23.11.10

Il bimbo che gioca a pallone solo per sentenza

A chi mi dice   nn è vero che  sono un antisportivo eo un sognatore o un complottista  quando  dico   che  ome  nell'antica  roma  i  giochi   del colosseo  erano  un arma di distrazione di massa    cioè Panem et circenses (letteralmente, Pane e corse dei cavalli) è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica.
Rispondo con questa  storia    trovata  stamattina  Sfogliando  al bar   " il  giornale " 


Un ragazzino di Trieste vittima della lite tra genitori separati. La mamma non vuole che vada a scuola calcio e non firma il permesso per iscriverlo nella squadra. Ma il Tribunale dei minori interviene e stabilisce che il piccolo ha diritto ai suoi 90 minuti di svago
DIFESA
Il magistrato ha ascoltato il figlio e ha voluto mettere al centro i suoi desideri VERDETTO Fare parte di un gruppo in un periodo così difficile fa bene alla sua crescita

  I GENITORI SEPARATI LITIGANO, DECIDE IL GIUDICE
Il bimbo che gioca a calcio per sentenza

di
Cristiano Gatti

Forse, quando sarà il centravanti del­la Triestina e vincerà la classifica canno­nieri, alle domande dei cronisti sportivi darà la risposta più singolare: «Se sono qui, devo dire grazie a chi ha creduto in me e mi ha lanciato nel mondo calcio: il presidente del tribunale».
Succede anche questo, nelle liti matri­moniali. Padre e madre si rinfacciano tutto e non si risparmiano niente. In mezzo, tirati da una parte e dall'altra, i ragazzini che ci capiscono poco. A dieci anni c'è ancora tutto un mondo di cristal­lo che va maneggiato con cura: la scuo­la, gli amici, le passioni. Questo

piccolo triestino, che il giornale della sua città chiama Walter ribattezzan­dolo con nome di fantasia, non chiedeva niente di più: di continuare la vita come sempre, nella sua scuola, con i suoi amici, seguendo la sua grande passione, il calcio.
Purtroppo, anche se i grandi dicono durante una separazione che i figli devo­no starne fuori, tutelati e protetti, ad andarci di mez­zo sono immancabilmente loro. La mamma di Walter vuole trasferirsi a Pordeno­ne, un altro lavoro e un'al­tra vita a debita distanza dall'uomo dei suoi fallimen­ti. Il papà invece resta a Trie­ste, sperando di poterci te­nere anche Walter, che qui è nato, è cresciuto e ha mes­so radici. Tra i turbini di questa bufera familiare, il ragazzino viene sballottato come foglia al vento. Inizial­mente la mamma riesce a portarselo nella casa di Por­denone. Ma poi entra in sce­na il Tribunale dei minori, chiamato a disinnescare questo materiale ad altissi­mo contenuto esplosivo. È in gioco il futuro dei figli. Ogni giorno, in ogni parte d'Italia, lo stesso problema
si perpetua con modi e sfu­mature sempre diversi. Già, cosa è davvero meglio per loro, che non possono ancora scegliere? È un dan­natissimo compito, per un giudice che davvero voglia esercitare la missione. Il presidente Paolo Sceusa sente tutte le parti. La mam­ma dice che Walter sta be­nissimo a Pordenone. Il pa­pà dice che Walter sta benis­simo dov'è sempre stato, a Trieste. Lungo questo asse friulano corre il destino di una creatura che non è an­cora padrona del proprio destino. Il buon giudice chiama Walter: sa che la sua parola, i suoi sentimen­ti, i suoi desideri valgono pur qualcosa. Quando vie­ne sentito, il ragazzino esprime un chiaro orienta­mento: vuole stare a Trie­ste, nella sua casa, nella sua scuola. Alla fine, la sua opi­nione è quella che conta. Il Tribunale dei minori deci­de per Trieste, con il papà. È un primo passo. Poi però subentra il calcio. Walter gioca da tempo nella squa­dra degli amici, ma la socie­tà non può tesserarlo senza il consenso di entrambi i ge­nitori. Ovviamente il papà lo firma subito. Alla mam­ma, chissà, questa firma sembra l'ultima arma per vincere qualcosa, anche una minuscola battaglia, perché non si dica che il ma­rito ha avuto vita facile su tutto. La firma viene nega­ta. Può giocare a Pordeno­ne, se vuole.
Walter però è ancora nel­la fase sentimentale del pal­lone, di questo mondo del
pallone in cui i grandi non hanno più maglie del cuore e spirito di bandiera, pronti ad andare in due o tre città diverse nella stessa stagio­ne. Walter vuole giocare a Trieste perché lì c'è la sua squadra, il suo allenatore, i suoi compagni. Lo dice chiaramente anche al giudi­ce, in una seconda udienza del laborioso processo. An­cora una volta, il giudice mette al centro il ragazzi­no: stare con gli amici, sen­tirsi parte di un gruppo, in un periodo così difficile del­la sua crescita, questa è pre­sumibilmente la migliore delle strade possibili. Wal­ter giocherà a Trieste, nella sua squadra, per decreto. In attesa che un giorno, quando il tempo avrà affie­volito molte pulsioni e smussato molti spigoli, la mamma accetti di lasciarlo lì, dove vuole correre, salta­re, tirare, scalciare, sudare, piangere, gioire. Dove anco­ra riuscirà ad essere bambi­no spensierato, per novan­ta minuti almeno.
Poi si sa che il calcio non è la soluzione di tutti i proble­mi. Si sa che Walter, come tutti i figli contesi e divisi, avrebbe bisogno di ben al­tro. A questa età, dopo una bella sudata e una doccia calda, gli servirebbe l'armo­nia dentro casa. Ma qui non c'è giudice che possa aiutar­lo. Non c'è speranza che una sentenza, come gli ha restituito il pallone, gli rico­struisca una famiglia. Quan­do un matrimonio arriva in tribunale, è solo per distrug­gere .

