia prevale la paura della diversità: è più facile chiedere ai bambini di omologarsi e assimilare la nostra cultura. Ma lo studio della storia e della cultura è già previsto: la questione è come aprirsi anche noi agli altri, alle alterità che abitano le nostre aule».

E come si fa?

«Per cominciare dobbiamo saper pronunciare bene i nomi dei nostri alunni: saper dire bene Mohamed o Jasmine è un primo passo per creare incontro, chiedere al mio alunno che lingua si parla a casa, che cibo si mangia, quali sono le feste. Creare dei momenti in cui festeggiare anche le feste degli altri: lei ha mai sentito parlare della festa della primavera in Romania, per esempio? Da qui parte l’integrazione o meglio “l'accoglienza nelle differenze”, dal riconoscere i nostri alunni per aprire un dialogo. Siamo noi adulti, noi insegnanti, che dobbiamo aiutarli: se non siamo pronti noi, come possono essere pronti loro a vivere serenamente?»

Se potesse, che cosa cambierebbe nella scuola?

“Semplificherei. Ci sono troppi progetti che non portano a nulla, toglierei i soldi a quei progetti e li userei per far funzionare bene la scuola, per gli arredi e per la sicurezza”.


P.s

mentre leggendo  i  commenti   a  tale  notizia   non ho  saputo  controllarmi     ed  ho   risposto  a    questo  commentoi   idiota    e  fuorviante

Franz Pier11m  
Ma potrebbe andare in africa la c e tanto bisogno di insegnanti, invece di stare qui a dire stupidaggini.
@Franz Pier perchè invece non ci vai tu in africa . coi capisci perchè si fugge e si corrono rischi per venire qui e poi ne riparliamo . scusa dove sarebberoi le stupidaggini che dice , elencale grazie


allenate i vostri occhi e guardatevi intorno e cosa fare se vi prendono a calci puntata del Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco

 scusate  lo  screenshot    ma  oggi non  ho ne  tempo ne  voglia  d'estrapolarlo dal  pdf    .  Eccovi le  puntate  precedenti 


Mentre    mi accingevo a prendere   il tasto puybblica  mi è  arrivata  l'ennessima   email    (      potete  scrivermi  a redbeppe@gmail.com   se  avete     segnalazioni ,   retifiche  , richieste  , ecc    )  in  Visto  che m'accusa da  più parti   d'essere  : fazioso quando dico che   le attuali leggi sui femminicidi  non funzionano  e  soo come le classiche   grida  manzoniane   ., sovversivo e  filo  gender perchè oltre  alla classica  educazione sentimentale  e sessuale   con aperture   al mondo   Lgbtq+  come   è  stato  fatto   dall'università  di Sassari  e  ora   a  Cagliari    nonostante  i tentativi  di bloccarlo  da parte  della  Lega  e  company  riporto   questa  risposta  del  super poliziotto michele  giuttari




diario di bordo n 93 anno II Chi ha pagato il salvataggio della speleologa Ottavia Piana? Le risposte agli hater in una conferenza stampa., È in coma in ospedale ma si ritrova iscritto al Pd. La rabbia della moglie: «Ci siamo sentiti usati» .,

Nei  giorni  scorsi  la solita orda di analfabeti e odiatori vari in particolare   feltri  sta dando vita a una vera e propria gogna nei confronti di Ottavia Piana, la speleologa intrappolata e salvata in una grotta mentre faceva il suo mestiere.E puntuali, come ogni volta in questi casi, sono arrivati i commenti da bar.
“Ma chi paga per i soccorsi?” “Chi gliel’ha chiesto di tornare lì?” “Se l’è cercata!” E via di tutto il repertorio di ignoranza, sessismo e antiscienza vomitato dalle proprie tastiere.
Quello che i poverini non sanno è che:Ottavia Piana non era lì per un suo capriccio ma in missione per la Società speleologica italiana.Gli speleologi sono assicurati “da quando escono dalla macchina per andare verso la grotta fino a quando ripartono per tornare a casa”.Ovvero: non avete sganciato un singolo euro per salvarla.E, anche se l’avessimo fatto, sarei stato felice di contribuire a portare in salvo una scienziata e, prima ancora, un essere umano in difficoltà.
Non solo è una follia disumana criticarla, ma dovremmo essere grati a questa donna che ha rischiato la vita per il progresso e per il Paese.
E che, grazie alla sua resistenza e la tenacia dei soccorritori, è viva, sana e salva.
Accanto alla «legge del mare», l’assessore Alessandro Bigoni ne cita una seconda: «Ne esiste un’altra, altrettanto importante: la legge della montagna. Non si lascia indietro nessuno. E lo abbiamo dimostrato». Ottavia Piana è stata portata in salvo da poche ore, dopo quasi quattro giorni bloccata sottoterra nella grotta Bueno Fonteno. E la conferenza stampa organizzata al campo base diventa anche l’occasione per rispondere a tutti coloro che, in questo lasso di tempo, hanno criticato l’attività della speleologa, mettendone in dubbio le capacità e la preparazione.
Critiche anche sugli eventuali costi legati all’operazione di soccorso della 32enne bresciana: «Il Corpo nazionale del Soccorso alpino e speleologico riceve finanziamenti annui dalle Regioni e dallo Stato che garantiscono la formazione, l’acquisto di automezzi e materiali tecnici, ma pure di affrontare le spese dei soccorsi», puntualizza il vicepresidente nazionale Mauro Guiducci. Per sgomberare il campo da pregiudizi, Guiducci fa un’ulteriore precisazione: «Ci sono altri interventi che passano totalmente inosservati. Ma che sempre per una singola persona dispersa in montagna, un escursionista, un cacciatore, un fungaiolo, richiedono ore e ore di volo di elicotteri. Vi garantisco che un intervento del genere ha costi enormemente più elevati di questo». La conclusione non può che essere che «non è corretto criticare persone che svolgono attività di carattere scientifico», evidenzia Guiducci. Tutto ciò che è stato scritto sui social contro la loro figlia è anche la ragione per cui i genitori di Ottavia, per il momento, scelgono di restare in silenzio: «Preferiamo mantenere una certa riservatezza», dice la madre Lucia raggiunta nella casa di Adro




