Avevamo già parlato dell’epopea dei Bissiri Caredda e del visionario Augusto, causa scatenante dell’emigrazione della sua famiglia da Seui alla lontana California. Oltre ai successi professionali nel mondo della tecnica, della pubblicità, della scienza e della letteratura i Bissiri non avevano tardato a inserirsi perfettamente nel variegato mondo della multiculturale Los Angelese parteciparono attivamente alle attività di diverse associazioni. Oggi parliamo diAmelia, la generosa, quanto sfortunata, ragazza che si spese per dare aiuto e conforto agli emigrati europei che dopo estenuanti viaggi e mille peripezie raggiungevano la Città degli angeli con il sogno di una vita migliore e di un lavoro dignitoso .
Forse non era poi tanto diverso da oggi quel 1915. In Europa divampava una sanguinosa guerra che presto avrebbe coinvolto anche il Regno d’Italia e negli Stati Uniti l’opinione pubblica era spaccata fra quanti, soprattutto dopo l’affondamento del transatlantico Lusitania ad opera di sommergibile tedesco, invocavano l’ingresso in guerra attraverso una feroce campagna interventista che passava anche dal cinema, con il film ‘The Battle Cry of Peace’, un dramma di propaganda antitedesca del regista Stuart Blackton e chi invece sosteneva ad oltranza il neutralismo e la pace.
Amelia Bissiri ( Archivio privato Jeffrey Bissiri – Los Angeles)
Sul fronte dell’emigrazione, che negli anni della guerra avrebbe avuto un significante calo, non si era ancora arrivati a un provvedimento per ridurre i flussi di disperati in arrivo dall’Europa come l’ Emergency Quota Act del 1921, ma da tempo le proteste contro l’emigrazione incontrollata tenevano banco in tutti gli States prendendo di mira gli WOP, i without passport e in particolar modo i “macaroni” e i “dagger”, i disonesti italiani del meridione dal coltello facile. Il ragionamento di chi si opponeva all’accoglienza degli emigrati era molto simile a quello dell’attuale presidente statunitense Donald Trump che poche settimane fa ha dichiarato che non permetterà “che gli Stati Uniti siano distrutti da migranti illegali e criminali del Terzo Mondo” o a quello del governatore democratico della California Gavin Newsom che ha proposto di togliere l’assistenza sanitaria gratuita agli immigrati irregolari.
Nel primo Novecento raggiungere gli Stati Uniti dalle sponde dell’Europa passando per Ellis Island era un impresa difficile, arrivare sino alla west cost e nelle città di Los Angeles e San Francisco complicava ulteriormente le cose. Fu così creato un comitato di soccorso alle colonie di immigranti provenienti da Italia, Spagna e Francia al quale avrebbe aderito a Los Angeles una giovane e intraprendente ragazza sarda, Amelia Bissiri da Seui. Amelia era l’unica femmina sopravvissuta nell’estesa famiglia Bissiri Caredda, le sorelle Amalia, Ada e Aida erano morte ancora in tenera età. Negli U.S.A aveva avuto modo di diplomarsi, seppur tardivamente, alcollege e di studiare lingue alla University of Southern California, la stessa dei fratelli Alfio e Augusto, dove si laureò nel 1920 con una dissertazione sull’estetica diRamón María del Valle-Inclánper poi andare a insegnare lingua spagnola al Pasadena City Schools e al Polytechnic High School. Agli inizi del 1915 Amelia Bissiri partecipa attivamente alle iniziative dellaWoman’s Home Missionary Society del quartiere di Westlake, dove conosce e abbraccia la causa della chiesa metodista e dove spesso, in un mondo a prevalenza maschile, viene chiamata in qualità di conferenziera ed è nell’Istituto Internazionale per il soccorso per gli immigrati, nata in seno alla stessa associazione, che riesce ad accattivarsi la stima e la simpatia dei bisognosi. La colonia di emigrati, dove prevalgono gli italiani, è abbastanza nutrita, circa novemila persone, fra le quali sono moltissime ad aver bisogno di aiuto.Amelia è in prima linea per procurare cibo e vestiario, assistere gli ammalati, badare ai neonati mentre le madri sono a lavoro ed aiutare le persone a trovare un’occupazione. Sfruttando a pieno la sua dimestichezza con le lingue, mette le sue competenze a disposizione dellaYoung Women’s Christian Association, organizzazione internazionale no profit ancora esistente che che si concentra sull’emancipazione, la leadership e i diritti delle donne, negli uffici di 1315 Pleasant Street dove assieme alle colleghe, in tre parlano otto lingue diverse, sotto la direzione di Miss Sue Barnwell, tiene i corsi di inglese per le ragazze straniere, agevolandole così nella ricerca di un impiego.
L’incontro del Circolo Filologico che celebra Amelia Bissiri raccontato da ‘L’Unione Sarda’
Il suo operato non passa inosservato e il suo nome finisce ben presto fra le colonne dei giornali che ne lodano l’impegno e le qualità e le notizie che la riguardano rimbalzano presto oltre l’Atlantico, sino a Cagliari, dove l’Università Popolare nata sulle ceneri del Circolo filologico la celebra durante un’incontro sociale ed esalta le gesta di quella giovane sarda “dagli occhi bruni”. Il percorso di Amelia, come del resto quello dei suoi fratelli, in particolare Augusto e Amerigo, prosegue fra l’esercizio della professione, l’associazionismo e il volontariato per i più bisognosi, ma la sua grande generosità e il suo disinteressato altruismo non sono ricambiati dalla corrispettiva dose di fortuna.Muore prematuramente a Los Angeles a soli 35 anni, era nata a Seui il 22 settembre del 1888 e diventata cittadina statunitense nel 1917. Riposa al Grand View Cemetery di Glendale nella Città degli Angeli che la volle come figlia adottiva. La sua storia andrebbe ulteriormente approfondita, come quella della sua famiglia e di Augusto, l’uomo che sognava il futuro, pensandolo, come la sorella, probabilmente migliore di quello del 1915,non potendo immaginare che invece, oltre un secolo dopo, la guerra ancora avrebbe scosso l’umanità e molti migranti avrebbero avuto ancora bisogno di tante altre Amelia.
Manifestazione Rete donne per la pace - Cagliari, 26 giugno 2025 - Foto di Pierpaolo Loi
L’appello alla giornata del 26 giugno, lanciato dalla “Rete Donne per la Pace”, è stato raccolto in Sardegna dai gruppi femministi e dalle organizzazioni della società civile, con l’adesione di 22 associazioni e ben tre manifestazioni territoriali: a Sassari, Oristano, Cagliari. Nata dall’idea di alcuni gruppi femministi e dalle Donne in Nero, che già svolgevano presidi localmente, l’idea di 10 – 100 – 1000 piazze è stata contagiosa.
Si dichiarano “donne per la pace e per un futuro senza violenza” e hanno deciso di unirsi “perché la pace non è un’utopia lontana, né un fatto privato o diplomatico. La pace è una pratica collettiva, un atto politico quotidiano, un bene comune da costruire, qui e ora.” Forse sta qui la necessità di autoconvocarsi delle donne, per dare un accento e un senso di genere al bisogno di pace dei popoli, per dare una sensibilità e un’autorevolezza in più alle richieste di fermare l’escalation bellica. Ma come?
Provo a chiederlo a Cagliari, a qualcuna delle partecipanti al presidio delle donne in piazza Costituzione, alcune centinaia, nella serata afosa, sotto il Bastione Saint Remy.
Ci sono state tante manifestazioni contro la guerra e il riarmo e per la pace, perché avete sentito il bisogno di autoconvocarvi e qual’ è l’apporto più forte, l’aggiunta più significativa che le donne possono dare per la pace?
