22.1.22

Nella legge sul giorno della memoria e sul giorno del ricordo mancano la responsabilità dei fascisti

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Nella legge sul giorno della memoria manca la responsabilità dei fascisti


©Publifoto/Archivio Storico Lapresse 26-01-2005 Milano, Italia Interni Nella foto d'archivio: BENITO MUSSOLINI passa in rivista le grandi unitˆ. Busta 3008/1

Dal luglio 2000 la legge sul Giorno della memoria invita gli italiani a ricordare, ogni 27 gennaio, la Shoah e le «leggi razziali» (che però gli analisti denominano «razziste» o «antiebraiche»), i deportati politici, i militari internati, coloro che si opposero allo sterminio a rischio della vita. A tale fine, «sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado», «affinché simili eventi non possano mai più accadere». Questo è il succo della legge.La ricorrenza è stata apprezzata e si è radicata, costruendosi uno spazio autonomo rispetto alle feste civili nazionali e marcando una vitalità diffusa, superiore a quella di molti “giorni memoriali” successivamente istituiti.Tra le ricorrenze preesistenti, palesa una maggiore sofferenza la festa nazionale della Liberazione (25 aprile), che peraltro omaggia proprio chi morì per estirpare i responsabili di quelle persecuzioni e violenze.Purtroppo quel giorno non ha il sostegno di una legge articolata, come quella sul 27 gennaio; inoltre oggi vi sono ancora troppi italiani che non sopportano quella lotta di estirpazione e la sua festa. Tra le ricorrenze memoriali successive, soffre in particolare il “Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale” (10 febbraio), rimasto vittima della malevolenza di chi scrisse il testo di legge: il 10 febbraio 1947 l’Italia firmò il trattato di pace definitivo con gli Alleati (contenente tra l’altro la sistemazione dei confini ove convergono le penisole italiana e balcanica) e però questa legge memoriale non contiene una condanna delle cause che portarono l’Italia a quella guerra che portò a quella pace: fascismo, dittatura, bellicismo, imperialismo.

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Andrea Alfano/LaPresse

La legge del 27 gennaio ha una singolare lacuna: il suo titolo e il suo testo menzionano i «campi nazisti», ma non contengono i vocaboli fascismo, fascisti. Peraltro il suo testo condanna esplicitamente «la persecuzione italiana dei cittadini ebrei». Quindi da un lato è silenziosa sulle responsabilità specifiche del regime di Benito Mussolini, dall’altro addita una responsabilità del paese in generale, concretatasi ad esempio nella sostanziale assenza di dimissioni polemiche o proteste pubbliche contro l’introduzione dell’antisemitismo di stato nel 1938. Su un altro piano, va rilevato che la presenza di un riferimento territoriale o nazionale, in luogo di quello storico politico, chiama in causa anche i tempi attuali, ovvero la persistenza odierna di pregiudizi o ostilità verso gli ebrei. Per rimediare alla lacuna, occorre richiamare innanzitutto il notevole apporto elaborativo e attuativo alla persecuzione dato in prima persona dal dittatore, e poi passare in rassegna l’impegno di autorità e propagandisti, locali e centrali.

Il 27 gennaio si ricordano ufficialmente i tre principali gruppi di vittime, a partire dall’8 settembre 1943: gli ebrei, i deportati politici, gli internati militari, ciascuno con la sua specificità. Per i primi, non vengono precisati i dati del trasporto e della reclusione, poiché erano destinati all’uccisione tramite gas venefico nel centro di assassinio di massa di Auschwitz Birkenau. Talora un piccolo numero degli arrivati veniva immatricolato (subendo il tatuaggio del relativo numero) e immesso nel campo, perché i carcerieri decisero che, nonostante la loro infima “razza”, potevano essere in qualche modo utili all’impero nazista, per qualche tempo. Assieme a loro, il giorno della memoria ricorda la totalità degli ebrei di tutte le nazionalità, o apolidi, uccisi ovunque da tedeschi nazisti, croati ustascia ecc., talora previamente arrestati da italiani fascisti, francesi vichysti, norvegesi collaborazionisti ecc. Il secondo gruppo commemorato è quello degli uomini e delle donne deportati per motivi di ordine politico (opposizione al nazifascismo) o connesso, e internati in una complessa rete di campi di concentramento. Dachau, Mauthausen e, per le donne, Ravensbrück furono quelli con i maggiori arrivi dall’Italia; nel tempo, vi furono molti spostamenti. Essi non vennero sottoposti alla “selezione iniziale” riservata agli ebrei sterminandi, ma nei lager subirono egualmente un trattamento durissimo e un elevato tasso di mortalità. All’interno di questo gruppo vi erano alcune persone appartenenti alle comunità rom e sinti; i dati sino a oggi recuperati riferiscono di una deportazione in piccolo numero, ma tutti gli aspetti del tema sono tuttora sotto indagine (da parte, purtroppo, di pochi storici). Il terzo gruppo menzionato dalla legge è quello dei militari italiani rastrellati nei teatri di guerra e internati in una miriade di campi tedeschi. Anch’essi subirono prigionia, lavoro coatto e morti per maltrattamento (diverso ovviamente fu il trattamento di coloro che chiesero di tornare a combattere nelle formazioni dell’Asse). La legge include infine i soccorritori, i salvatori di vite. È interessante rilevare che essa invita esplicitamente a ricordare la persecuzione, e tuttavia non fa menzione diretta dei persecutori. Si tratta di un silenzio poco opportuno, perché i “giusti” furono proprio la risposta all’opposta esistenza degli “ingiusti”. Il primo di questi ultimi fu indubitabilmente Mussolini, al quale oggi vari consiglieri comunali fascisti e antisemiti insistono a confermare la cittadinanza onoraria delle loro città. La scelta del 27 gennaio quale data per la ricorrenza del giorno della memoria fu sostenuta dalla presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Tullia Zevi, in virtù del fatto che ad Auschwitz erano stati destinati anche deportati politici italiani, sia con convogli diretti da Trieste, sia dopo una permanenza in altri lager. Quel giorno quindi ben si adattava all’impostazione ampia della legge, da lei voluta. Va poi tenuto in considerazione che il giorno della liberazione di Auschwitz, nel 1945, è presente verso la fine di Se questo è un uomo e l’inizio de La tregua, libri già all’epoca notissimi. Si trattò insomma di una scelta maturata in Italia, anche se proprio a cavallo tra i due secoli si era sviluppata una tendenza internazionale a far convergere in tale data la memorizzazione ufficiale della Shoah. Riguardo a tutto ciò, va comunque tenuto presente che solo un sesto degli ebrei europei sterminati nella Shoah venne ucciso nel campo di Auschwitz Birkenau. In termini sintetici, la legge del 2000 concerne l’insieme della Shoah, la persecuzione antiebraica avvenuta in Italia, tutti i perseguitati italiani, i soccorritori. Né essa, né altre leggi della nostra Repubblica hanno per oggetto la violenza omicida italiana fascista nelle terre colonizzate o occupate e le sue vittime. È un’assenza dolorosa, anche perché paesi democratici come la Germania hanno fatto una scelta opposta. Tutti gli anni, in occasione del 27 gennaio si registra un pullulare di iniziative, Covid permettendo. Ve ne sono di retoriche e di responsabili. Le prime infastidiscono, ma sono in parte inevitabili. E comunque non serve dedicare tempo a commentarle. Le seconde sono un bel frutto di questo complesso testo normativo. Sono portate avanti perlopiù nelle scuole, nelle università, da gruppi locali, da comitati spontanei. E sono quelle più feconde. In genere vanno al di là del costrutto “memoria – mai più” e indagano conmolteplici modalità ciò che accadde, ossia sviluppano un percorso di approccio, approfondimento, ricerca, studio, apprendimento, elaborazione, conoscenza, consapevolezza. Tappe tutte indispensabili, al fine di non erigere un edificio memoriale di sabbia a bordo mare. In fondo, questo è ciò che chiede la legge 211/2000 e che ne costituisce la parte più apprezzata: «narrazione e riflessione». Anche relativamente alla legge stessa.