Video correlato: Ottavia Piana salvata dopo 75 ore, il momento in cui la speleologa viene portata fuori dalla grotta in barella (Leggo)


Sui presunti costi interviene pure il presidente della Società speleologica italiana Sergio Orsini: «Non paga assolutamente il cittadino perché tutti gli speleologi sono assicurati». Sempre Orsini chiarisce che la speleologa e il suo gruppo stavano ricostruendo il percorso sotterraneo dell’acqua: «È importante — precisa — anche per capire se subisce inquinamenti».«Si può essere speleologi per spirito d’avventura e per altri mille motivi — riprende Guiducci —. Ma la speleologia è prima di tutto ricerca e studio». E cita esempi concreti: «In una grotta è possibile osservare l’andamento di una faglia, studiare il modo in cui si è formata migliaia di anni fa. All’aperto tutto questo non è possibile, perché la superficie è alterata dagli agenti atmosferici».
A cosa giova tutto questo? «Ci può dare molte informazioni anche a livello antisismico». Le analisi degli speleologi (Ottavia Piana e altri otto suoi compagni d’esplorazione sabato avevano iniziato a mappare un chilometro di galleria fino a quel momento ignota) possono fornire indicazioni utili anche a prevedere gli effetti della siccità: «In alcune grotte il livello dell’acqua può variare di decine di metri — conclude Guiducci —. Conoscere le falde, il percorso dell’acqua nelle montagne, come si modificano i bacini durante le stagioni è interessante per chi deve gestire la distribuzione dell’acqua pubblica».


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È in coma in ospedale ma si ritrova iscritto al Pd. La rabbia della moglie: «Ci siamo sentiti usati»



Tesserato Pd a sua insaputa: capita tra i democratici irpini e non è la prima volta. A novembre del 2021, il Pd guidato da Enrico Letta aveva deciso di sospendere oltre 2.500 richieste di tesseramento, dopo aver riscontrato «una serie di anomalie nel tesseramento della Federazione di Avellino sulla piattaforma online del Partito Democratico». Stavolta, però, la storia è ancora più triste, perché ad essere iscritto senza che ne sapesse nulla è un uomo che è rimasto ricoverato per lungo tempo in ospedale, Giovanni Mista. A denunciare il fatto è la moglie, Cristina Gabriella Monteanu, residente nel comune di San Martino Valle Caudina, in provincia di Avellino.
«Mio marito - racconta - non ha potuto firmare la tessera Pd, perché nella fase del tesseramento era ricoverato in ospedale. È stato ben due mesi in coma per un attacco celebrale, poi trasferito in una clinica riabilitativa. Non so chi ha firmato e pagato la quota della tessera, ma qualcuno a nostra insaputa,
per proprio tornaconto politico, ha utilizzato i suoi dati per sottoscrivere la tessera. Appresa la notizia per caso, ho voluto delle spiegazioni, perché mi sembrava il minimo in una situazione così paradossale. Ho chiesto delucidazioni al segretario del circolo Pd, che dopo avermi confermato che mio marito era tesserato, mi ha detto prima che il nome era stato fatto dal sindaco, salvo poi ritrattare dopo pochi minuti sostenendo che i nomi erano stati prelevati dalle liste degli anni precedenti, seppur senza alcuna espressione di volontà o adesione. Quando ho insistito per capire chi avesse avesse deciso di inserire il nome di mio marito, mi è stato chiesto chiudere in modo amichevole la vicenda con una telefonata di scuse per quanto avvenuto. Ma io non so che farmene delle scuse, perché sono entrati nella mia sfera privata».
Una vicenda che provoca ancora più amarezza per il momento difficile che vive la sua famiglia. «Ci siamo sentiti usati. Loro  pensavano- aggiunge Cristina Gabriella - di essere tranquilli perché 
mio marito non poteva chiedere spiegazioni. Ritenevano di avere la strada libera perché sono straniera e perché pensavano che non mi sarei interessata della vicenda. Ma non è assolutamente così. Ho chiesto chiarezza per difendere la libertà di espressione di mio marito, ma ancora oggi i chiarimenti non sono arrivati». Oltre a Giovanni, però, ci sarebbero anche altre persone ignare di essere intestatarie di una tessera del Pd. «Quello di mio marito non è un caso isolato. Anche una mia amica è stata iscritta assieme ai suoi due fratelli, a sua insaputa. E non solo. Credo che ormai siamo alla frutta, perché per interesse politico non ci si ferma nemmeno di fronte alle difficoltà gravi di una famiglia. Nel nostro caso è già la seconda volta. Lo volevano far assumere come operaio interinale, mentre lui era in coma, forse per lavarsi la coscienza».