                                  Cristiano Gatti


Invece  il piccolo ditriste  ne da una versione simile  .
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All’udienza in cui il presidente del Tribunale dei minori ha assunto questa decisione, la mamma non si è fatta vedere ed è stata presentata dal proprio legale.
«Sono disperata. Non solo mio figlio non vive più con me ed è rientrato a Trieste nell’abitazione del papà, ma molti mi dipingono come fossi un mostro, una donna che pone continui veti a un bambino di dieci anni e ne penalizza le scelte. Non è vero e non è giusto».
Questo aveva dichiarato nei primi giorni di ottobre la mamma di Walter a una cronista pordenonese cercando di mettere a fuoco la propria ”verità”. «Walter è sempre vissuto a Trieste con me e ha visto suo padre costantemente nei fine settimana. Poi io ho avuto l’ occasione di trasferirmi a Pordenone, una scelta dettata da ragioni diverse, tra cui anche quella di cercare un lavoro migliore. Avevo anche trovato per lui una squadra di calcio dove avrebbe potuto farsi valere. Invece non è più rientrato nella mia nuova abitazione. Non so cosa sia accaduto a Trieste nel weekend che aveva passato col padre. Certo è che Walter a Pordenone si era ambientato benissimo».
Opposta la versione del ragazzino, quando era stato sentito dai giudici. «Voglio ritornare a vivere a Trieste con mio papà: così potrò frequentare di nuovo i miei amici, la mia scuola e la mia squadra di calcio».
In altri termini ha rivendicato un po’ di rispetto per la sua sensibilità e per i suoi desideri. E i giudici hanno capito il dramma di un ragazzo di dieci anni ”estirpato” dall’ambiente in cui aveva vissuto e hanno deciso di conseguenza. A fine settembre è rientrato nella sua scuola; ora fa di nuovo parte legittimamente della ”rosa” della sua squadra. Corre, salta, dribbla, stoppa di petto e cerca il gol. Come un vero bomber.
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o voi decidere  qual'è  la verità

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