MICHELE SARFATTI


Nella legge sul giorno della memoria manca la responsabilità dei fascisti

La conoscenza del testo normativo

Nella legge sul giorno della memoria manca la responsabilità dei fascisti

©Publifoto/Archivio Storico Lapresse 26-01-2005 Milano, Italia Interni Nella foto d'archivio: BENITO MUSSOLINI passa in rivista le grandi unitˆ. Busta 3008/1
  • Dal luglio 2000 la legge sul Giorno della memoria invita gli italiani a ricordare, ogni 27 gennaio, la Shoah e le «leggi razziali», i deportati politici, i militari internati, coloro che si opposero allo sterminio a rischio della vita.
  • La legge del 27 gennaio ha una singolare lacuna: il suo titolo e il suo testo menzionano i «campi nazisti», ma non contengono i vocaboli fascismo, fascisti.

  • Concerne l’insieme della Shoah, la persecuzione antiebraica avvenuta in Italia, tutti i perseguitati italiani, i soccorritori. Né essa, né altre leggi della nostra Repubblica hanno per oggetto la violenza omicida italiana fascista nelle terre colonizzate o occupate e le sue vittime.

Dal luglio 2000 la legge sul Giorno della memoria invita gli italiani a ricordare, ogni 27 gennaio, la Shoah e le «leggi razziali» (che però gli analisti denominano «razziste» o «antiebraiche»), i deportati politici, i militari internati, coloro che si opposero allo sterminio a rischio della vita.

A tale fine, «sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado», «affinché simili eventi non possano mai più accadere». Questo è il succo della legge.

La ricorrenza è stata apprezzata e si è radicata, costruendosi uno spazio autonomo rispetto alle feste civili nazionali e marcando una vitalità diffusa, superiore a quella di molti “giorni memoriali” successivamente istituiti.

Tra le ricorrenze preesistenti, palesa una maggiore sofferenza la festa nazionale della Liberazione (25 aprile), che peraltro omaggia proprio chi morì per estirpare i responsabili di quelle persecuzioni e violenze.

Purtroppo quel giorno non ha il sostegno di una legge articolata, come quella sul 27 gennaio; inoltre oggi vi sono ancora troppi italiani che non sopportano quella lotta di estirpazione e la sua festa.

Tra le ricorrenze memoriali successive, soffre in particolare il “Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale” (10 febbraio), rimasto vittima della malevolenza di chi scrisse il testo di legge: il 10 febbraio 1947 l’Italia firmò il trattato di pace definitivo con gli Alleati (contenente tra l’altro la sistemazione dei confini ove convergono le penisole italiana e balcanica) e però questa legge memoriale non contiene una condanna delle cause che portarono l’Italia a quella guerra che portò a quella pace: fascismo, dittatura, bellicismo, imperialismo.

La lacuna

Andrea Alfano/LaPresse

La legge del 27 gennaio ha una singolare lacuna: il suo titolo e il suo testo menzionano i «campi nazisti», ma non contengono i vocaboli fascismo, fascisti. Peraltro il suo testo condanna esplicitamente «la persecuzione italiana dei cittadini ebrei». Quindi da un lato è silenziosa sulle responsabilità specifiche del regime di Benito Mussolini, dall’altro addita una responsabilità del paese in generale, concretatasi ad esempio nella sostanziale assenza di dimissioni polemiche o proteste pubbliche contro l’introduzione dell’antisemitismo di stato nel 1938.

Su un altro piano, va rilevato che la presenza di un riferimento territoriale o nazionale, in luogo di quello storico politico, chiama in causa anche i tempi attuali, ovvero la persistenza odierna di pregiudizi o ostilità verso gli ebrei.

Per rimediare alla lacuna, occorre richiamare innanzitutto il notevole apporto elaborativo e attuativo alla persecuzione dato in prima persona dal dittatore, e poi passare in rassegna l’impegno di autorità e propagandisti, locali e centrali.