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Storia di Masetti, l'eroe dei due mondi che andò in bici da Milano a Chicago per il «Corriere»: «Datemi 500 lire o asciugatemi il mare»


Per la Milano delle ciclabili, della mobilità a due ruote, della città a pedali prossima ventura sognata dal sindaco Beppe Sala, il papà della bicicletta non esiste. Nessun Ambrogino alla memoria, nessuna via, giardino o, meglio ancora, ciclabile dedicata all’eroe dei due mondi su due ruote, nessun posto d’onore nella cripta del Famedio, niente di niente, se non la tomba al Cimitero Maggiore, reparto 26 zoccolatura, numero manufatto 0487, anonimo tra gli anonimi. Luigi Masetti, 160 anni oggi, 18 dicembre, non ha mai trovato il posto che merita nella città dove ha vissuto.
Scriveva il giornale «Il Ciclo» nell’anno di grazia 1893: «Se Masetti fosse stato francese sarebbe stato portato sugli scudi, se fosse stato americano si sarebbe fatto una sostanza, ma è italiano, non è quindi da stupirsi, se fuor che da pochi, il suo viaggio ardito è calcolato un nonnulla». Più di un secolo dopo nulla è cambiato. Eppure Luigi Masetti ha tutto per piacere ai contemporanei: era globale quando le frontiere erano muri, era social quando il mondo non aveva neanche la radio, era eco friendly cent’anni prima dei Fridays for Future, con la sua bicicletta Eolo, tutta verniciata di bianco e con il manubrio all’ingiù. 
Nessuno come lui ha anticipato i tempi anche se sembra uscito dai libri di Jules Verne e Robert Louis Stevenson. Il navigatore universale del padre del cicloturismo italiano era una cartina geografica strappata da un atlante scolastico: con quello, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, percorre più di centomila chilometri attraverso tre continenti: dall’Africa a Capo Nord, dalla Russia al Bosforo, da Milano a Chicago, non c’è strada e avventura a cui sappia dire no. Parte da Aosta per arrivare in Egitto lungo la rotta della campagna di Napoleone fino alla Piramide di Cheope; raggiunge il Marocco per poi invertire la bicicletta e dirigerla verso la Norvegia, direzione Capo Nord; da Mosca, dove si merita l’amicizia e l’ammirazione di Lev Tolstoj, uno dei giganti della letteratura del Novecento, punta verso Costantinopoli, in Turchia. Senza più freni scrive al Corriere della Sera: «Voglio andare in bicicletta da Milano a Chicago: datemi 500 lire o asciugatemi il mare». 
Il direttore Eugenio Torelli Viollier gli risponde: «Ci piacciono le imprese condite d’audacia e di bizzarria. Accettiamo». A un patto però: che racconti l’America vista dalla sella di una bici. Il 15 luglio del 1893 parte dall’Arco della Pace, 7000 chilometri di percorso, 930 lire di spesa. Quando torna, il 19 novembre, «i curiosi uscivano dalle case dalle botteghe e si affacciavano alle finestre per vedere il reduce del lungo viaggio. La folla andò man mano ingrossandosi lungo il popoloso Corso Magenta e più sul Corso Dante e in piazza del Duomo. Quando entrò in galleria echeggiarono applausi ed evviva». Il Corriere della Sera lo ribattezza «il Napoleone delle due ruote», il suo diario di bordo è un successone, come un blog di viaggio che esce ogni lunedì sul Corriere: da Filadelfia a New York, da Cleveland a Washington, da Pittsburgh a Buffalo. Viene ricevuto alla Casa Bianca dal presidente degli Stati Uniti Grover Cleveland «un uomo sulla sessantina - lo descrive nelle sue corrispondenze -, piuttosto panciuto, di statura alta, dal viso aperto e molto affabile», all’Expo di Chicago viene accolto come un eroe che arriva dal futuro. E forse era così. 
Abitava in via Cesare da Sesto 11, a Porta Genova, con le due sorelle, in un appartamentino che, raccontano le cronache dell’epoca è «un vero museo storico-geografico-etnografico colli oggetti e col nome della località di origine» e per raggiungere il quale bisognava fare ottanta scalini a piedi. Milano, che fu per lui, polesano di nascita, città di adozione e di vita, è in quel momento una città dove sferragliavano i tram, tra carrozze, carretti ingombranti e le prime automobili «quelle automobili - che sentenziava profetico - divoreranno gli spazi che io mi precorro pedalando senza fine e senza sosta». 
Il viaggio del cicloturismo è partito da lì e da lui, per arrivare ai numeri rivelati dall’ultimo rapporto Isnart e Legambiente sul cicloturismo in Italia: 56,8 milioni di presenze nel 2023 con un impatto economico diretto di più di 5,5 miliardi di euro, in crescita del 35% sul 2022. Peccato solo che nella Milano delle 330mila biciclette e dei 312 chilometri di corsie ciclabili, papà Masetti «fuor che da pochi, è calcolato un nonnulla».