Le donne hanno un rapporto speciale con la pace, – afferma Angela – innanzitutto perché possono essere madri e quindi hanno un senso di protezione per la vita e non vogliono vedere figli morti in guerra. Inoltre sono più abituate a tessere, a costruire relazioni, mentre la guerra non fa che distruggerle.
Secondo Valeria, sono le donne che danno la vita e che la tengono più a cuore. Concetto ribadito da altre partecipanti, tra cui Pinella, che puntualizza:
Nella Storia le donne sono state meno complici della guerra, rispetto agli uomini. Hanno un rapporto fisico con la vita e non accettano che diventi carne da cannone. –
Per Marta, le donne, storicamente, – non hanno mai avuto voce in capitolo sulla guerra, né sulle più importanti decisioni di potere, né nelle pratiche repressive.Perché i corpi delle donne sono i primi a diventare terra di conquista. Sarebbe una contraddizione umana per le donne, contribuire alla guerra. –
Essendo creatrici della vita, hanno più a cuore la cura della vita e una sensibilità speciale per la sofferenza. – (Bernarda)
Il femminicidio è l’espressione ultima della guerra. – (Luisa).
Anche secondo Raffaella: – le donne hanno sempre avuto una capacità di mediazione nei conflitti della vita di tutti i giorni, capacità di ascoltare, di reagire, di trovare soluzioni. –
Sembra quindi che le donne, anche in quanto generatrici, si sentano in qualche modo custodi della vita e quindi agli antipodi con la guerra, le armi e gli assassinii. Inoltre sentono di aver potenziato capacità relazionali più prossime all’empatia e allo spirito di cura per l’ambiente e per l’altra persona. I temi della sensibilità alla cura dei rapporti e dell’attitudine all’ascolto della sofferenza, depurati dagli stereotipi convenzionali, sembrano dare almeno in parte una risposta alla nostra domanda.
Cagliari, manifestazione del 26 giugno al Bastione Saint Remy – Foto di Pierpaolo Loi
Durante il sit-in di Cagliari si sono svolte delle letture di poesie o di brani e gli interventi dei rappresentanti delle associazioni aderenti alla rete, compresa una giovane rappresentante dell’associazione in solidarietà con la Palestina, che ha ricordato ancora una volta il genocidio in atto. Particolarmente interessante la partecipazione di un folto gruppo di giovanissime, appartenenti al “Collettivo Sregolate”, che hanno letto poesie e mostrato pensieri e vignette satiriche.
La ricerca della pace, quella vera, costruita sulla parità tra i generi, sulla giustizia sociale e sul riconoscimento dei diritti dei popoli, avrebbe bisogno del coinvolgimento delle donne in tutto il mondo, proprio perché le donne sono spesso il primo bersaglio della violenza, dagli stupri di guerra a quelli casalinghi, sino al femminicidio.
La guerra crea paura ed aggressività, genera violenza a trecentosessanta gradi e questo si ripercuote sulle donne, specie quelle appartenenti agli strati sociali più deboli, o ai popoli colonizzati.
Siamo con loro, non solo per spirito di solidarietà, ma nella convinzione che è dal crescente impegno delle donne che potrà estendersi una cultura della pace in tutto il mondo, che possa contrastare la guerra e i suoi sporchi interessi egemonici ed economici.
Foto di Pierpaolo Loi
Concludo con un estratto dell’intervento di Afra:
Ci dicono che l’eroe è colui che uccide. Noi diciamo che l’eroe è che si rifiuta di obbedire. Ci dicono che i maschi devono essere forti, violenti, armati. Noi diciamo che la vera forza è spogliarsi della divisa, disertare, prendersi cura.
Perché il patriarcato uccide anche gli uomini. Li obbliga a combattere. A odiare. A morire. E mentre sopra le nostre teste passano droni e bombe intelligenti, noi resistiamo con un’intelligenza più antica: quella dell’empatia, della memoria, della comunità. Perché la guerra è macchina, è gabbia, è imposizione. La pace , invece, è un processo collettivo, liberante, transfemminista. E non ci sarà pace finché una sola persona sarà oppressa in nome della patria, del genere, della razza o del denaro.-
da https://www.valigiablu.it/
Georgij* ha 28 anni, ne dimostra meno. Sorride con gentilezza, parla
un francese incerto, ma efficace. Lo incontro in un pomeriggio di aprile
insieme al suo compagno, Sergej*, 30 anni. Sono arrivati in Francia
grazie all’associazione Russie-Libertés, che insieme ad altre in Europa, come inTransit in Germania, si occupano di sostenere l’opposizione russa. Georgij è un primo tenente dell’esercito russo. È entrato
nell’esercito nel 2017: dopo la laurea all’Istituto di fisica e
tecnologia di Mosca gli viene proposto di integrare l’arma per il suo
servizio militare, continuando a fare quello per cui stava studiando, il
programmatore. La famiglia lo sostiene: poteva essere l’inizio di una carriera
militare, che significa un posto e uno stipendio sicuro. Inoltre
lavorando nei servizi informatici ci sono diversi vantaggi pratici: un
lavoro di ufficio, niente operazioni sul campo e niente armi per
esempio. L’anno successivo, alla fine del servizio di leva, l’esercito gli
propone di firmare un contratto per cinque anni, "promettendomi che
nulla sarebbe cambiato nelle mie mansioni”. Invece, poco dopo, gli
comunicano che il posto per il quale è stato assunto non esiste più, che
sarà collocato altrove, ripetendogli che in ogni caso, è impossibile
sciogliere il contratto prima della fine.Da lì sono cominciati i conflitti con i superiori, per questioni
anche banali. A questo si aggiunge il fatto che Georgij è omosessuale,
un anatema in un paese dove l’omofobia è politica di stato. In Russia
una prima legge contro la "propaganda LGBT+" è stata approvata nel 2013;
nel 2022 la legge è stata rafforzata, con gravi conseguenze per i
militanti e le associazioni omosessuali. “Già in quel momento mi sentivo
in contraddizione con la politica interna del paese, con i valori
dell’esercito, dove è obbligatorio sostenere lo stato”, racconta
Georgij.Nel 2021 scrive una prima lettera ufficiale di dimissioni. Respinte.