Le vittime

Il 27 gennaio si ricordano ufficialmente i tre principali gruppi di vittime, a partire dall’8 settembre 1943: gli ebrei, i deportati politici, gli internati militari, ciascuno con la sua specificità.

Per i primi, non vengono precisati i dati del trasporto e della reclusione, poiché erano destinati all’uccisione tramite gas venefico nel centro di assassinio di massa di Auschwitz Birkenau. Talora un piccolo numero degli arrivati veniva immatricolato (subendo il tatuaggio del relativo numero) e immesso nel campo, perché i carcerieri decisero che, nonostante la loro infima “razza”, potevano essere in qualche modo utili all’impero nazista, per qualche tempo.

Assieme a loro, il giorno della memoria ricorda la totalità degli ebrei di tutte le nazionalità, o apolidi, uccisi ovunque da tedeschi nazisti, croati ustascia ecc., talora previamente arrestati da italiani fascisti, francesi vichysti, norvegesi collaborazionisti ecc.

Il secondo gruppo commemorato è quello degli uomini e delle donne deportati per motivi di ordine politico (opposizione al nazifascismo) o connesso, e internati in una complessa rete di campi di concentramento. Dachau, Mauthausen e, per le donne, Ravensbrück furono quelli con i maggiori arrivi dall’Italia; nel tempo, vi furono molti spostamenti.

Essi non vennero sottoposti alla “selezione iniziale” riservata agli ebrei sterminandi, ma nei lager subirono egualmente un trattamento durissimo e un elevato tasso di mortalità.

All’interno di questo gruppo vi erano alcune persone appartenenti alle comunità rom e sinti; i dati sino a oggi recuperati riferiscono di una deportazione in piccolo numero, ma tutti gli aspetti del tema sono tuttora sotto indagine (da parte, purtroppo, di pochi storici).

Il terzo gruppo menzionato dalla legge è quello dei militari italiani rastrellati nei teatri di guerra e internati in una miriade di campi tedeschi. Anch’essi subirono prigionia, lavoro coatto e morti per maltrattamento (diverso ovviamente fu il trattamento di coloro che chiesero di tornare a combattere nelle formazioni dell’Asse).

La legge include infine i soccorritori, i salvatori di vite. È interessante rilevare che essa invita esplicitamente a ricordare la persecuzione, e tuttavia non fa menzione diretta dei persecutori. Si tratta di un silenzio poco opportuno, perché i “giusti” furono proprio la risposta all’opposta esistenza degli “ingiusti”. Il primo di questi ultimi fu indubitabilmente Mussolini, al quale oggi vari consiglieri comunali fascisti e antisemiti insistono a confermare la cittadinanza onoraria delle loro città.

L’impostazione della legge

La scelta del 27 gennaio quale data per la ricorrenza del giorno della memoria fu sostenuta dalla presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Tullia Zevi, in virtù del fatto che ad Auschwitz erano stati destinati anche deportati politici italiani, sia con convogli diretti da Trieste, sia dopo una permanenza in altri lager. Quel giorno quindi ben si adattava all’impostazione ampia della legge, da lei voluta.

Va poi tenuto in considerazione che il giorno della liberazione di Auschwitz, nel 1945, è presente verso la fine di Se questo è un uomo e l’inizio de La tregua, libri già all’epoca notissimi. Si trattò insomma di una scelta maturata in Italia, anche se proprio a cavallo tra i due secoli si era sviluppata una tendenza internazionale a far convergere in tale data la memorizzazione ufficiale della Shoah.

Riguardo a tutto ciò, va comunque tenuto presente che solo un sesto degli ebrei europei sterminati nella Shoah venne ucciso nel campo di Auschwitz Birkenau.

In termini sintetici, la legge del 2000 concerne l’insieme della Shoah, la persecuzione antiebraica avvenuta in Italia, tutti i perseguitati italiani, i soccorritori. Né essa, né altre leggi della nostra Repubblica hanno per oggetto la violenza omicida italiana fascista nelle terre colonizzate o occupate e le sue vittime. È un’assenza dolorosa, anche perché paesi democratici come la Germania hanno fatto una scelta opposta.

Tutti gli anni, in occasione del 27 gennaio si registra un pullulare di iniziative, Covid permettendo. Ve ne sono di retoriche e di responsabili. Le prime infastidiscono, ma sono in parte inevitabili. E comunque non serve dedicare tempo a commentarle. Le seconde sono un bel frutto di questo complesso testo normativo. Sono portate avanti perlopiù nelle scuole, nelle università, da gruppi locali, da comitati spontanei. E sono quelle più feconde.

In genere vanno al di là del costrutto “memoria – mai più” e indagano con molteplici modalità ciò che accadde, ossia sviluppano un percorso di approccio, approfondimento, ricerca, studio, apprendimento, elaborazione, conoscenza, consapevolezza. Tappe tutte indispensabili, al fine di non erigere un edificio memoriale di sabbia a bordo mare. In fondo, questo è ciò che chiede la legge 211/2000 e che ne costituisce la parte più apprezzata: «narrazione e riflessione». Anche relativamente alla legge stessa.


Michele Sarfatti è autore di Il cielo sereno e l’ombra della Shoah. Otto stereotipi sulla persecuzione antiebraica nell’Italia fascista, edito da Viella

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la soluzione finale e lo shoah -olocausto compiono 80 . Conferenza di Wannsee. dalla discriminazione e dalla persecuzione al genocidio ebraico e non solo


Come promesso nel post precedente ¹  ,  onde  evitare  di cadere  nella  solita retorica  celebrativa  lascio    che  a parlare  siano  questa  testimonianza   appello 

che   conferma  quello che  dicevo e provo  a dire  d'anni  nonostante  sia deriso    è  trattato come un passatista   e diffusore  di anticaglie , ovvero che la  shoah  e     l'olocausto  debbano essere  anche  se   con gradualità   insegnante    fin dalla  più tenera  età .


  e  i  fatti Conferenza di Wannsee     cui quest'anno  si  celebrano  gli  80 anni   ovvero quando    dalla discriminazione   "  semplice  persecuzione  "   si  è passati al genocidio  .  


