dimenchamo e piccole cose non le grandi stragi di brescia e fiumicino 1973

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IL CASO

Il processo di Brescia
che l'Italia dimentica

Dal 9 novembre i giudici della corte d'assise sono ritirati in camera di consiglio per deliberare sulla strage del 1974. Per quegli otto morti oggi si giudicano solo imputati per concorso in strage. Tanti sono stati i depistaggi

di BENEDETTA TOBAGI
Mentre un governo crolla a pezzi, intere province s'inondano con danni inauditi, i media seguono con morbosa attenzione i torbidi sviluppi dell'omicidio di una quindicenne, la polizia prende a manganellate un sit in non violento che solidarizza con alcuni operai immigrati che protestano per i loro diritti, in una città di provincia, nella quiete ovattata di una stanza d'albergo piena di computer e tazze di caffè, otto persone stanno studiando da giorni centinaia di migliaia di pagine di documenti in formato digitale, per decidere di un delitto di 36 anni fa. Sembra l'inizio di un episodio della popolare serie investigativa Cold Case, ma sta succedendo davvero. Brescia, le donne e gli uomini della corte d'assise del tribunale locale, due togati e sei giurati popolari, dopo due anni di dibattimento, 150 udienze e migliaia di testimoni, il 9 novembre si sono ritirati in camera di consiglio per decidere le sorti di cinque imputati per concorso in una strage che ha ucciso 8 persone e ne ha ferite 102, il 28 maggio 1974. Tra gli imputati, un generale dei Carabinieri, Francesco Delfino. Un ex deputato, senatore e segretario dell'Msi, Pino Rauti. Due figure chiave dell'organizzazione eversiva neofascista Ordine Nuovo (costola del centro studi fondato da Rauti nel 1956), il medico Carlo Maria Maggi e l'orientalista, poi imprenditore, naturalizzato giapponese (il suo nome oggi è Roy Hagen) Delfo Zorzi: condannati e poi assolti per la strage di piazza Fontana.
RADIO RADICALE: TUTTE LE REGISTRAZIONI DEL PROCESSO 
Un ex militante missino legato agli ordinovisti, informatore del SID dal 1973 al 1977 col pittoresco nome in codice "Tritone", Maurizio Tramonte. I carabinieri, le spie, la politica, l'eversione neofascista, i depistaggi, tutto vero, tutto pubblico, agli atti del processo: meglio della serie tv Romanzo Criminale (le stazioni sono invase di cartelloni pubblicitari dei nuovi episodi), eppure nessuno ci bada. Fuori dalla provincia di Brescia quasi nessuno ha parlato di questo processo, il terzo celebrato (dopo 5 istruttorie e 8 gradi di giudizio precedenti) per dare un nome ai responsabili e ai mandanti di uno dei più orrendi eccidi della "strategia della tensione": la bomba, collocata in un cestino dei rifiuti in piazza della Loggia, da sempre cuore della vita della ricca cittadina lombarda, esplose alle 10:12 del mattino nel mezzo di una pacifica manifestazione antifascista, organizzata per esprimere rifiuto e condanna della violenza eversiva dopo una sequela di episodi violenti di marca neofascista che da settimane turbavano la sicurezza della cittadinanza e della democrazia.Fatto unico, esiste una registrazione dell'esplosione della bomba: avvenne nel mezzo del discorso del sindacalista Franco Castrezzati. Andate ad ascoltarlo (www.28maggio74. brescia. it/index. php?pagina=73): supera la fantasia di qualunque sceneggiatore. Abbiamo la voce orrenda di quella bomba, ma poco altro: i periti si sono dati ancora una volta battaglia sui pochissimi reperti disponibili per determinare la natura dell'esplosivo impiegato, perché la piazza, e con essa i resti dell'esplosione, fu improvvidamente (o scientemente?) lavata a poche ore di distanza dalla strage, su ordine della locale Questura. Si disse: per non turbare la serenità dei cittadini con la vista dei resti di un massacro. Ma ciò che rischiava di turbare la quiete delle coscienze era il sangue in terra o piuttosto la possibilità che - se non si fossero distrutte le prove e dirottate le indagini - emergesse la verità, penale e politica, sull'ennesima strage? Proprio il generale dei Carabinieri Delfino, che condusse le prime indagini,  è imputato in attesa di giudizio, oggi, per concorso in strage.
Lontano dagli occhi, lontano al cuore e dalla mente: via il sangue dal selciato, via le cronache di un processo scomodo e perturbante dall'attenzione di un paese, che avrebbe invece tanto bisogno anche della verità su Brescia per ricostruire un rapporto di fiducia tra gli italiani e le istituzioni. Perché i molti volti dell'eterno Principe italiano, come l'ha chiamato il giudice Scarpinato, certi meccanismi (servizi segreti che proteggono i criminali anziché i cittadini in nome di "interessi superiori" o inconfessabili finalità politiche; servitori dello Stato infedeli) siano conosciuti, compresi e prima o poi, finalmente, disinnescati.
Attendiamo il dispositivo della sentenza. E ancor più, le motivazioni, che  -  anche in caso di assoluzioni  -  aggiungeranno importanti tasselli alla conoscenza storica dello stragismo neofascista. Ma ricordiamo alcune cose che prescindono dal contenuto della sentenza. Per quegli otto morti, oggi si giudicano solo imputati per concorso in strage. I depistaggi sono stati tali e tanti che, dopo 36 anni, non si può neanche cercare di sapere chi mise la bomba nel cestino quella mattina. L'autenticità e attendibilità delle centinaia di note informative riconducibili a "Tritone" è stata confermata. Se fossero state disponibili anche agli inquirenti dei precedenti processi, forse avrebbero permesso di identificarle, le mani che deposero la bomba. Nel processo, si sono delineate le responsabilità politiche e morali di uomini dell'Arma e del Sid. Servizi di sicurezza, si chiamano: ma sicurezza di chi? se non collaborarono coi magistrati nemmeno davanti a otto bare di cittadini innocenti uccisi nella pubblica piazza? In aula, c'era sempre Manlio Milani, in rappresentanza dei famigliari delle vittime. Dall'altra parte, nella gabbia, solo Tramonte (detenuto per altri reati).
Tra gli imputati, nemmeno coloro che hanno ricoperto incarichi pubblici di alto livello e cariche rappresentative, come Delfino e Rauti, hanno ritenuto di mettere mai piede nell'aula dove, faticosamente, si celebrava il rito democratico del processo. Non sono venuti a raccontare la propria verità, a guardare negli occhi le parti civili. In compenso, queste avevano accanto una squadra di avvocati, molti dei quali andavano tutt'al più alle elementari al momento della strage. Hanno affrontato un processo-monstre ammessi al gratuito patrocinio, raccogliendo idealmente il testimone delle persone che erano in piazza della Loggia quella mattina, perché credevano che la democrazia va difesa ogni giorno, con gesti insieme simbolici e concreti. 
 