Il motivo: “è impossibile lasciare l'esercito” prima della fine del
contratto. Seguono altre lettere, documenti, rapporti. “Tutte le mie
domande venivano ignorate”, spiega. Georgij ha tentato l’assenteismo, ha
poi dimostrato – con un certificato di uno psichiatra che gli
diagnosticava una depressione – che non poteva restare. La verità,
spiega, è che non c’è soluzione. A un certo punto viene convocato. Esiste una possibilità per lasciare
l’esercito: una procedura giudiziaria, un processo quindi. Un dossier a
suo nome, che lo accusa di furto e corruzione, è già pronto. L’uscita
dall’esercito è quindi possibile, ma per andare in carcere. Non c’è
soluzione. Una prima svolta avviene il giorno dell’invasione su larga scala
dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022. “Mi ricordero’ sempre di quel
mattino: ero in metro e ho visto i bombardamenti in Ucraina dal mio
smartphone”. Fino quel momento non aveva nemmeno realizzato cosa stesse
succedendo: la sua depressione si faceva sempre più profonda. “Il giorno
successivo c’era una manifestazione contro la guerra a Mosca” e,
nonostante il suo status di militare glielo proibisse, è andato, “per
mostrare che chi è contro non è da solo”. Georgij non ha troppi ricordi
della primavera che è seguita: “Ho cominciato a bere davvero tanto; sono
diventato alcolizzato”. Nel giugno dello stesso anno viene assegnato a una missione che
consiste nel lavorare sui dossier dei combattenti volontari per la
guerra in Ucraina: aveva quindi accesso ai dati di coloro che si
arruolavano spontaneamente. Lo scarto tra i numeri che aveva sotto gli
occhi e il discorso politico era stridente: “Mi sono reso conto che non
solo i miei amici e i miei conoscenti sono contrari alla guerra e non
sostengono la politica del paese, ma vedevo anche tutti quei numeri, che
erano davvero gonfiati dai dati ufficiali”.Le forze armate russe hanno quattro principali fonti di reclutamento:
la prima sono i coscritti, gli uomini che devono prestare servizio
nell'esercito per un anno. Il secondo gruppo è composto da “soldati a
contratto” che hanno accettato di partecipare firmando un contratto con
il ministero della difesa. Ci sono poi le persone mobilitate dal decreto
di Vladimir Putin del 21 settembre 2022 per combattere in Ucraina e,
infine, i “volontari”, ovvero persone che hanno deciso volontariamente
di partecipare ai combattimenti, tramite organizzazioni di volontariato
affiliate al ministero della difesa, tra cui società militari private,
spiega un’analisi di Yuri Fedorov,
specialista di questioni militari e politiche russe per l’Istituto
francese di relazioni internazionali (Ifri) e giornalista in Repubblica
Ceca. E proprio del decreto di Putin mi parla Georgij: questo stabiliva
anche che coloro che già hanno un contratto con l’esercito se lo
vedranno prorogare “fino alla fine della guerra”. A questo punto,
spiega, “ho capito che avevo poche opzioni: sapevo che sarebbe arrivato
il mio momento, o la guerra o il carcere”. Anna Colin Lebedev
è docente e ricercatrice in scienze politiche: il suo lavoro si
concentra sul rapporto tra cittadini e stato nelle società
post-sovietiche. Dopo l'invasione su larga scala dell'Ucraina, ha
pubblicato Jamais frères ? (“Mai fratelli?”, Seuil editore, 2022), un'analisi delle somiglianze e delle differenze tra la società russa e quella ucraina.Colin Lebedev mi spiega la questione delicata e dolorosa dei
coscritti, ovvero dei giovani che effettuano per la prima volta il
servizio militare obbligatorio. Se formalmente rimane un tabù per il
Cremlino, alla luce delle campagne che le madri dei soldati hanno fatto
in Russia soprattutto durante la prima guerra in Cecenia, la legge autorizza l’invio di questi giovani uomini sul fronte (un decreto di Eltsin che lo vietava è poi stato abolito). Per essere inviati in guerra, non devono formalmente essere
"coscritti" ma “soldati”. Cosa significa? “Hai 18 anni e ricevi una
convocazione per il tuo servizio militare di un anno. Prima ci volevano
almeno quattro mesi affinché ti proponessero di firmare un contratto.
Oggi avviene fin dal primo giorno”, spiega Colin Lebedev. “Si tratta di
giovani che non hanno mai tenuto un’arma in mano”. Se firmano un
contratto si ritrovano a essere dei dipendenti del ministero della
difesa con un contratto a tempo indeterminato, ovvero fino alla fine
della guerra. E questo trasforma lo status di questi giovani, da
coscritti a “militari sotto contratto”. La magia è fatta: non ci sono
coscritti sul fronte.Oppure, prosegue Colin Lebedev, sono inviati, “nelle zone frontaliere
o in quelle di Cherson o Zaporizhzhya”. Visto che il governo “le
considera Russia”, questi giovani ufficialmente non hanno mai lasciato
il territorio nazionale. Ma di fatto sono sul fronte e combattono. E
muoiono. Si tratta, insiste Colin Lebedev, di un pubblico particolarmente
vulnerabile: prima c’è la pressione della società e della famiglia, per
cui un uomo deve servire l’esercito; in più a 18 anni, si tratta di
persone non hanno mai lavorato per un vero stipendio, e gli vengono
offerte somme che paiono esorbitanti. Inoltre, “non hanno alcuna
possibilità di comunicare con gli avvocati, con i loro cari. E gli
ufficiali esercitano una forte pressione. Questo significa che non si
tratta di persone che vogliono prestare servizio, ma che sono messi in
una situazione in cui non possono non farlo”, dice. L’esercito recluta soprattutto nelle classi sociali più in
difficoltà, aggiunge Colin Lebedev: “Innanzitutto perché quando si è
studenti all’università, si è esonerati per la durata degli studi. Chi
finisce nell’esercito a 18 anni sono persone che non proseguono gli
studi. Poi, l’esercito recluta soprattutto nelle piccole città, dove è
più complicato nascondersi; inoltre, più si è poveri, meno possibilità
si hanno di corrompere i militari o di comprare un certificato medico. E
nelle famiglie più povere l’esercito è ancora visto come un modo per
uscire dalla miseria”.
O la guerra, o il carcere. O l’esilio
Tutto succede velocemente per Georgij: “Pochi giorni dopo
[l’invasione su larga scala] ho ricevuto l’ordine di lasciare il mio
posto nell'amministrazione e di presentarmi al punto di raccolta con le
mie cose per essere spedito non si sa dove – perché non te lo comunicano
– né per quanto tempo”. Che fare? O la guerra,
o la prigione, oppure “trovavo un modo per lasciare l'esercito, perché
era fuori discussione che partecipassi a tutto questo”. Alla fine sceglie l’esilio. “Sono andato da Sergej, per avvertirlo
che sarei partito. Ero convinto che non lo avrei mai più rivisto”,
racconta Georgij rivolto al suo compagno, seduto accanto a lui. Georgij
ha preso un treno fino in Siberia, poi un tassista, con cui lo avevano
messo in contatto, l’ha aiutato ad attraversare la frontiera con il
Kazakistan, dove è arrivato tre giorni dopo. Ha avvertito Sergej, che in
seguito ha lasciato il suo posto di professore di storia e la sua vita
in Russia per raggiungerlo. Il Kazakistan, insieme ad Armenia, Kirghizistan e Bielorussia, sono
paesi politicamente vicini al Cremlino, dove i russi possono recarsi con
il solo passaporto interno (l’equivalente della nostra carta
d’identità). I militari spesso non hanno il passaporto internazionale,
che viene loro confiscato quando entrano nell’esercito: per uscire dal
paese devono ottenere l'autorizzazione dei loro superiori e/o dei
servizi segreti. Il Kazakistan quindi non è un posto sicuro per un soldato russo che
ha disertato. E Georgij non aveva contatti. Il giorno del suo arrivo non
c’erano posti per dormire negli alberghi e negli ostelli e ha chiesto
informazioni alla ragazza che teneva il chiosco dove ha comprato una
sim card. La ragazza si è offerta di ospitarlo, forse perché ha capito
la sua situazione. “È stato meraviglioso; sorprendente e commovente”,
dice con un sorriso.All'inizio Georgij non diceva di essere un disertore – per il quale
c’è un mandato di arresto federale – ma raccontava di essere scappato
alla mobilitazione, e ha trovato un lavoro in una fabbrica. Nel gennaio
successivo la polizia è venuta al nostro appartamento, racconta Georgij.
“Abbiamo guardato come scappare dal balcone del terzo piano”, aggiunge
ridendo Sergej. Nel frattempo andavano trovate soluzioni: Sergej passava
le giornate a contattare associazioni e ong per capire come poter
essere al sicuro e cosa fare.