  da   https://encyclopedia.ushmm.org/search?query=Conferenza+di+Wannsee&languages%5B%5D=it

Durante la Conferenza di Wannsee, tenutasi a Berlino nel gennaio 1942, le SS (la guardia speciale d'elite dello stato nazista) e i rappresentanti dei ministeri del governo tedesco stimarono che la Soluzione Finale (il piano nazista per l'eliminazione degli Ebrei d'Europa) avrebbe coinvolto 11 milioni di Ebrei, inclusi quelli di paesi in quel momento non occupati, come l'Irlanda, la Svezia, la Turchia e la Gran Bretagna. Molti degli Ebrei che vivevano in Germania e nelle zone europee occupate furono deportati tramite convogli ferroviari nei campi di sterminio situati nella Polonia occupata, dove vennero uccisi. I Tedeschi cercarono di celare le loro intenzioni riferendosi alle deportazioni come a "re-insediamenti a est"; alle vittime veniva detto che sarebbero state portate nei campi di lavoro, ma in realtà, a partire dal 1942, la deportazione significò per la maggior parte degli Ebrei un breve periodo di transito verso i campi di sterminio e poi la morte.

da  https://it.wikipedia.org/wiki/Conferenza_di_Wannsee

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Metodi provvisori di persecuzione e uccisione[modifica | modifica wikitesto]

«Soluzioni territoriali»[modifica | modifica wikitesto]

In verde l'area del Governatorato Generale dopo la campagna di Polonia, e in verde chiaro l'area aggiunta al Governatorato dopo l'operazione Barbarossa

Alla data dell'invasione nazista della Polonia, il regime hitleriano era riuscito a cacciare dalla Germania circa 250 000 ebrei; tuttavia con l'inizio della seconda guerra mondiale la Judenpolitik «entrò in una fase totalmente nuova e più radicale». Circa 1,7 milioni di ebrei polacchi si ritrovarono nei territori annessi al Reich e così nell'orizzonte mentale nazista nacque l'impellente necessità di trovare una soluzione a ciò che era percepito come un notevole problema[5].  Le soluzioni iniziali furono di tipo «territoriale», ovvero la deportazione organizzata e sistematica degli ebrei soggetti al controllo tedesco in una «riserva» situata alla periferia dei territori conquistati; tuttavia le difficoltà logistiche e l'impossibilità di deportare semplicemente gli ebrei in altri paesi confinanti rese impraticabile questo progetto. Successivamente, con la conquista della Francia e delle sue colonie nella primavera-estate 1940, fu lanciata una radicale idea di «soluzione territoriale», ossia quella di deportare tutti gli ebrei nella colonia francese del Madagascar. Secondo le stime, dai 4 ai 6 milioni di persone dovevano essere trasferiti sull'isola e sottoposti a un regime di polizia. Come affermò in merito Franz Rademacher, «referente per gli ebrei» (Judenreferat) presso il ministero degli Esteri, l'intenzione era quella di considerarli «ostaggi della Germania a garanzia della buona condotta dei loro compagni di razza americani» e, «in caso di azioni ostili degli ebrei statunitensi contro il Reich», prendere nei loro confronti i «necessari e adeguati provvedimenti punitivi». Il clima intimidatorio creato da queste minacce, ma soprattutto il fatto che l'isola non offriva le condizioni per permettere a milioni di emigranti di sopravvivere (peraltro non considerate dai responsabili tedeschi) indicano che anche l'opzione Madagascar non ambiva a costruire una sorta di patria in cui accogliere gli ebrei d'Europa, bensì a sottoporli a insostenibili condizioni di vita, con conseguente abbassamento del tasso di natalità e un progressivo annientamento fisico[5]. Il persistere della guerra con l'Impero britannico e la conseguente inaccessibilità dell'isola costrinse Heydrich, capo del Reichssicherheitshauptamt (Rsha) e all'epoca figura centrale nella persecuzione degli ebrei, a elaborare una terza «soluzione territoriale». Nel gennaio 1941 presentò a Hitler un progetto dettagliato per la «soluzione finale» in ambito europeo, da portare a termine una volta conclusa la guerra; questa consisteva nel deportare tutti gli ebrei a est, in Unione Sovietica, dato che il Reich si stava preparando a invaderla. Tra marzo e luglio 1941 Heydrich presentò a Göring due bozze in cui venivano predisposti i piani generali di deportazione, che Heydrich stesso avrebbe supervisionato e coordinato. Il 31 luglio Göring ordinò a Heydrich di predisporre «tutte le necessarie misure per preparare dal punto di vista organizzativo, pratico e materiale una soluzione globale della questione ebraica nell'area dell'Europa sotto influenza tedesca», di coinvolgere, qualora necessario, altre istanze centrali (soprattutto il ministro dei Territori occupati Alfred Rosenberg) e infine di presentargli un «piano globale» relativo ai provvedimenti da adottare: a questa delega Heydrich si sarebbe richiamato in occasione della conferenza di Wannsee. Le premesse per la deportazione in massa degli ebrei d'Europa all'indomani della vittoria sull'Unione Sovietica erano dunque state create; nel frattempo sarebbe stato il territorio del Governatorato Generale (Generalgouvernement) a ospitarli in zone da utilizzare come «riserva per gli ebrei» o Judenreservat (ad esempio nel distretto di Lublino) in attesa di essere deportati verso le zone interne della Russia[6]. Questi progetti non erano stati concepiti per promuovere una futura patria semita, come rivelò nel novembre 1939 in un rapporto il vicegovernatore Arthur Seyss-Inquart:

«[...] il distretto di Lublino, assai paludoso, potrebbe ben servire come riserva per gli ebrei, producendo con ogni probabilità una drastica decimazione»

(Rapporto di Seyss-Inquart, 20 novembre 1939[7])

Le deportazioni iniziarono effettivamente nell'autunno 1941, ma la Wehrmacht non ottenne la preventivata veloce vittoria sull'Unione Sovietica. Si generò, pertanto, un'ulteriore radicalizzazione della Judenpolitik che, dopo l'attacco tedesco ai territori sovietici, assunse rapidamente le dimensioni di un genocidio[5].