(15 novembre 2010)


Unione sarda del 15\11\2010 

Fiumicino, la strage dimenticata

Mario Muggianu fu ostaggio dei fedayyn per 48 ore

Lunedì 15 novembre 2010
   
di GIUSEPPE DEIANA
Mario Muggianu oggi
Un inferno senza colpevoli. Trentadue morti dimenticati per “interessi superiori”, quelli di un patto non scritto che tentò di rendere l'Italia neutrale nel panorama degli intrighi terroristici internazionali degli anni Settanta e che forse si porta sulla coscienza anche le vittime della strage di Bologna. Solo una piccola iscrizione ricorda un momento cruciale della storia italiana più recente: poche parole in memoria del militare della Guardia di finanza Antonio Zara, ucciso a sangue freddo sulla pista di Fiumicino il 17 dicembre del 1973. Dimenticati, invece, i trenta passeggeri del volo Pan Am, uccisi dalle bombe al fosforo lanciate da cinque fedayyn e Domenico Ippoliti, tecnico addetto al controllo aereo, trucidato dopo una snervante roulette russa sulla pista di Atene, 24 ore più tardi delle altre vittime.
IL LIBRO Ma c'è anche chi quelle drammatiche 48 ore oggi le ricorda, così come chi ha deciso di dedicare tempo e inchiostro alla ricerca della verità. Salvatore Lordi, giornalista di Rds, e Annalisa Giuseppetti, free lance esperta di terrorismo e sicurezza, hanno pensato di riesumare quel momento dimenticato (“ Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre nero ”, edito dalla Rubettino, sarà presentato a Roma giovedì, alla libreria Enoarcano, in via delle Paste, 106), quelle drammatiche ore che inchiodarono l'Italia a radio e tv, raccogliendo le testimonianze di chi quei momenti li visse in prima persona e oggi li racconta non senza porsi interrogativi. Primo fra tutti: perché quella strage non ha un colpevole?
IL PROTAGONISTA Mario Muggianu, alle 13,45 del 17 dicembre 1973 stava per concludere il suo turno, 8-14, ai varchi della dogana di Fiumicino. Una giornata normale, anche se particolarmente affollata, per quella giovane guardia di Polizia, allora poco più che diciannovenne, partita da Dorgali neanche due anni prima (gennaio 1972) per intraprendere la carriera tra gli agenti di pubblica sicurezza. In paese lo conoscevano tutti, aveva fatto il muratore per qualche anno, secondo di tre figli, per poi emigrare. Destinazione Trieste, corso per agenti, e poi Roma, alla polizia di frontiera. Quella mattina di dicembre, un pulmino uscì dalla caserma della Magliana per raggiungere Fiumicino e dare il cambio turno, alle 8 in punto, ai colleghi che smontavano dalla notte. 