19.12.24

anche il fast foud nation colonizza la sardegna L’isola fa gola alle grandi catene del fast food Crescono in modo esponenziale in Sardegna le aperture delle multinazionali dei ristoranti

 non  sono  contro i   fast  food  o  cibo   spazzatura   in quanto  da   piccolo  ( i  sono cresciuto negli 80 \90 influenzato dalla  moda dei  paninatri  e dalla cultura    drive  in   e  ella  scarsa  conoscenza   alimentare  ) 

 e  ora   , anche  se  quasi zero  per  motivi  di salute   e  perchè educato    \  fornmato   sia dai  miei  genitori  e  amici  vegetariani   \  vegani    e dai film : 

ma Soprattutto     Fast Food Nation è un film del 2006 diretto da Richard Linklater, ispirato all'omonimo best seller di Eric Schlosser  qui altri  film   per  chi volesse  approfondire  l'argomento  cibo ed  i suoi  effetti   https://www.greenme.it/lifestyle/arte-e-cultura/film-documentari-cibo/

Ora    dopo  qiesta  premesa  veniamo  al  post      vero e  proprio

la  nuova  sardegna  18\12\2024 


Attecchiscono sempre più McDonald's, Burger King e Old Wild West  Inauguratia Sassari Roadhouse e BillvTacos ea breve Doppio Malto e Kfc . 


» di LuigiSoriga

Sassari Nelle tavolesi disegna una mappa planetaria, e in Sardegna la si legge sempre più spesso nei menù.
Molti meno malloreddus,molti più hamburgere patatine fritte. È la geografia gastronomica delle grandi catene: McDonald's, Burger King, KFC, OldWild West che stanno colonizzandol''isola a colpi di inaugurazioni, tagli di  nastro e pubblicità. sempre  più pervasive.
ASassari, il prossimo 20dicembre aprirà Doppio Malto, che a detta loro non è un pub, ma un'esperienza. Lo  inaugureranno il 20 dicembre, giusto in tempo per l’aperitivo prenatalizio. Troverà casa a Predda Niedda,.il cuore pulsante del commercio sassarese, là dove un tempo si andava all’Auchan, 0g giribattezzato Portedi Sassari. Il pub birreria artigianale  è ormai una catena che fa capo al businessman nuorese  Giovanni Porcu e che in Sardegna ha già radici ad Alghero, Cagliari, Villasimius, O1bia, San Teodoro. Doppio  Malto a Sassari si aggiunge a una lista di presenze ormai  familiari: MeDonald's, Bur-
ger King, Old Wild West. E  non è finita. All’orizzonte c'è un Kentucky Fried Chicken (pergli amici KFC) nella “ corte del cibo Taneat", con il suo pollo fritto che profuma di Kentucky ma arriverà via
container. E poi Roadhouse  e Billy Tacos in viale Porto Torres.
Sassari però nonè sola. OLbia si muove sulla stessa lunghezza d'onda. Qui, tra le rotatorie di viale Aldo Moro, si  prepara al debutto il primo Burger King cittadino, a due  passi da un McDonald's già affermato. È una specie di guerra fredda tra colossi, fatta di panini, bibite e strategie di marketing.
A Cagliari i grandi marchi  hanno già consolidato le loro posizioni con un'offerta  sempre più ricca, pensata per i turisti, ma che finisce persedurre anche i sardi. Perché sì, anche il sardo medio  tra una cena in agriturismo e un pranzo a base di pecora bollita cede al fascino di un cheeseburger. Sarà la veloci»
tà, sarà il prezzo, sarà che il mondo cambia e cambiano anche i gusti. Sarà anche che la fame non va mai in crisi. non solo quella di cibo. Quella di riconoscersi in qualcosa di globale, di uguale, di facile. Perehé entrare in un McDonald's di Sassari o di Tokyo è lo stesso. Ordini, ti siedi, mangi. Tutto senza sor-
prese. Una promessa mantenuta, sempre.E questa crescente domanda di format di ristorazione
moderna sta ridisegnando il panorama del food sull'isola, con importanti implicazioni economiche, culturali e sociali. L'interesse dei sardi verso esperienze di consumo piùveloci, ma con un'of-
ferta ampia e diversificata,ha reso il mercato più appetibile alle catene multinazionali. Anche la fascia giovane della popolazione, spesso influenzata da tendenze globali, gioca un ruolo cruciale.Insomma, dietro questa espansione ci sono opportunità e contraddizioni. Da un lato, i nuovi fast food portano lavoro. Contratti part-time, turni serali, ma comunque lavoro e finalmente non in nero. Poi portano movimento nelle aree commerciali e un tocco di modernità e  globalizzazione in un'isola
che non sempre sta al  passo, e resta qualche puntata indietro. Ma in questo quadro  ipercompetitivo c'è un nodo difficile da sciogliere: cosa succede alla ristorazione locale? Ai piccoli bar, alle tratto-
rie a gestione familiare, ai ristoranti dove îl menù talvolta è scritto a mano e il cuoco è anche il proprietario? A  una cultura gastronomica fagocitata da un modello standardizzato, uguale in tutto il
mondo. Succede che i pesci più piccoli devono alzare l'asticella. O reinventarsi..0 specializzarsi. O chiudere; La lotta perla sopravvivenza è feroce, e le armi in campo sono impari: da una parte
i colossi con budget milionari e campagne pubblicitarie studiate a.tavolino; dall’altra, chi si affida al passaparola e alla fedeltà dei clienti. Il rischio.da scongiurare è che i  sapori autentici, quelli che
ha rccontano storie e territori,vengano troppo spesso soffocati dal rumore delle friggitrici  .
ci.