Deportazioni e fucilazioni[modifica | modifica wikitesto]

L'operazione Barbarossa, scattata il 22 giugno 1941, servì alla Germania a dare avvio a una campagna militare razziale, di conquista brutale e distruzione. La popolazione sovietica, che nell'immaginario nazionalsocialista non era altro che un insieme eterogeneo di popoli slavi e «razze miste» di ceppo asiatico considerate "sottouomini" (Untermenschen), sarebbe stata assoggettata, espulsa verso le aree interne della Russia o lasciata morire di fame. Ciò avrebbe permesso di liberare uno «spazio vitale» in cui i coloni tedeschi, o quelli provenienti da aree geografiche o nazioni considerate germaniche, come i Paesi Bassi e la Scandinavia, si sarebbero trasferiti.

Da sinistra a destra: Rudolf HessHeinrich HimmlerPhilipp BouhlerFritz Todt e Reinhard Heydrich ascoltano Konrad Meyer-Hetling durante un'esposizione del Generalplan Ost, 20 marzo 1941

La guerra, inoltre, creò i presupposti per un'azione diretta nei confronti della componente ebraica della popolazione dell'Europa orientale, componente che sarebbe stato necessario eliminare sistematicamente per privare il cosiddetto «bolscevismo giudaico» della propria base demografica. Perciò, uno degli obiettivi principali dell'invasione tedesca dell'Unione Sovietica fu quello di sopprimere tutti gli esponenti di una non meglio definita classe dirigente ebraico-comunista, per consegnare ai coloni tedeschi a guerra finita lo spazio vitale "libero dagli ebrei" (Judenfrei) nell'ambito del più generale progetto di ristrutturazione territoriale e demografico dell'Est europeo sotto dominio tedesco, noto con il nome di Generalplan Ost[8]. Già durante la preparazione dell'invasione dell'Unione Sovietica, Hitler aveva emanato una serie di direttive che miravano all'eliminazione dell'«intellighenzia giudaico-bolscevica», chiarendo a generali, ufficiali delle SS e della Wehrmacht che la guerra a est non si sarebbe svolta secondo i classici canoni di uno scontro tra belligeranti, ma che sarebbe stata una vera e propria lotta tra due ideologie contrapposte, da svolgersi quindi con tutta la determinazione possibile: si doveva agire senza pietà contro gli agitatori bolscevichi, i partigiani, i sabotatori, gli ebrei e annientare ogni forma di resistenza attiva o passiva. Parallelamente furono diramate disposizioni che di fatto concedevano carta bianca alle truppe al fronte, le quali non sarebbero state in alcun modo punite se ritenute responsabili di crimini di guerra: in questo contesto il Reichsführer-SS Heinrich Himmler affidò le mansioni di rastrellamento ed eliminazione fisica delle categorie citate a quattro Einsatzgruppen ("unità operative" composte da personale della SiPo e del SD), ma anche a ventitré battaglioni della Polizia d'ordine e a tre SS-Totenkopfbrigaden (i reparti "Testa di morto" delle SS, sottoposte direttamente a Himmler), che avrebbero agito nelle retrovie del fronte in collaborazione con distaccamenti dell'esercito regolare[8].

Nel maggio 1941 le condizioni di vita nel ghetto di Varsavia erano già atroci: un anziano giace sul marciapiede, sopraffatto dalla fame e dalla fatica

Le fucilazioni sistematiche e indistinte degli ebrei iniziarono dunque già nella prima metà dell'agosto 1941; al contempo Himmler aveva ingiunto di dare inizio a uccisioni in massa anche di donne e bambini, esortando le SS-Totenkopfbrigaden a organizzare grandi massacri di migliaia di civili ebrei. Allo scopo di completare tale piano, il Reichsführer-SS spostò il cuore delle operazioni dalla SiPo, le cui Einsatzgruppen erano addette in primo luogo alle uccisioni dei bolscevichi ebrei, ai comandanti in capo delle SS e della polizia, i quali, in quanto suoi plenipotenziari a livello locale, potevano coinvolgere i membri di tutti i corpi delle SS e della polizia per un genocidio da estendere all'intero territorio. In tal modo, accanto alla rodata via gerarchica per la politica verso gli ebrei che andava da Hitler a Göring fino a Heydrich, Himmler ne attivò una seconda con l'autorizzazione di Hitler. Da allora poté intervenire ovunque nella Judenpolitik attraverso i suoi sottoposti delle SS e della polizia, riguadagnando quindi il terreno politico perduto nei confronti di Heydrich, il quale dal 1939 era stato colui che più di tutti si era dedicato alla persecuzione degli ebrei[8].

Alla fine del 1941 almeno mezzo milione di ebrei era già stato ucciso dalle forze armate tedesche in Unione Sovietica, ma lo sterminio non era ancora diventato la soluzione definitiva: Hitler, Heydrich e gli alti gerarchi continuarono a confidare nell'idea di trasferire gli ebrei d'Europa nei territori che avrebbero conquistato alla conclusione vittoriosa del conflitto[9] e, non a caso, il processo di raccoglimento degli ebrei nei grandi ghetti del Governatorato Generale era andato avanti speditamente. Tuttavia, quando si comprese che la guerra sarebbe durata ancora a lungo, si andarono delineando in maniera più precisa i contorni della tappa successiva alla ghettizzazione. Nell'inverno 1941-1942 cominciò l'estensione del sistema concentrazionario tedesco sul territorio polacco, comprese le aree della Polonia annesse al Reich (come nel caso di Auschwitz), operazione che fu contraddistinta dalla costruzione di veri e propri campi di sterminio e che segnalò una nuova e inquietante fase dell'atteggiamento nazista nei confronti della questione ebraica[10].