Muggianu all'epoca dei fatti

IL PROCESSO Contemporaneamente, nell'aula del Tribunale di Roma, si apriva il processo a tre appartenenti di Settembre nero, gruppo terroristico palestinese, detenuti nel carcere di Viterbo, arrestati nel gennaio del 1973, in occasione della visita in Vaticano di Golda Meir, primo ministro israeliano. A Ostia, forse su segnalazione del Mossad, vennero fermati cinque palestinesi, trovati in possesso di alcuni missili Strela di fabbricazione sovietica, che dovevano servire per tirare giù l'aereo, sui cieli di Roma, sul quale viaggiava la donna che allora ricopriva l'incarico di premier d'Israele. Due furono scarcerati, mentre tre andarono a processo, concluso con una condanna nel febbraio 1974, prima del pagamento di una cauzione da venti milioni a testa da parte dei servizi segreti e la sparizione in Libia dei terroristi appena un mese dopo.
L'ATTENTATO Proprio mentre Mario Muggianu e i suoi colleghi iniziavano il turno di guardia a Fiumicino, un commando di fedayyn si imbarcava dall'aeroporto madrileno di Barajas, in Spagna, alla volta di Roma. Nelle loro valigie, un vero arsenale. Facile far entrare le armi nelle stive dell'aereo: «In Spagna non si facevano controlli», racconta Mario Muggianu, 57 anni, residente a Cagliari, sposato con due figli, pensionato con l'hobby della campagna. I terroristi, sbarcati a Fiumicino, si confusero tra la folla, una volta recuperati i bagagli, per poi avvicinarsi ai varchi. «Ricordo che quella mattina c'era una folla immensa, tantissima gente, forse perché si avvicinavano le vacanze natalizie, c'erano quattro porte aperte e per ognuna due di noi che prestavano servizio». Tutto scorreva liscio nella mattinata di Mario Muggianu. Ebbe anche il tempo, intorno alle 12,45, di pensare a quei 75 minuti che lo dividevano dal pranzo. Ma fu un pensiero rapido, così come fulminea fu l'azione dei terroristi, «almeno cinque»: arrivati vicino ai poliziotti, aprirono le valigie, puntarono le armi contro gli agenti e iniziarono a sparare in aria e verso le vetrate, lanciando bombe a mano Srcm a basso potenziale. «Non ci furono feriti tra i civili, in quella fase, ma un mio collega che era in coda alla fila, Ciro Strino, tentò di estrarre la pistola: venne colpito da una raffica di mitra e un colpo gli trafisse il polmone».
GLI AEREI Il commando, carico di adrenalina, scese giù verso la pista, tentò di salire su un primo aereo, poi si diresse su altri due in pista. Due terroristi si infilarono su un Boeing della Pan Am già in procinto di decollare e lanciarono due bombe al fosforo: fu una strage. Alla fine i morti furono trenta. Il resto del commando, con gli agenti presi in ostaggio, arrivò invece su un aereo della Lufthansa. Un finanziere in servizio sulla pista, Antonio Zara, da dietro un carrello per il trasporto dei bagagli cercò di mirare sui terroristi, ma la sua pistola si inceppò. Venne catturato: gli ripiegarono il cappotto sulle braccia, a metà schiena, immobilizzandolo e portandolo con loro. «Gli serviva un morto, in quella fase, e Zara fu il prescelto», ricorda Muggianu. Mentre salivano sulla scaletta, a Zara fu fatto cenno di tornare indietro. Pochi passi e venne falciato da una raffica di mitra. «Avevano gli Stern, bombe a mano e pistole». Al comandante, un pilota olandese, venne intimato di partire, dopo un rapido controllo dell'aereo, con la collaborazione di Domenico Ippoliti, anche lui preso in ostaggio. Il grosso velivolo decollò con i portelloni ancora aperti.
IL VIAGGIO «Non sapevano dove andare. La mia impressione è che non avessero alcuna meta anche se forse il loro scopo era quello di piombare a Ginevra e far atterrare il terrore sulla conferenza di pace che si apriva in quei giorni in Svizzera». Il volo sorvolò Nicosia (Cipro), poi fece rotta su Atene, dove si aprì una drammatica trattativa con le autorità greche. Fu qui che i terroristi inaugurarono la strategia della roulette russa. «Ero ammanettato con uno stewart, ci portavano a due a due sulle scalette dell'aereo e poi sparavano a pochi metri dalla nostra testa. Poi ci riportavano indietro. Ci contammo, per vedere se c'eravamo tutti. Ippoliti non tornò». Colpito a morte sulla scaletta dell'aereo e gettato in pista. «Comunicavamo con il pilota attraverso una hostess particolarmente sveglia: ci disse che l'aereo, mentre ripartiva, era passato sopra il povero corpo di Ippoliti».