Infatti  concordo    con Ardau(Uiltucs):  che     sempre   sullla  nuova   sardegna   «Colonizzazione del gusto  In Sardegna è difficile brandizzare inostri piatti» «Le multinazionali non trovano argini»

Sassari
 La Sardegna diventa la nuova frontiera delle  grandi catene alimentari.«Tutti aprono tutto—dice Cristiano Ardau, segretario.regionale della Uiltucs — spero  che ci siano dietro almeno delle approfondite indagini di mercato».
Di sicuro c'è che il sardo difficilmente' rinuncia al gusto di sedersi a tavola: «Lo abbiamo.visto durante il lockdown:la gente soffriva perl'astinenza da aperitivo. E quando lavita si è di nuovo normalizzata, tutti hanno ripreso con le buone vecchie abitudini di andare a mangiare fuori. Si può rinunciare a un capo di
abbigliamento o si lesina sulla cultura: ma al piacere della tavola, a quello no».
«La piccola ristorazione deve specializzarsi se vuole sopravvivere Il menu  da trattoria non può più reggere»  La globalizzazione però porta con sé nuove abitudini:«Prima c’era il bar e la trattoria, adesso c'è una   varietà di servizi molto più ampia, adatta per qualunque gusto.
Il palato italiano si è evoluto con la tv, e con gli chef protagonistî dello schermo a tutte  le ore. Il cliente è cento volte  più esigente e curioso: addio al. menù completo, fatto di primo, secondo, contorno e
dolce. Chi non si specializza in cucina è destinato a morire, il menù ingessato da 20 anni non può più reggere. Il fast  food a basso costo ha sempre un appeal di massa, ma funzionano anché le offerte più
di nicchia, come il biologico, i piatti esotici, lafascia dietetica, la filiera corta, le contaminazioni gastronomiche, i prodotti genuini, Basta vedere  quanti corsi per sommelier sono spuntati, 0 per prepara-
reil pane fatto in casa, 0 i corsi di cucina, Insomma, il picolo ristoratore che non si
specializza, rischia di soccombere davanti all'avanzare delle grandi catene del food globalizzato. La prossima frontiera sarà quella dei locali a tema, che in altre città hanno trovato terreno molto fertile. Mi riferisco ad arredamento Western, o marinaresco, oppure cartoni animatio super eroi, e basta googo-
lare un po' pervedere quali alternative   ci sono giro  .C'è  Anche che l'isola non è in grado di innalzare sufficienti argini alla colonizzazione alimentare. «La Sardegna ha difficoltà a brandizzare îl proprio cibo. È molto facile mangiare un hamburger  o una bistecca di angus argentino, perché il bue rosso del Montiferru, giusto per fare un esempio, non si affaccia allo stesso modo nei menù e nelle tavole. Non c'è uno street food sardo così concorrenziale, egli agriturismi non  hanno la forza per contrastare questa invasione. barbarica dell'enogasronomia».
E soprattutto i menù di Burger King o Mc Donald's ormai furbescamente strizzano l'occhio alle tradizioni e alla genuinità, con panini griffati Bastianich, o ingredienti tipici presi in prestito dalla
produzion elocale. E poi Deliveroo come estensione mobile delle grandi catene, che porta a domicilio ogni piatto. Sul fronte contrattuale, invece, ci sono due facce della  medaglia: «Contratti part ti-
me da 700-900 euro, cioè circa 6euro all'ora, con turni pesanti(e non.ci sono feste che tengano, Molta precarietà all'inizio, con stabilizzazioni  dopo alcuni mesi. Però,dall'altro lato, il nero è pressoché assente, con assunzioni regolari. Il nero, purtroppo, continua a proliferare nella ristorazione più piccola».