Addio alle armi: come disertare
Nel maggio del 2023 vengono convocati dal Kazakhstan International Bureau for Human Rights and the Rule of Law (KIBHR)
dove incontrano Aleksander, che nel frattempo ci ha raggiunto al nostro
appuntamento e si siede a fianco di Sergey. Aleksandr ha 26 anni ed è –
era – un tenente dell’esercito russo.“A 18 anni sono entrato all'accademia militare e la politica ha
iniziato a toccarmi, personalmente". Aleksandr elenca diversi esempi:
“Lavoravamo in cucina e la data di scadenza della carne che mangiavamo
era del 1990. Perché mangiamo prodotti così scaduti?”. Oppure, prosegue,
quando “ho saputo lo stipendio dei nostri professori, che guadagnavano
tra i 15 e i 17mila rubli, ovvero 150-170 euro. Come può la nostra
istruzione essere buona con gente pagata così poco?. Per cui ti chiedi
dove finiscono i soldi – tanti – che vengono inviati alla nostra
Accademia. E li ti fai delle domande. E YouTube mi ha dato una risposta:
ho guardato, in particolare, i canali dell'opposizione russa. E ho
pensato che fosse possibile.” Insieme ad altre persone incontrate al KIBHR, Sergej, Georgij e
Aleksandr, hanno iniziato a discutere di cosa poter fare, politicamente.
Aleksandr e Sergej hanno avuto l’idea di creare un progetto mediatico
per rivolgersi in particolare ai militari, per raccontare la loro storia
e mostrare che è possibile lasciare l’esercito. Una sorta di
“contro-propaganda per disertare”, mi spiegano. Il progetto si chiama Farewell to arms/Прощай, оружие – “Addio alle armi”. “Non potevamo tacere, bisognava fare qualcosa. Per noi è essenziale
dare la parola alle persone che lasciano l’esercito e spingere chi ha un
dubbio ad andarsene”, dice Aleksandr. “In fondo è semplice. Noi siamo
ciò che consumiamo, che mangiamo, ma anche quello che ascoltiamo e che
vediamo. E questa è la forza della propaganda, in fin dei conti”.
Secondo Sergej “è più semplice per un militare parlare ai militari, è
più facile che lo ascoltino invece di un difensore dei diritti o di un
cittadino qualunque”.Farewell to arms ha un canale Telegram e uno YouTube.
Raccontano le storie di chi diserta, spiegano come disertare, scrivono
lettere ai prigionieri politici perché se le prigioni le ricevono è un
segno per il potere che qualcuno si ricorda delle persone, ed è meno
facile farle sparire. “All’inizio della guerra nell’esercito russo non
c’erano così tante persone che erano davvero ideologicamente pronte per
questo conflitto. Erano pochissimi quelli che la pensavano come la
versione ufficiale, secondo cui in Ucraina c'erano i nazisti e che
dovevamo liberarli. C'erano persone che seguivano degli ordini, ma in
realtà non erano d'accordo con questa ideologia”. Ed è a loro che
Farewell to arms si rivolge. “Si, andiamo contro la legge, ci prendiamo
la responsabilità delle nostre azioni: è importante che in Russia si
sappia che i disertori esistono, che c’è un’altra strada possibile”,
spiega Aleksandr. Aleksandr dice che ogni persona che li contatta viene verificata per
ovvie ragioni di sicurezza. “Lungo la linea del fronte russo/ucraino ci
sono dei campi dove vengono rinchiusi i militari che cercano di
scappare”, aggiunge.Trovo una conferma nell'analisi di Yuri Fedorov,
che riporta la testimonianza di un soldato russo: “La punizione più
comune consiste nel rinchiuderli in una grande fossa a cielo aperto,
dove vengono mandati per vari reati: consumo di alcol, conflitti con i
superiori, abbandono del posto senza permesso. A volte un soldato viene
gettato in uno scantinato, di solito in edifici abbandonati, come una
scuola o un ospedale, per essersi rifiutato di combattere, e lì viene
torturato. Dopo un mese in questo tipo di ‘cella’ e in condizioni di
detenzione così disumane, andrete dove vi diranno di andare”.Secondo i mezzi d’informazione russi dal dicembre 2024 il personale
delle forze armate russe è aumentato fino a raggiungere quasi 2,4
milioni di unità, di cui 1,5 milioni sono militari. Il 31 maggio 2024,
il ministero della difesa britannico ha rivelato che il numero totale dei soldati russi uccisi e feriti dall'inizio della guerra era di 500mila persone.Si tratta di dati e stime che diversi siti e media indipendenti
cercano di verificare. Secondo Fedorov questo numero potrebbe aggirarsi
tra 330 e 525mila uomini. Il numero dei disertori, sempre incrociando
dati difficili da verificare, era secondo lui, tra i 30 e i 40mila solo
nel 2023. Come spiega
Regard sur l’Est, rivista che riunisce diversi esperti del settore, nel
2023: “Le autorità russe avrebbero lanciato la versione beta di una
banca dati che raccoglie le persone soggette al servizio militare e/o
mobilitabili” per consentire al governo di aumentare i controlli e
“impedire a coloro che desiderano sottrarsi agli obblighi militari di
attraversare le frontiere (dall'inizio della guerra sarebbero tra
500mila e un milione)”. Colin Lebedev, per precisione, aggiunge che in realtà mettere numeri è
davvero complicato sulla Russia di oggi: “Il problema che abbiamo con
l'esercito russo è che diffonde dati ufficiali che non hanno molto a che
vedere con la realtà. Vale a dire che quel numero [l’esercito di un 1,5
milioni di unità] è l'obiettivo. È così che l'esercito russo vede se
stesso”.Chiedo cosa rappresenta economicamente fare quello che hanno fatto
Aleksandr, Sergej e Georgij. Aleksandr è sorpreso dalla mia domanda,
dice la sua espressione: “Non ci siamo mai posti la questione dei soldi,
avevamo solo due scelte: lasciare la Russia e restare vivi, oppure
andare in prigione, e comunque, oggi, anche in carcere reclutano,
quindi, qualunque cosa succeda, dalla prigione finisci comunque in
guerra”.
dopo i fatti di Verona e di Firenze di cui si ampiamente parlato anche qui da noi ,ecco Alcune dritte che potrebbero aiutarvi, soprattutto in questa stagione, se ogni tanto vi siete sentiti un po' spaesati o respinti o si hanno ancora su dubbi su Come si visita un museo .
I musei possono disorientare, annoiare o addirittura sfinire i propri visitatori. Alcuni, come il Kunsthistorisches di Vienna, il Louvre di Parigi e il British Museum di Londra, sono organizzati dentro a edifici vastissimi, ospitano migliaia di oggetti e anche dopo esserci tornati più volte è praticamente impossibile riuscire a vedere tutto senza che la visita diventi frenetica e confusionaria.
Alcuni visitatori di una mostra al museo di arte contemporanea di Teheran, in Iran (Majid Saeedi/Getty Images)
In realtà, persino da un posto come il Louvre è possibile uscire lucidi e relativamente riposati. Molto, infatti, dipende dal modo con cui si decide di approcciare un museo, da quanto avete le idee chiare su quello che state cercando – soprattutto se avete poco tempo, come capita spesso ai turisti – e da quanto siete organizzati.
Evitare code e affollamentiUna gita al museo è più piacevole quando gli spazi sono vuoti e silenziosi, ma nei musei più grandi e famosi questo non è sempre possibile. Quando sono molto pieni può capitare che si senta un brusio costante, fatto di passi, sussurri, commenti sommessi e qualche guida in sottofondo.I momenti migliori per evitare affollamenti sono le prime ore della mattina (dove però c’è il rischio di imbattersi in una classe in gita, nei giorni feriali) e le ultime del pomeriggio. Tra lunedì e venerdì i musei sono meno frequentati rispetto al fine settimana, ovviamente. Diversi musei grandi poi restano aperti fino a tardi almeno una volta a settimana, solitamente il giovedì o il venerdì: il giovedì per esempio la Ny Carlsberg Glyptotek, uno dei più importanti musei danesi, chiude alle 21 al posto che alle 17, come negli altri giorni della settimana.Per quanto riguarda le mostre, se volete schivare il trambusto è meglio evitare di andarci durante le settimane di inaugurazione e di chiusura, cioè le più affollate.