Scarico di cadaveri da un treno di deportati verso i campi di concentramento

Questo "salto qualitativo", incrociato con il piano di ristrutturazione territoriale e demografico teorizzato nel Generalplan Ost, non lasciava dunque alternativa alcuna alla soluzione della liquidazione fisica. Secondo lo storico Enzo Collotti, quindi, a differenza dell'ipotesi avanzata dallo storico statunitense Arno J. Mayer, la decisione dello sterminio non fu conseguente al fallimento dell'operazione Barbarossa, ma anteriore a essa, in quanto appunto guerra di sterminio su base ideologica e biologica fin dalla preparazione. Alla fine del 1941 il meccanismo della distruzione in massa, del quale le Einsatzgruppen non erano che una variante relativamente autonoma, era ormai in pieno dispiegamento: la conferenza di Wannsee non rappresentò, come talvolta si dice, il momento in cui fu decisa la soluzione finale, ma semplicemente la tappa fondamentale per il suo coordinamento e la sua sincronizzazione a livello continentale europeo[11].

Nel settembre 1941 Hitler aveva già deciso di dare avvio alle deportazioni senza attendere la vittoria sull'Unione Sovietica e, nell'autunno successivo, i vertici del regime nazista presero a considerare e condurre la guerra su tutti i fronti come una lotta «contro gli ebrei»; Hitler e i gerarchi si mostrarono decisi a non farsi influenzare dall'andamento delle ostilità e a perseverare nell'obiettivo di deportare gli ebrei in un luogo isolato per abbandonarli al loro destino o ucciderli attraverso il lavoro[9][12]. Nelle settimane che seguirono la decisione di dare avvio alle deportazioni, Hitler evidenziò la sua risolutezza a espellere definitivamente tutti gli ebrei dall'Europa e il 23 settembre il ministro della propaganda, Joseph Goebbels, fu informato dal Führer che Berlino, Vienna e Praga sarebbero state le prime città a essere "liberate" dagli ebrei. Il successivo 6 ottobre Hitler dichiarò che tutti gli ebrei dovevano essere allontanati dal Protettorato, ma non condotti nel Governatorato Generale, bensì ancora più a est. Insieme agli ebrei del Protettorato sarebbero dovuti «scomparire anche gli ebrei di Vienna e Berlino». Come Heydrich chiarì durante un colloquio tenuto il 10 ottobre a Praga, Hitler si augurava che gli ebrei venissero allontanati dal suolo tedesco possibilmente entro la fine dell'anno. Inoltre le deportazioni della primavera successiva avrebbero interessato anche le popolazioni semite presenti nei territori occupati[9].

Sterminio[modifica | modifica wikitesto]

Esecuzione di civili sovietici da parte di Einsatzgruppen

Una volta iniziate le deportazioni alla metà di ottobre, i vertici nazisti iniziarono a parlare sempre più spesso e apertamente della «distruzione» degli ebrei[13]. Queste dichiarazioni perseguivano lo scopo palese di accelerare e forzare la radicalizzazione della Judenpolitik già avviata con le deportazioni e le «soluzioni finali» messe in atto a livello regionale e locale, ad esempio le fucilazioni di massa operate dalle Einsatzgruppen e dalla Wehrmacht in Unione Sovietica e nei Balcani: infatti, soprattutto in Serbia, è provato che i soldati regolari giustiziassero in gruppi gli ebrei presi in ostaggio come ritorsione per le aggressioni dei partigiani nei confronti di militari tedeschi. Nel paese fecero inoltre una precoce comparsa i gaswagen creati su iniziativa del Sonderkommando Lange, inizialmente destinati alla soppressione dei disabili in Germania e, successivamente, utilizzati per uccidere ebrei e prigionieri di guerra sovietici anche nei territori occupati all'est. Sempre nella seconda metà del 1941 i tedeschi avevano avviato le sperimentazioni con lo Zyklon B nei campi di concentramento, dove furono edificate le prime rudimentali camere a gas, e l'impostazione dei primi campi di sterminio, che dovevano spostare il massacro dal livello dell'efferatezza selvaggia dei reparti speciali alla premeditazione scientifica dell'eccidio programmato e industrializzato.[14][15] Una radicalizzazione ulteriore della Judenpolitik avvenne con l'ingresso in guerra degli Stati Uniti d'America, il che rappresentò per i vertici nazisti un segnale inequivocabile dello spettro della congiura mondiale giudaica contro la Germania[13]. Se nell'autunno 1941 Hitler aveva considerato l'ipotesi di usare gli ebrei deportati come ostaggi per impedire l'entrata in guerra degli Stati Uniti, l'apertura delle ostilità con Washington rese obsoleto questo machiavellico calcolo politico; tuttavia, il Führer mantenne ferme le proprie convinzioni e ribadì le minacce di distruzione[16]. La decisione presa da Hitler di deportare nell'immediato tutti gli ebrei nei territori sotto l'influenza tedesca a est, tracciò le coordinate degli sviluppi futuri della Judenpolitik, nonostante non esistesse un piano globale o un preciso orientamento temporale per la distruzione degli ebrei d'Europa: prima della decisione definitiva e in attesa di una vittoria totale sui sovietici, le deportazioni sarebbero approdate in ghetti sparsi tra il Governatorato, l'Unione Sovietica e la Cecoslovacchia, pensati come campi di transito. La decisione di dare il via alle deportazioni ebbe come conseguenza l'inizio di frenetici preparativi volti alla costruzione di grandi strutture in cui uccidere con l'ausilio dei gas gli ebrei locali «inabili al lavoro», fatte sorgere nei pressi dei ghetti scelti come meta delle prime ondate di deportazioni dal Reich: a Riga per l'area di Łódź, a Bełżec (Lublino) e a Mogilëv (Minsk)[17]. Tuttavia, nell'autunno 1941, l'intenzione di deportare verso est gli ebrei rimasti nei territori sovietici occupati all'indomani della fine vittoriosa del conflitto non era ancora tramontata e rimaneva uno dei piani della «soluzione finale» da realizzarsi a lungo termine, non con lo sterminio diretto. Nell'ottica dei principali attori del genocidio, dunque, alla fine del 1941 nacque l'esigenza di ricondurre a un unico denominatore comune le due linee di sviluppo della Judenpolitik in cui si riconoscevano rispettivamente Himmler e Heydrich[17]: estendere le fucilazioni in massa e le «soluzioni territoriali» messe in atto dalle SS- und Polizeiführer in Unione Sovietica, trasformandole in genocidio; oppure sviluppare un «piano di totale evacuazione degli ebrei dai territori occupati», di cui Heydrich era debitore a Göring sin dalla fine di luglio precedente[9].