Imprenditrice di giorno, escort di sera la doppia vita della cortigiana Chiara Martini Di base a Olbia con un'attività in Costa Smeralda, 38 anni:«Voglio evadere dallaroutine»



Sassari
«Scusa ma sono di fretta. Oggi parto per una se- riedi impegnidi lavoro e sono inritardo, fra due ore devo imbarcarmi e non ho ancora fatto le valigie». Chiara Martini, 88enne, sarda che vive a Ol- bia, non ha molto tempo libero da quando è uscito “Confessioni di una cortigiana”, ìl suo libro. Perché Chiara, che non è il suo vero nome, è la protagonista di.un racconto autobiografico .scritto per mettere nero su bianco le sue confessioni. Lei si definisce “cortigiana” in un tempo in cui si sente parlare di escort, onlyfanser e content creator? «In realtà mi definisco una cortigiana del nuovo millennio, che è quello che sono. Le escort, per quanto professionali, offrono un servizio breve in un lasso di tempo altrettan to
breve e perun target di persone medio. Anzi, popolare.
Lo dico senza offendere nessuno. lo offro compagnia a 360 gradi, fisica ed erotica, ma soprattutto întellettuale e cul- turale, che possa stimolare anche il cervello». Gi può fare un esempio?
 « Per me è importante condividere una conoscenza enologica, culinaria e culturale, Ecco, quando il mio ospite lo desidera, scelgo un menù raf- finato, con uno costo aggiuntivo, e lo consumiamo all'inter- no degli incontri dopo che è stato preparato da uno chef».
 Ospite? «Sì, chiamo così le persone che scelgo di incontrare». Cosa racconta nel suo li- bro? «Ho scritto i motivi e le moti- vazioni che mi hanno spinta Verso questa direzione, che poi fanno parte dei tanti aspet- ti che caratterizzano la mia personalità. Durante la pandemia avevo ben poco dafare e ho deciso di dedicarmi a qualcosa di stimolante che normalmente non avrei avu- to il tempo di completare. Ma soprattutto l'ho fatto perché mi interessava potermi mette- re.a nudo di fronte al pubbli- co. in modo da spiegare la mia scelta Perché alla fine è di questo chesi tratta, una scelta. «Proprio così, non lo faccio solo per avere un tornaconto economico o per risolvere le difficoltà. lo ho la mia vità, sono un'imprenditrice equesto nonè il mio lavoro principale. Ho un'attività ben avviata in Costa Smeralda, essere una cortigiana èsolo un modo per evadere». Quindi l'aspetto economi- co non conta? «Diciamo che è diventato un fattore, nonlo nego». Anche perché lei mette su- bito in chiaro le cose, a parti- re proprio dall'aspetto economico dei suoi incontri. «Fissare unacifra proibitiva per i più è la prima selezione per chi decide dî volermi in- contrare. Non tutti possono permettersi di spendere 600 euro per un incontro di un’ora, 700 per un'ora e mezza e 800 per due ore fino a 10mila per 48 ore». Lei dice di essere un’im- prenditrice, quindi a un certo punto ha deciso di cambiare vita? «No, non ho mai cambîato vita ho avuto ed ho una vita regolare, sono laureata in Scienze della comunicazione, ho un percorso di studi in ambito imprenditoriale e di marketing ad alti livelli. La verità è che sin da quando.ero ragazzina sognavo di vivere una vita alternativa. Volevo provare quello che fantasticavo,in compagnia dî uomini interessanti, di cultura, con esperienza mentale e fisica. Ho sempre avuto voglia di condividere l'intimità con quelli chedefinisco “gentiluomini"»; Però. queste “evasioni” comportano anche rischi. Si è mai sentita in pericolo? «Per fortuna non ho mai avuto paura. Nella maggioranza dei casi mi sono trovata molto bene, sempre con