Non c’è bisogno di vedere tutto
Secondo diversi studi la capacità media delle persone di rimanere concentrate durante una visita al museo si colloca tra i 20 e i 45 minuti. Nei musei più grandi per riuscire a vedere tutto ci vorrebbero giorni interi; ma anche nei più piccoli, spesso, non ha senso cercare di vedere più cose possibili o addirittura cercare di vedere tutto.In alcuni musei molto grandi i percorsi organizzati possono durare delle ore, e per questo la cosa migliore da fare è di capire sin dall’inizio che cosa si vuole vedere a tutti i costi, in modo da non selezionare involontariamente solo le opere situate all’inizio.Nei musei d’arte quello che spesso viene consigliato è di concentrarsi su poche, pochissime opere. Massimiliano Rossi, storico della critica d’arte che per decenni si è occupato anche di museologia, suggerisce di sceglierne una o due, e di studiare in anticipo le informazioni sugli autori e sul contesto storico-artistico in cui sono state fatte. «Questo è un approccio che può restituire una piacevolezza: bisogna fare una selezione. Poi magari in quel museo ci ritorni per vedere anche altre cose», spiega Rossi.Se invece volete improvvisare e il museo non è troppo vasto, potete prima fare una passeggiata esplorativa al suo interno per capire che cosa vi piace, così da capire a quali oggetti esposti volete dare la priorità, prima di perdere la concentrazione.
Ovviamente molto dipende dal tipo di esposizione offerta o dalle esigenze dei visitatori, in certi casi non c’è proprio bisogno di restare concentrati: magari cercate solo un posto dove lasciar scorrazzare i vostri pensieri.
Dipinti di Giorgio Morandi a Palazzo Citterio, Milano, venerdì 6 dicembre 2024
( Foto AP, Luca Bruno )
Informarsi un po’, prima della visita
I dati sulla frequentazione e sugli orari di punta di un museo si possono trovare facilmente su Google Maps. Ma in generale il consiglio che viene dato da chi lavora nei musei è quello di farsi sempre un giro sul sito del museo che si vuole visitare per capire quali servizi sono offerti (per esempio, se c’è il guardaroba o un’area dove poter lasciare i cani). Inoltre, in alcuni posti è necessario prenotarsi perché gli ingressi sono contingentati, mentre a volte le biglietterie fanno orari particolari: meglio controllare prima, per evitare spiacevoli sorprese.
Oltre che per avere un’idea più chiara di dove si sta andando, informarsi prima della visita può stimolare la curiosità e aiutare ad arrivare sul posto con un po’ di informazioni di contesto. Molte delle persone sentite dal Post sull’argomento suggeriscono di provare a informarsi sulla storia del museo – se per esempio ha puntato storicamente su una certa corrente artistica, anche minore, e ha un patrimonio che non si trova da nessun’altra parte – e sugli argomenti dell’esposizione a cui si è più interessati. A volte vale la pena approfondire anche la storia del palazzo che ospita il museo, che spesso, soprattutto in Italia, ha di per sé un valore artistico e culturale. Non serve essere degli esperti Informarsi può essere utile, ma non significa che per apprezzare un’esposizione bisogna essere molto competenti sull’argomento. È un problema percepito soprattutto nei musei d’arte, che ad alcuni possono apparire un po’ respingenti.A volte verso l’arte si prova un timore quasi reverenziale, e ci si può convincere che per visitare bene una galleria si debba avere una qualche dimestichezza con la storia dell’arte (cosa che senz’altro aiuta). «Ma per godersi un’opera non c’è per forza bisogno di sapere chissà che cosa», spiega Laura Orlic, imprenditrice nel settore museale. Secondo Orlic addirittura a volte le informazioni contenute nelle didascalie e nelle audioguide possono diventare un ostacolo e portare a un’eccessiva razionalizzazione. Specie nelle mostre d’arte, per le quali certe persone preferiscono un approccio contemplativo.
Meglio le guide delle audioguide Nella maggior parte dei casi però ha senso capire esattamente cosa si ha davanti. In questo caso, se si ha la possibilità di scegliere, meglio affidarsi a un umano che a una voce registrata. Secondo Orlic una buona guida può adattare il percorso della visita e le spiegazioni in base agli interessi e alle reazioni del gruppo, offrire vari spunti, e rispondere a domande e curiosità.I tour guidati costano di più, è vero, ma nulla vieta di mettervi in ascolto di quel che si dice, nel caso fortuito in cui la guida decida di soffermarsi proprio sulla stessa opera, o sullo stesso oggetto, su cui stavate puntando anche voi (ma non approfittatevene troppo).
Le prime audioguide mentre vengono testate al Louvre; sullo sfondo Il giuramento degli Orazi
di Jacques-Louis David. Parigi, 1966 (Imagno, Getty Images)
Mettersi comodi, fare delle pause
Se c’è il guardaroba, usatelo: posate lo zaino, in modo da rendere meno faticosa la visita. Anche indossare vestiti e scarpe comode può fare la differenza, visto che in molti musei il grosso dell’esposizione viene fruito stando in piedi.Se è estate e siete freddolosi, portate qualcosa per coprirvi: alcuni musei d’arte, per esempio, devono mantenere temperature relativamente basse (attorno ai 20 o ai 21 gradi), in modo da ottenere un microclima adatto alla conservazione delle opere.Sedersi ogni tanto e prendersi delle pause (magari al bar, se il museo ne ha uno) aiuta a “ricaricare” anche l’attenzione.
Nei musei si può tornare
A volte concepiamo i musei come posti da visitare solo una volta e poi basta, come se dovessimo spuntare una casella. Se si ha tempo, tornare in un museo e diluire le visite le rende più piacevoli, e permette di vedere tutto (proprio tutto) con calma.Secondo una custode museale, che per motivi di opportunità preferisce rimanere anonima, i musei possono essere visti anche come luoghi dove passare il tempo, o incontrarsi con gli amici per fare una cosa diversa. A volte è possibile fare un abbonamento annuale a una rete di musei di una città o di una regione, che in molti casi permettono accessi senza limiti: in Italia esiste una tessera che vale per la maggior parte dei musei pubblici in Piemonte, Lombardia e Valle d’Aosta.La custode consiglia di familiarizzare con alcuni musei della propria città, col personale che ci lavora, di conoscere meglio le iniziative – cineforum, esibizioni temporanee, presentazioni di libri – che organizzano durante l’anno: «si può scoprire che in un museo si possono fare tante cose, più di quelle che sono vietate». Parlare col personale Nel suo lavoro la custode si occupa soprattutto di accogliere i visitatori. «Spesso l’idea che si ha di un museo è un po’ come quella che si ha di un tempio: si entra in punta di piedi, si ha paura di chiedere e di sbagliare», dice. In realtà, il personale del museo può aiutare molto i visitatori a orientarsi. Per esempio rispetto alla fruizione degli oggetti in esposizione: a partire dai vostri gusti possono consigliarvi delle sale o delle cose specifiche da vedere. Secondo la custode il contatto con le persone che lavorano nei musei è spesso sottovalutato. Lei, invece, consiglia di non essere timidi nel condividere con loro dubbi, esigenze e desideri.