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    è ricordate  questo è  stato   ....  mi fermo qui    perchè  due  parole  sono troppe   e  una  è  poco  . 

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«Abitavo ai Parioli e avevo 3 Ferrari», Alberto adesso vive in un'auto a Firenze




lberto ha 82 anni e un passato di alti e bassi. Era ricco, ma ha tradito la moglie e ha perso una figlia. Adesso non ha più niente, nemmeno la carta d'identità




Alberto ha 82 anni e aveva una vita normale, anzi. Sicuramente conduceva una vita oltre la norma: abitava a Roma ai Parioli in 300 metri quadri e in garage aveva 3 Ferrari. Poi, però, sua figlia si è ammalata di Aids e lui è tornato a Roma per assisterla, ma a soli 31 anni è morta. E in poco tempo la sua vita si è capovolta. Adesso vive in una macchina a Firenze, dorme in una struttura Caritas nel comune limitrofo di Sesto Fiorentino, ma può starci solo la notte.
In un'intervista al Corriere Fiorentino, Alberto ha raccontato la sua storia. Tutto è cambiato dal momento in cui sua figlia è morta. «Da allora la mia vita è precipitata, non avevo più voglia di fare niente». E così Alberto smette di lavorare, trova qualche impiego passeggero, ma durano quanto il tempo di un'illusione. Da Roma si trasferisce a Firenze, dove trova accoglienza in una struttura per emarginati dell'Opera Pia. Poi la struttura chiude e lui arriva a Sesto Fiorentino, in casa di un amico. Dopo poco muore anche lui e Alberto si ritrova per strada.
Oggi ha 82 anni e vive in una struttura Caritas dove, appunto, può stare solo la notte. «Resto fuori tutto il giorno. Dalla mattina presto fino alle 19 - racconta -. Il pranzo lo salto sempre». La sua vita diventa un'eterna attesa che il giorno termini e possa far rientro nella struttura. Esce la mattina presto e inizia a vagare per la cittadina, non ha soldi per un caffè o un panino e quindi spesso entra nei bar per poi uscire poco dopo. E vaga in cerca di riparo, facendo pensieri orribili. Guarda le persone senza prestare attenzione e nessuno gli rivolge la parola.Alberto è anche senza denti: «Mi hanno rubato la dentiera», racconta sconsolato. E intervistato da Jacopo Storni racconta: «E pensare che un tempo ero ricco. Avevo una camiceria ai Parioli, vestivo personaggi illustri, vivevo in una casa di 300 metri quadri, guadagnavo tanto, ho avuto 3 Ferrari, una bianca, una nera e una marrone». Oggi, invece, gli è rimasta solo una Punto rossa che tiene parcheggiata nel parcheggio della Caritas. «Spesso mi rinchiudo nella macchina, per sentire meno freddo. Ma tengo il motore spento per non consumare la benzina e, quindi, fa freddo lo stesso». 
L'82enne ha un figlio, avuto dalla sua seconda compagna, ma lui non sa nulla di questa situazione. I rapporti tra i due non sono buoni: «A volte - confessa - lo chiamo al telefono, ma quando risponde riattacco velocemente perché mi vergogno».
In passato ha commesso molti errori. «Conoscevo tutti a Roma. Ero amico del fratello di Raffaella Carrà e spesso ero a casa loro. Quando è morta ho pianto. Mia moglie era un'indossatrice di Valentino, era bellissima. Ma io non sono stato un buon marito e un buon padre. L'ho tradita con un'altra donna e sono scappato in Brasile». La sua vita assomiglia più a un romanzo e, probabilmente, ci vorrebbe un libro per capirla al meglio, ma in quest'ultimo periodo Alberto ha perso tutto.
Per gli anni di lavoro e di contributi versati gli spetterebbero 650 euro al mese di pensione. Ma sono ben 5 mesi che non li ritira. «Ho perso la carta d'identità e non posso ritirare la pensione senza. Ma non posso nemmeno rifarla perché non ho una residenza...».
In realtà il Comune di Firenze permette, tramite l'iscrizione all'anagrafe, alle persone senza fissa dimora di richiedere la carta d'identità, di accedere all'assistenza sanitaria e di ottenere tutti i documenti e beneficiper i quali la residenza anagrafica è condizione necessaria. Con una sola clausola, dimostrare di risiedere in pianta stabile sul territorio. Cosa che, in effetti, Alberto fa. «Ma in questo momento l'ente che mi ospita non mi sta aiutando».



21.1.22

Dal Friuli agli States per andare in buca A Manhattan l’italiano Federico Frangiamore dà lezioni di golf (indoor) a chi non ha tempo di passeggiare sui prati. E così è diventato una piccola, e ben pagata, celebrità.