persone  serie». È stata fortunata? «Non è questo. Grazie alla mia formazione sono in grado di capire chi sto incontran- do dopo pochi messaggi, perché inizia tutto su Whatsapp. È allora che io capisco se una persona è ansiosa o arrogan- te, se vuole comandare 0 pre- varicare. Riesco a capire la formazione, l'intelligenza emotiva.... E quando non riscontro queste qualità, blocco il con- tatto. Perché comunque è capitato di parlare al telefono con persone bizzarre», Le è mai capitato che un ospite si innamorasse di lei? «In realtà succede abba- stanza spesso. Ci sono perso- nechestinvaghiscono ma dopo un tot di tempo si rendono conto di dover mettere dei freni, capiscono da soli che non è il caso di continuare. Nel 99 percento dei casi si risolve così,sennò mi allontano io». Anche perché lei ha un compagno. «Sì, è vero. Siamo persone mentalmente libere e aperte e, lo dico subito, non siamo strani. Entrambi comprendiamo che non si debba rinunciare a vivere esperienze di questo tipo solo peri blocchi men- tali». Come avete vissuto questa esposizione pubblica? Dopo l'uscita del libro è  stata  contatta anche da giornali  brasiliabni . «Ma non parlo il portoghese (ride, ndr). La verità è che la mia esposizione pubblica lo ha rincuorato. Lui sa quanto io.sia selettiva e non si preoccupa. Quello che non mi va,lo scarto. Preferisco perdere un'occasione che rischiare qualcosa». Ritornando al suolibro, cosa c'è di vero în quello che racconta? «Tutto. Dico che la autobiografia è romanzata perché tutelo la mia privacy e quella dei miei ospiti. A viso scoperto non lo avrei mai potuto raccontare a nessuno». Quanto è importantela privacy «È fondamentale. Anche nel mio sito mostro solo par- zialmente il viso e poco altro. Pubblicare le mie foto sul web senza accorgimenti»sarebbe controproducente per il mio lavoro, quello vero. Poi la mia famiglia non conosce questo lato della mia vita e non vo- glio che lo scopra perché quello:che per me è solo un modo per evadere, per loro potrebbe essere divisivo. Inoltre desi- dero rimanere anonima, altri- menti sarebbe come essere una pornostar e portarsi appresso un'etichetta».

Paradosso della tolleranza: il caso Tony Effe e la libertà di espressione le reazioni mediatiche dei colleghi

Rileggendo   l'articolo della lucarelli  sul  FQ  del    18\12\2024   da me  citato nel post precedente  per  chi  non avesse  voglia  di andare    a  rileggerselo o    di andare  a cercarselo  ecco  che lo  trova  sotto al  centro .
 Mi accorgo    che   C’è una cosa che proprio non riesco a togliermi dalla mente in queste ore.
Quando, a febbraio, Ghali e Dargen D’Amico erano stati pubblicamente liquidati, sbeffeggiati, persino “smentiti” pubblicamente da un terrificante comunicato stile Minculpop fatto leggere in diretta a Mara Venier su Telemeloni, non ricordo la fila di artisti pronti ad alzarsi in piedi per difendere due colleghi a cui era stato, di fatto, negato il diritto di esprimere un proprio punto di vista sul Servizio Pubblico



Forse parlare di genocidio o raccontare i veri numeri sui migranti non sono argomenti abbastanza comodi per prendere una posizione. 
Forse semplicemente non si sta difendendo la libertà di un “artista” di cantare canzoni di una violenza sessista ignobile da una (inesistente) censura, ma interessi di altra natura.
Ognuno ha il diritto di fare le battaglie che vuole, vere   o  false  , piccole  o  grandoi  ,  ma mi sarebbe piaciuto vedere un centesimo di quello spirito battagliero per Ghali e Dargen, per cause degne di questo nome.
IL   fatto  come giustamente fa  notare  nella  discussione    su  tale argomenti     da      cui    ho preso la  foto     e  parte  dello  scritto    sulla   bacheca  doi Lorenzo  tosa 

Solleva una riflessione importante sul modo in cui la libertà di espressione viene difesa (o meno) in contesti diversi, e su quali battaglie attirano solidarietà collettiva e quali no.
Bisogna ribadire che la coerenza è fondamentale quando si parla di diritti, libertà e giustizia. Se difendiamo la libertà di un artista o di un individuo in un caso, dobbiamo essere altrettanto pronti a farlo quando si tratta di temi più scomodi o di persone meno popolari. Il silenzio selettivo, soprattutto nel mondo dello spettacolo e della cultura, rischia di trasformarsi in complicità con un sistema che limita il dissenso e premia chi si allinea.
La questione di Ghali e Dargen D’Amico è emblematica: due artisti che hanno sollevato temi cruciali, come il genocidio o i numeri sui migranti, sono stati liquidati in modo autoritario senza che ci fosse una mobilitazione significativa in loro difesa. Questo dimostra quanto sia facile ignorare battaglie che non offrono un ritorno immediato in termini di visibilità o consenso.
La libertà di espressione non può essere una causa “a intermittenza”. Difenderla significa farlo sempre, anche quando richiede coraggio o va controcorrente. È giusto chiedersi: dove sono gli artisti, gli intellettuali e il pubblico quando si tratta di sostenere cause realmente significative?
cosi    pur e l'interessante  discussione    che  n'è  nata  

Soumaila Diawara peraltro anche il paragone tra i due casi mi sembra assurdo. Difendere la libertà di espressione non significa accettare testi violenti e sessisti. Non si tratta di censura in questo caso ma di una scelta giusta: non dare spazio e risonanza a canzoni intrise di violenza e sessismo con soldi pubblici.