Sbizzarritevi Andare al museo resta comunque un’esperienza personale e soggettiva: non c’è un modo giusto per farlo, e non per forza deve essere un momento istruttivo. L’importante è avere bene a mente questa cosa e non sentirsi in dovere di imparare qualcosa, magari controvoglia. Ciascuno, poi, funziona in modo diverso e ha bisogno di contesti diversi per assorbire informazioni. «Si può provare a disegnare, oppure si può mettere della musica in cuffia in modo da creare una colonna sonora della propria visita», dice la custode.
Fabrizio Miccoli compie 47 anni oggi, 27 giugno 2025, è un ex calciatore, di ruolo attaccante. Nato a Nardò, è cresciuto a San Donato di Lecce. È soprannominato Il Romário del Salento e il Pibe di Nardò. Sposato dal 2002 con Flaviana Perrone, ha due figli, Swami (nata nel 2003) e Diego (nato nel 2008), chiamato così in onore di Diego Armando Maradona. Ha un fratello, Federico (nato nel 1984), anch'egli attaccante, che fu acquistato dal Perugia insieme a lui. La cittadinanza onoraria revocata per gli insulti a Giovanni Falcone
Il 24 settembre 2009 è stato insignito della cittadinanza onoraria del comune di Corleone, in provincia di Palermo, per meriti sportivi, riconoscimento revocato il 1º luglio 2013 in seguito alle polemiche suscitate dagli insulti proferiti dal giocatore nei confronti del magistrato Giovanni Falcone. Dopo aver iniziato a gestire uno stabilimento balneare a Santa Maria di Leuca, a San Donato, il paese di cui è originario, nel 2010 ha aperto una scuola calcio per bambini, l'A.S.D. Fabrizio Miccoli. Attualmente, dopo aver scontato la pena, gestisce dei b&b insieme alla moglie Flaviana. La carriera calcistica, il Romario del Salento
Fabrizio Miccoli ha vestito le maglie di Casarano, Ternana, Perugia, Juventus, Fiorentina, Benfica, Palermo, Lecce e Birkirkara vincendo una Supercoppa italiana nel 2003 con la Juventus. Ha segnato più di 220 reti in carriera, 81 delle quali con il Palermo, squadra alla quale ha legato la maggior parte della sua carriera e di cui è il miglior marcatore di tutti i tempi, il miglior marcatore in Serie A (74 reti) ed il giocatore con più presenze (165) in massima serie. Con la maglia del Perugia è stato, invece, capocannoniere della Coppa Italia 2002-2003. Dal 2003 al 2004 ha fatto parte della nazionale italiana, totalizzando 10 presenze e 2 reti Procedimenti giudiziari
Il 22 giugno 2013 Fabrizio Miccoli riceve un avviso di garanzia dalla procura di Palermo per tentata estorsione, concorso in tentata estorsione ed accesso abusivo a sistema informatico (per l'uso di schede telefoniche cellulari intestate a persone ignare); nello stesso contesto le intercettazioni telefoniche rivelano insulti rivolti dal giocatore al giudice Giovanni Falcone, qualificato come «fango», durante conversazioni con Mauro Lauricella, il figlio del boss del quartiere Kalsa di Palermo. La FIGC apre un'inchiesta sul caso. Il 27 giugno seguente Miccoli tiene una conferenza stampa in cui in lacrime chiede scusa «alla città di Palermo» per il proprio comportamento; il giorno successivo affida al quotidiano la Repubblica una lettera idealmente indirizzata a Falcone stesso, scritta di propria mano. In conseguenza di tali fatti, il 1º luglio il comune di Corleone gli revoca la cittadinanza onoraria. Il 20 aprile 2015 viene indagato con l'accusa di estorsione aggravata perché avrebbe contattato sempre Mauro Lauricella per recuperare un credito di 12 000 euro che l'ex giocatore del Palermo aveva nei confronti di un imprenditore dopo avergli ceduto la proprietà della discoteca "il Paparazzi" di Isola delle Femmine . Nell'ottobre 2017 viene condannato dal tribunale di Palermo a 3 anni e 6 mesi di reclusione, con rito abbreviato, per estorsione aggravata dal metodo mafioso,condanna confermata in appello a gennaio 2020. Il 23 novembre 2021 diventa definitiva la condanna a tre anni e sei mesi di reclusione dopo che la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e ha confermato la sentenza decisa nel gennaio 2020 dalla Corte di Appello di Palermo per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Il giorno successivo si costituisce presso il Carcere di Rovigo. Il 13 maggio 2022 il tribunale di sorveglianza di Venezia, accogliendo il ricorso del suo legale, gli concede la misura alternativa dell'affidamento in prova: da allora Miccoli ha potuto tornare ad occuparsi della sua scuola calcio, ma deve rientrare a casa prima di mezzanotte e non deve frequentare pregiudicati.
Un cambiamento di vita radicale nato da un grande errore, spiega Fabrizio Miccoli: "Ho fatto io un errore enorme. Dire sempre di sì a tutti. Sono stato molto ingenuo, troppo disponibile, ma questo è il mio carattere che sto cercando di modificare. Ho sbagliato, ho pagato, ho chiesto scusa e ho messo un punto definitivo incontrando Maria Falcone".Cosa fa oggi Fabrizio Miccoli L'ex attaccante adesso è un uomo libero e si dedica alle attività di famiglia che ha creato investendo i soldi conservati durante tutta la sua carriera. È proprietario di alcune strutture alberghiere alle quali si dedica in prima persona: "Sono io che a volte vado a fare i check in ai clienti, mi capita di andarli a prendere in aeroporto, consegno le colazioni". E poi c'è l'amore per il calcio con la sua scuola calcio fondata a Lecce che gli ha regalato la soddisfazione di vedere qualche ragazzo tra i grandi: "Siamo un centro federale del Milan e qualche ragazzino lo abbiamo dato anche a squadre di serie A. Lavoriamo bene, aiutiamo chi ha situazioni familiari complicate".
La tragica morte di Alvaro Vitali, che si è spento a 75 anni il 24 giugno a Roma a causa di una broncopolmonite, non frena le critiche. Ne arrivano di molto aspre dalla Francia. E in particolare dal quotidiano Le Monde. In occasione della sua morte il noto quotidiano francese decide di attaccare severamente l’attore italiano descrivendolo come “infantile e libidinoso”. Ma non solo: “Basso (1,56 metri) e brutto, con il naso borbonico e gli occhi strabici, sistematico bersaglio per gli altri protagonisti dei film in cui appariva".
Sul quotidiano si legge che "la sua popolarità in Francia non raggiunse mai i livelli di cui godette Oltralpe per almeno un decennio. In Italia, era una sorta di mito popolare e banale". Insomma, una descrizione pesante e negativa volta a ridimensionare il ruolo dell’attore e la sua importanza nell’Italia. Una critica che, spesso, oltrepassa ogni limite e cade nell’insulto più banale. "Inizia il regno delle stelline nude, interpretate da Edwige Fenech, Gloria Guida, Nadia Cassini e altre, oggetto delle attenzioni lascive e sbavanti di un erotomane infantile e sistematicamente sfortunato interpretato da Vitali in titoli come 'La maestra dà lezioni private', di Nando Cicero (1975); 'Il poliziotto dei polli', di Michele Massimo Tarantini (1976); 'Il maestro e gli imbecilli', di Mariano Laurenti (1978), ecc", si legge sulle colonne di Le Monde che fa riferimento ai film che lo vedevano come protagonista indiscusso. Vitali, sempre secondo il giornale parigino, è il “simbolo di una regressione che caratterizza una parte del cinema popolare italiano, quella della furia immatura e inarrestabile”. Fondatore di un tipo di cinema “che era destinato al fallimento”. “La tradizione della comicità si evolve verso forme più sofisticate, il pubblico dei suoi film si rivolge al piccolo schermo e la carriera di Alvaro Vitali si interrompe bruscamente nel 1983”, conclude bruscamente Le Monde.