MEDIO ORIENTE Ripreso il volo, la nuova destinazione fu Damasco, ma il governo libanese mostrò di non gradire gli ospiti. «Misero i camion militari lungo la pista per non farci atterrare», ricorda l'ex agente di Polizia, «solo la bravura del pilota ci salvò: riuscì a fermare l'aereo fuori dalla pista, sulla sabbia del deserto. Fecero arrivare un'ambulanza per curare uno dei terroristi, ferito alla testa», ma anche qui la solidarietà araba non funzionò nei confronti dei terroristi. «Nessuno li volle riconoscere, nonostante i tentativi di accreditarsi con le autorità, e forse per questo decisero di arrivare in Kuwait, dove evidentemente riuscirono a ottenere garanzie per un salvacondotto o qualcosa di simile». Nella città sul Golfo Persico, dopo oltre due giorni di voli tra Europa e Medio Oriente, trattative, morti e minacce, i terroristi si arresero. E lo fecero in modo inaspettato. «Decisero di abbandonare le armi senza quasi una trattativa. Misero pistole e mitra da una parte e mi chiesero di perquisirli. Vollero le nostre divise. Scesi tra i primi. La polizia kuwaitiana ci prese in consegna e ci fu anche un po' di maretta, perché mi trovarono addosso le manette che uno dei terroristi mi aveva restituito».
IL RITORNO Muggianu fu il primo a parlare con il presidente del Consiglio Mariano Rumor. Il messaggio fu chiaro: tutto è finito bene, ora bocche cucite e attenzione a parlare con i giornalisti. Stesso discorso venne fatto all'arrivo in Italia dalle autorità (tra cui anche il capo della Polizia, sardo di Talana, Efisio Zanda Loi) che salirono sull'aereo prima dello sbarco a Fiumicino. I terroristi furono presi in carico dalla polizia del Kuwait, che rispose picche alla richiesta di estradizione avanzata qualche mese più tardi dal Governo italiano. «Seppi che due morirono durante un tentativo di evasione dal carcere, gli altri in azioni terroristiche in Giordania», dice con rassegnazione Mario Muggianu, «al nostro rientro, fummo rinchiusi nell'accademia di Polizia di Roma, in via Guido Reni, il magistrato ci chiese alcune relazioni. Non vedevamo l'ora di riabbracciare i nostri cari: tra l'altro, la mia famiglia visse brutti momenti, visto che un quotidiano sardo ( La Nuova Sardegna , ndr) scrisse in prima pagina che il morto di Atene ero io e non Ippoliti. Fortunatamente la notizia venne smentita di lì a poco da un ufficiale mandato a casa, a Dorgali, dalla Questura di Nuoro. Non ci permisero di partecipare ai funerali delle vittime. E ci fu impedito di incontrare i familiari, di andare a trovare la madre di Zara. Eppure su tutta la vicenda non fummo mai interrogati e solo dopo diversi giorni riuscii a rientrare nell'Isola».
IL PROCESSO Mario Muggianu, subito dopo, venne trasferito a Cagliari, in Questura, e non riprese servizio a Roma, dove rientrò solo per prendere parte ai processi. «Ci fu un procedimento civile, uno penale, uno amministrativo e uno della magistratura militare», racconta, «solo quello civile si concluse e lo seppi dal giornale. Degli altri non si seppe più nulla». «Questo è il mio cruccio, che mi porto appresso da trenta e passa anni. Non ci sono colpevoli: perché la Giustizia non ha fatto il suo corso? I terroristi vennero liberati e l'Italia non calcò certo la mano. Forse ci furono quelli che si chiamano “interessi superiori”», è la triste conclusione di Mario Muggianu. «Ho metabolizzato quell'esperienza, mi è servita in seguito per affrontare tante situazioni difficili. A Fiumicino piovevano proiettili e io non lo posso dimenticare». La Giustizia, invece, lo ha rimosso. Perché?
IL PATTO Forse perché in quel periodo, a Il Cairo, in Egitto, un incontro diplomatico pose le basi della strategia Moro, allora ministro degli Esteri: un patto di non belligeranza con i terroristi palestinesi. «Voi non fate attentati contro l'Italia e gli italiani, e noi vi lasciamo fare gli affari vostri sul territorio italiano, controllati a vista dai servizi segreti».

Una strategia che ha funzionato per anni, ma che potrebbe essere costata la vita a tanti innocenti, per esempio gli 85 morti della strage di Bologna. Francesco Cossiga, in un'intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera , disse che quella strage fu un incidente causato da “amici” palestinesi che “manovravano” in Italia. Se c'è una verità che lega Fiumicino a Bologna, è ancora tutta da scrivere.

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