Fabio Marino
Trent’anni fa si facevano gli stessi identici discorsi per Doom e GTA, due dei videogiochi più venduti della storia. Nello stesso periodo, comitati e associazioni di tutto il mondo si scagliavano contro Eminem, Snoop Dogg e altri rapper per i contenuti violenti e misogini dei testi delle loro canzoni. A distanza di trent’anni, chi ha giocato a GTA non è diventato un serial killer, Eminem e Snoop hanno fatturato miliardi e continuano a cantare quelle che vogliono, e la gente continua a indignarsi parlando di “decoro”.
Il messaggio che ne  scaturisce   solleva un tema cruciale: il ruolo della cultura e dell’arte nella diffusione di valori, soprattutto tra i giovani. È innegabile che testi come     testi riportati   dall'articolo  della  famosa  blogger   (  vedi   inizio post   )   trasmettano un’immagine distorta e dannosa dei rapporti interpersonali, in particolare per quanto riguarda la violenza contro le donne.
La musica, come ogni forma d’arte, ha un enorme potere di influenzare comportamenti e mentalità. Quando un artista sceglie di esprimersi con parole che normalizzano o addirittura glorificano la violenza, contribuisce a perpetuare una cultura tossica. Questo è particolarmente pericoloso quando si tratta di personaggi pubblici con una grande visibilità, soprattutto in contesti istituzionali o popolari come il Capodanno di Roma o il Festival di Sanremo, dove il pubblico comprende anche giovani e giovanissimi.
Sostenere che tali contenuti non debbano trovare spazio in eventi pubblici non significa censurare l’arte, ma promuovere una responsabilità sociale. Gli artisti e gli organizzatori di eventi hanno il dovere di riflettere sull’impatto delle loro scelte, soprattutto in un momento storico in cui la lotta contro la violenza di genere richiede un impegno collettivo e deciso.
È importante continuare a sensibilizzare su questi temi, chiedendo che vengano promossi esempi positivi e che si dia voce a messaggi che incoraggino il rispetto, l’uguaglianza e la dignità di ogni persona 

Ecco  quindi che    i media  stanno facendo passare sto Tony Effe come un paladino di non si sa bene cosa! Gli stessi artisti ( e artiste  🙄😥😢) che alzano la voce sui diritti delle donne...  si schierano     a suo  favore  -A me sembra come   ho  detto nel  post  precedente   una    "  censura   "  \  veto      ridicolo  cioè  l' ennesima buffonata all' italiana dove l'errore più grande lo ha commesso il comune di Roma a chiamare sto tizio perché #portaggente
Infatti secondo

 Tony Effe non parteciperà al concerto di Capodanno a Roma. E la ragione è semplicissima: perché il sindaco di Roma Gualtieri ha deciso di non volerlo su un palco promosso, organizzato e patrocinato dal Comune di Roma.
Il motivo? Perché i testi sessisti, misogini, oltreché artisticamente discutibili (per usare un eufemismo) non sono stati considerati all’altezza di un palco e di una manifestazione all’insegna dei diritti e del rispetto delle donne.
Punto, fine.
Tony Effe può piacere o meno, ma qui la censura non c’entra letteralmente NULLA. Come non c’entrava quando Povia è stato escluso da un’altra amministrazione o come quando una libraia decide di non vendere il libro di Giorgia Meloni.
Tony Effe viene ascoltato ogni mese da 4 milioni e mezzo di persone, arriva ogni giorno al doppio e al triplo in radio, su Youtube, partecipa a Sanremo (che a sua volta ha tutto il diritto di non invitarlo), è libero di fare concerti ovunque in Italia senza alcun controllo in qualunque locale o spazio privato o pubblico in cui qualcuno lo voglia invitare.
Il Capodanno a Roma non è tra quelli. Capita, succede.
Com’è successo ad altri centinaia di cantanti o gruppi molto più interessanti, capaci e dai testi molto meno tossici di Tony Effe senza che nessuno abbia alzato un sopracciglio, perché privi di amicizie, protezioni, agente o casa discografica giusta.
Se il governo italiano ritira dal mercato tutti i dischi di Tony Effe, quella è censura.
Se lo Stato impedisce a qualunque emittente radiofonica nazionale di trasmettere le canzoni di Tony Effe, quella è censura.
Se il sindaco di Roma proibisce a qualunque locale, spazio o associazione sul suolo metropolitano di far suonare Tony Effe, quella è censura.
Se il Comune di Roma decide di non invitare (o ritirare l’invito) a Tony Effe al proprio concerto di Capodanno, quella non è censura.
Si chiama libera scelta.
La censura è una cosa serissima, oltreché gravissima.
Solo che qui, semplicemente, non c’entra nulla.

Ps
a me non piace Toni F   cosi come   il nuovo  rap    o  la  trap     ma   quello che  mi chiedo   prima lo invitano e poi gli impediscono di partecipare ? Non conoscevano i suoi testi? oppure   si  sono     accorti   della  figura  di   💩    che  avrebbero  fatto   se  avesse tenuto  il concerto   con quei  testi  ?  oppure  hanno ceduto per  opportunità politiche   alle  pressioni delle  associazioni  delle donne ?   e  con questo è tutto   , chiudo qui  tale  vicenda  gli è stato dato    fin  troppo  spazio 




«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

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