Ora è vero che quui in Italia, passa quasi sotto silenzio la morte di Lea Massari, Warner Bentivegna o Luigi Vannucchi o Nando Gazzolo o ancora Nino Castelnuovo e si parla di Vitali come di una grande figura o grande maschera... in quanto come ho detto precedentemente : << Vitali era stato molto più di un attore: era stato lo specchio sboccato di una società che amava la prurigine, il simbolo di un'Italia che rideva dei propri vizipurché fossero travestiti da farsa. Finché era tutto una risata, finché restava nel recinto sicuro della commedia, nessuno si scandalizzava. La trasgressione era accettabile se condita dall'ironia, l'osceno diventava digeribile e tollerabile se trasformato in barzelletta. Infatti Quella società che Vitali rappresentava non se n'è mai davvero andata, è solo diventata ipocrita. Continua ad amare la prurigine o la dozzinalità , ma preferisce consumarla in privato, sui social, nelle chat, nei realityshow e nel trash o nei pochi film dozzinali che tentano imitare quel periodo . Infatti [ .... ] segue nel post Alvaro vitali un pezzo d'italia che se ne va .>> Certo, non mi meraviglio, dopo lo sdoganamento di Lino Banfi salito da circa 25 anni nell'olimpo tra i grandi attori italiani, non mi meraviglia più niente del nostro Paese; si è arrivato a paragonarlo al grande Totò il signor Vitali. Aver partecipato una volta ad una "carrozzonata" di Fellini e lo si laurea grande personaggio... Ma andiamo! Mi sembra eccessivo.Infatti I francesi amano il nostro cinema ed i nostri attori ed i nostri registi...quelli di un certo spessore. Anche se secondo alòcuni in particolare
E' una critica che mi fa sorridere. Io vivo in Francia e ci riconosco la spocchia tipica degli intellettuali francesi che credono ancora che la Francia sia un faro di cultura mentre oggi produce solo spazzatura
Ma qui si sconfina inmancanza di rispetto ed insulti personali . Infatti Sarà pure per alcuni Umorismo di bassissima lega, per decerebrati,e maniaci secondo alcuni .Ma Questo non significa che l'uomo debba essere segno di spregio. Ha fatto la sua carriera, non ha mai fatto del male a chicchessia (cosa rara di questi tempi) è morto. Lasciatelo in pace.
Può sembrare scontato, ma la sicurezza passa anche da un cellulare sempre carico. Il telefonino è di fa!o uno strumento prezioso anche per mette!ersi al sicuro: funziona da bussola, da torcia, oltre che naturalmente da semplice mezzo di comunicazione. Eppure capita che ci si dimentichi di metterlo in carica e ancora più spesso che si esca con il cellulare scarico o non suffcientemente carico. Per chi si trova a percorrere tratti di strada a piedi, soprattutto la sera, o a salire su un mezzo pubblico, o semplicemente a rientrare a casa tardi, avere il cellulare perfettamente funzionante – e quindi carico – può fare la differenza tra sicurezza e vulnerabilità. Avere il telefono con sé, ma non averlo suffcientemente carico diventa inutile, come se volessimo uscire e davanti a noi avessimo una porta chiusa che non possiamo aprire perché non abbiamo le chiavi. Anche senza credito, con il cellulare è possibile infatti chiamare immediatamente i numeri di emergenza, così come attivare le funzioni di richiesta di aiuto di cui dispongono gli smartphone, che possono inviare la posizione in tempo reale a numeri fidati. Ancora, un cellulare può funzionare da torcia, può aprire mappe, registrare messaggi audio oppure video, oltre alle app che offrono sicurezza, e consentire di restare in contatt!o telefonico con qualcuno $no a quando non ci si trova al sicuro. Ecco perché può essere utile portare con sé una power bank o attivare la funzione del risparmio energetico: si tratta di piccoli gesti di responsabilità che possono fare la differenza. Insomma, avere con sé un telefono con la batteria carica non è un lusso e nemmeno un capriccio, ma è uno strumento di prevenzione e quindi di autodifesa. A questo proposito, ancora una volta vogliamo ricordarvi come prevenire sia meglio di curare – perdonate la citazione di una vecchia pubblicità di un dentifricio – e come la prevenzione resti l’arma più efficace quando si tra!a di difesa da possibili aggressioni da parte di malintenzionati
[...] In un’era digitale in continua evoluzione, le app contro questo tipo di violenza si sono rivelate strumenti essenziali nel fornire supporto immediato e protezione alle vittime. Vediamo il perché queste applicazioni sono diventate parte integrante della lotta contro la violenza di genere e quali possono essere installate sul proprio smartphone.
1. Risposta Rapida in Situazioni di Emergenza:
Una delle funzioni fondamentali di queste app è offrire una risposta immediata in situazioni di emergenza. Attraverso la geolocalizzazione, le vittime possono inviare segnali di soccorso ai contatti predefiniti o alle autorità competenti con un semplice tocco. Questa risposta tempestiva può fare la differenza tra la sicurezza e il pericolo, permettendo di agire rapidamente per proteggersi.
2. Creare una Rete di Supporto:
Molte app contro la violenza consentono agli utenti di creare una rete di supporto affidabile. Gli amici, la famiglia o i servizi di assistenza possono essere inclusi come contatti di emergenza. Questo non solo fornisce alle vittime un sistema di supporto immediato, ma anche un senso di connessione e solidarietà in tempi difficili.
3. Fornire Risorse Informative:
Oltre alla risposta immediata, molte di queste app offrono risorse informative sulle diverse forme di violenza di genere, sui diritti delle vittime e sui percorsi disponibili per ottenere aiuto legale e psicologico. La conoscenza è un potente strumento contro la violenza, e queste applicazioni cercano di educare e informare le donne sulle loro opzioni.
4. Deterrente alla Violenza:
Il semplice fatto di avere un’app dedicata alla sicurezza delle donne può fungere da deterrente contro potenziali aggressori. La consapevolezza che le vittime hanno strumenti per chiedere aiuto può contribuire a prevenire situazioni pericolose e a promuovere un ambiente più sicuro per tutti.
5. Advocacy e Condivisione delle Storie:
Alcune app offrono anche funzionalità di advocacy, permettendo alle vittime di condividere le proprie storie in modo sicuro e anonimo. Questo non solo fornisce uno spazio di supporto, ma contribuisce anche a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla gravità della violenza di genere.
In conclusione, le app contro la violenza svolgono un ruolo cruciale nell’offrire alle vittime gli strumenti necessari per proteggersi e per richiedere assistenza quando ne hanno bisogno. Sono una risorsa moderna che si adatta alle esigenze della società contemporanea, contribuendo a creare un futuro in cui ogni donna possa vivere libera dalla paura e dalla violenza.
4 applicazioni gratuite per la sicurezza e protezione di genere:
Il 1522 è un servizio pubblico promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità. Il numero, gratuito è attivo 24 h su 24, accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari) oppure: chatta dall’app, con una loro operatrice.
È un’app per l’emergenza collegata alle Centrali Uniche di Risposta (CUR) del NUE 112. Permette di effettuare una chiamata di emergenza con il contestuale invio della posizione esatta del chiamante.
Pro
Localizzazione Rapida: L’app offre una localizzazione rapida e precisa degli utenti, può essere un punto forte, specialmente in situazioni di emergenza in cui è necessario condividere la posizione con contatti di fiducia o servizi di soccorso. Funzioni di Emergenza: L’app include funzioni di emergenza, come la possibilità di inviare rapidamente messaggi di aiuto o attivare chiamate di emergenza con pochi tocchi, può essere un vantaggio cruciale per la sicurezza personale. Condivisione Sicura della Posizione: Un’app che garantisce la sicurezza e la privacy nella condivisione della posizione è essenziale. La possibilità di controllare chi può accedere alle informazioni sulla posizione può aumentare la fiducia degli utenti nell’utilizzo dell’app. Integrazione con Servizi di Emergenza: L’app è in grado di integrarsi con servizi di emergenza locali, fornendo informazioni dirette alle autorità in caso di necessità, questo rappresenta un punto forte.
Contro
Problemi di Privacy e Sicurezza: Se ci sono preoccupazioni riguardo alla sicurezza dei dati o alla privacy degli utenti, questo è un punto debole significativo. Gli utenti devono sentirsi sicuri nel condividere la propria posizione tramite l’app. Consumo Elevato di Batteria: L’app ha un impatto significativo sul consumo di batteria del dispositivo, potrebbe essere considerata un’inefficienza, specialmente in situazioni di emergenza dove la durata della batteria è cruciale. Copertura Geografica Limitata: L’app ha una copertura geografica limitata e non è disponibile ovunque, potrebbe non essere utile per tutti gli utenti, riducendo la sua efficacia. Difficoltà Tecnica o Bug: Problemi tecnici, come malfunzionamenti, bug frequenti o difficoltà di utilizzo, possono limitare l’efficacia dell’app e la sua affidabilità in situazioni di emergenza. Necessità di Connessione Internet: L’app richiede una connessione Internet costante per funzionare, può rappresentare un limite in aree con connettività limitata.
È un’applicazione che integra un sistema di navigazione e monitoraggio del pericolo. All’interno di questa app, gli utenti possono identificare il percorso più sicuro per raggiungere una destinazione, aggiungere i propri “guardiani” – amici o familiari – e accedere ai principali numeri di emergenza, tra cui la chiamata rapida al 112.
Pro
Navigazione Sicura: L’app fornisce un sistema di navigazione che identifica percorsi sicuri per raggiungere una destinazione, questo rappresenta un punto forte, specialmente in situazioni in cui la sicurezza personale è una priorità. Monitoraggio del Pericolo: La presenza di funzionalità di monitoraggio del pericolo, che consentono agli utenti di ricevere avvisi in tempo reale o informazioni sulla sicurezza del luogo in cui si trovano, è un vantaggio significativo. Aggiunta di “Guardiani”: L’app offre la possibilità di aggiungere contatti di fiducia come “guardiani”, permettendo loro di ricevere notifiche in caso di emergenza, questo può essere un elemento cruciale per la sicurezza personale. Accesso Rapido ai Numeri di Emergenza: La facilità con cui gli utenti possono accedere ai numeri di emergenza, come la chiamata rapida al 112, è un aspetto positivo che contribuisce alla prontezza di risposta in situazioni critiche.
Contro
Problemi di Privacy e Sicurezza: Se ci sono preoccupazioni riguardo alla sicurezza dei dati personali o alla privacy degli utenti, questo rappresenta un punto debole significativo che può influire sulla fiducia degli utenti nell’utilizzare l’app. Stabilità Tecnica: Problemi tecnici, come malfunzionamenti frequenti o instabilità dell’app, possono limitare la sua affidabilità e la sua utilità nelle situazioni di emergenza. Limitazioni Geografiche: L’app ha una copertura geografica limitata e non è disponibile ovunque, può essere un limite alla sua efficacia e utilità per utenti in diverse regioni. Complessità d’Uso: L’interfaccia utente è complessa o se l’app richiede una curva di apprendimento elevata, potrebbe non essere adatta a un utilizzo immediato in situazioni di emergenza. Dipendenza dalla Connessione Internet: L’app richiede una connessione Internet costante per funzionare, può rappresentare un limite in aree con connettività limitata. Viola Walkalone
Viola gestisce un servizio di videochiamata 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per tutti coloro che vogliono essere accompagnati quando tornano a casa la sera.
Pro
Funzioni di Sicurezza Personale: L’app offre funzioni specifiche per migliorare la sicurezza personale, come la possibilità di condividere la propria posizione in tempo reale, inviare avvisi di emergenza o attivare un sistema di allarme, queste possono essere considerate caratteristiche positive. Intuitività dell’Interfaccia Utente: Un’interfaccia utente intuitiva e di facile utilizzo è un aspetto positivo che contribuisce all’efficacia dell’app in situazioni di emergenza. Notifiche Personalizzate: L’app consente agli utenti di personalizzare le notifiche o gli avvisi in base alle proprie esigenze, offrendo flessibilità nel ricevere informazioni di sicurezza, questo può essere considerato un punto forte. Supporto Continuo e Aggiornamenti: Un’app con un team di supporto attivo e regolari aggiornamenti è più probabile che risponda prontamente a problemi tecnici, migliorando la sua affidabilità nel tempo.
Contro
Problemi di Privacy e Sicurezza: Se ci sono preoccupazioni riguardo alla sicurezza dei dati personali o alla privacy degli utenti, questo rappresenta un punto debole che può influire sulla fiducia degli utenti nell’utilizzare l’app. Limitazioni Tecniche: Problemi tecnici, come malfunzionamenti frequenti o lentezza nell’esecuzione delle funzioni, possono limitare l’utilità dell’app e la sua affidabilità in situazioni di emergenza. Limitazioni Geografiche: L’app ha una copertura geografica limitata e non è disponibile ovunque, può rappresentare un limite alla sua efficacia e utilità per utenti in diverse regioni. Dipendenza dalla Connessione Internet: L’app richiede una connessione Internet costante per funzionare, potrebbe essere un punto debole in aree con connettività limitata. Complessità d’Uso: L’app è complicata da utilizzare o richiede una curva di apprendimento elevata, potrebbe non essere adatta a un utilizzo immediato in situazioni di emergenza.
Per una valutazione più precisa, lo stesso articolo consiglia di consultare le informazioni ufficiali fornite dagli sviluppatori delle applicazioni sopracitate e di leggere recensioni degli utenti. Infatti affrontare la Violenza di Genere con Tecnologia Responsabile Nel contesto della crescente consapevolezza e impegno per contrastare la violenza di genere, l’utilizzo di applicazioni dedicate emerge come un importante passo verso la sicurezza personale delle donne. Applicazioni come Guardian Safely Around, Viola Walkalone e altre, pur con caratteristiche specifiche, cercano di offrire soluzioni innovative per migliorare la sicurezza e fornire supporto immediato in situazioni di pericolo.
I loro punti di forza, come la localizzazione rapida, le funzioni di emergenza e la creazione di reti di supporto, sono elementi chiave nella promozione di un ambiente più sicuro per le donne. Tuttavia, è cruciale affrontare apertamente i punti deboli, come le preoccupazioni sulla privacy, i problemi tecnici e le limitazioni geografiche, per garantire che queste app siano efficaci e accessibili a tutti. In ultima analisi, la tecnologia può giocare un ruolo significativo nel fornire strumenti pratici per la prevenzione e la gestione della violenza di genere. Tuttavia, l’adozione di queste app deve essere supportata da un approccio olistico, inclusivo di educazione, sensibilizzazione e azioni concrete da parte della società e delle istituzioni. Solo integrando la tecnologia con un impegno collettivo possiamo sperare di costruire un futuro in cui ogni donna possa vivere libera dalla paura e dalla violenza.