Sul Venerdì del 21 gennaio 2022


NEW YORK.
Giocare a golf in venti metri quadrati. Praticamente un tinello. Ultra-tecnologico, però. Con telecamere
che misurano la velocità del colpo, l'angolazione dell'impatto, la distanza percorsa dalla palla e così via. È quel che succede al Five Iron, il campo indoor a due passi dal celebre gran magazzino Macy's. È questo il regno di Federico Frangiamore, 35 anni, da Pordenone, che insegna lo swing ai newyorchesi che se lo possono permettere. E qui la notizia, oltre al fatto che questi micro-campetti al chiuso siano sempre pieni giorno e notte, è che tra tutti i possibili maestri gli americani scelgano proprio un italiano. Che, a parti invertite, è un po' come se nel calcio da noi facesse fortuna un allenatore yankee (ipotesi dell'irrealtà così estrema che ci han costruito sopra Ted Lasso, un serie tv da ridere). Eppure va proprio così e, alla modica cifra di 175 dollari l'ora, questo affabile friulano da esportazione va via come il pane. Abbiamo cercato di capire il perché.
Martedì sera, un quarto alle sette, Frangiamore ha appena finito una lezione e per l'occasione si è tenuto libero per il resto della serata. Maglioncino bianco a losanghe verdi e grigie, polo bianca col colletto rialzato, capelli neri con la scriminatura nel mezzo: la sua è la faccia rilassata di uno che ce l'ha fatta e non ha alcun imbarazzo ad ammetterlo. Mi fa fare un giro del locale, pienissimo di manager che hanno appena staccato dall'ufficio e di amici e fidanzate che li guardano allenarsi a bordo campo, spiluccando hamburger e patatine ("Non c'è attività umana che gli americani concepiscano senza mangiare" giustamente osserva).

I campi indoor del Five Iron (Riccardo Staglianò)


Il centro di tutto sono questi simulatori di ultimissima generazione. Immaginate per terra un rettangolo d'erba sintetica sei metri per quattro che finisce con un muro che consiste in un telone a cui sono attaccati un sacco di sensori contro il quale la palla andrà scagliata. Una telecamera riprende il giocatore da dietro e un'altra di lato per osservare il movimento da diverse angolature. Così, oltre a fidarti di quel che ti dice il maestro, puoi anche rivederti per capire esattamente dove hai sbagliato.
Frangiamore è qui da stamani alle nove. Cerca di non esagerare e la sua settimana tipo è dal martedì al sabato, ma se si tratta di accontentare i clienti ha fatto lezioni anche alle sei di mattina o alle nove di sera. "Questa è gente molto impegnata" dice, "e al lavoro non si dice di no".

L'asma da bambino

Il golf, per lui, è una faccenda di famiglia. Suo padre, gioielliere pordenonese, giocava, e sua madre, dopo il divorzio, è andata a vivere in un golf club. Anche le due sorelle giocano, ma son più brave nel tennis (tra le prime mille al mondo nella classifica Itf). Da bimbo asmatico Federico non poteva fare altri sport ma questo sì. Dunque pratica da quando si può ricordare. Primo torneo a cinque anni, nazionale a sedici, professionista a diciannove. Fa il maestro a Lignano, poi a Caorle. Diventa Head Pro, la cintura nera del golf, nel 2015. Nel negozio paterno, dove dà una mano, conosce la donna che diverrà sua moglie, concittadina che fa la manager della logistica nel New Jersey. Che sta a fare in provincia quando oltre oceano c'è pieno di paradisi delle diciotto buche? Chiede un visto 01, per "abilità speciali", e glielo concedono.2021Dieci anni fa si trasferisce. A un evento della Camera di commercio appende un foglio proponendo lezioni. Passano due ore e riceve quaranta email. Forse non è stata una cattiva idea. Lo prendono al Golf Manhattan, un campo tradizionale, dove resterà tre anni. Da lì passa a Brooks Brothers, sì, la catena di abbigliamento. Nello storico e immenso negozio di Madison Avenue hanno pensato bene di montare un simulatore di ultima generazione ma serve un insegnante. Frangiamore, elegante ed esotico al punto giusto per via dell'accento (ci ride su a tutt'oggi: "If only I could speak English", sospira, quando ovviamente lo parla bene), si presenta e ci resta fino all'inizio della pandemia quando il negozio chiuderà. È in questo periodo che il New Yorker se ne accorge e gli dedica un ritrattino incuriosito e complimentoso.

L'onestà prima di tutto

Autoironia a parte, perché vengono da lui? "Mah, perché a dispetto dell'idea comune noi italiani siamo giocatori più tecnici. E poi forse li illudo meno dei maestri locali: non dico mai "wow, sei il migliore". È un'onestà che evidentemente paga". Ma quanto tempo serve per imparare? "Dipende, ovviamente, ma direi che in 4-6 mesi di lezioni arrivi alla sufficienza e poi mantieni con due ore di pratica e una lezione alla settimana".
Non so perché ma la mia calcolatrice interiore ha cominciato a funzionare: gli faccio notare che è uno sport molto elitario. Nega e abbozza una lista della spesa minima: "Una sacca con quattordici bastoni si trova anche usata sugli 800 dollari. Per i campi si va dai 35 ai 250 dollari, è molto variabile. E le lezioni vanno dagli 80 ai 200". Appunto. Ma ormai ha interiorizzato il tenore di vita newyorchese ("Qui si deve moltiplicare tutto per tre, a partire dal prezzo di un caffè") e obietta che anche tennis e sci non sono da meno. Con il vantaggio supplementare, nel caso dell'indoor, che invece di stanziare cinque ore medie per terminare diciotto buche e un paio d'ore di viaggio per andare e venire dai campi fuori città qui in un'ora-un'ora e mezzo fai tutto. Sempre a patto di avere i tremila dollari di iscrizione annua.
Cliente chiama cliente
I suoi clienti sono perlopiù professionisti: "Tanti avvocati d'affari, specializzati in acquisizioni, oppure chirurghi, dentisti. Gente che ha poco tempo libero a disposizione e vuole ottimizzarlo. Il più delle volte diventiamo amici e finiamo a giocare insieme anche fuori dalle lezioni". L'indomani, per dire, partirà per quattro giorni sui campi della Florida invitato da un allievo. L'ingenuo registratore di cassa che è in me si allarma per il prolungato lucrum cessans: "È pur sempre un'importante occasione di networking. Non so chi ci sarà ma so che in questi anni clienti hanno portato altri clienti e altri clienti ancora. In altre parole giocare è un investimento". Pur soddisfatto del presente se proprio deve spingersi a immaginare un futuro lo colloca in California: "Campi da cartolina. Ritmi più lenti. Sole perenne. Mi vedrei bene a fare sempre l'Head Pro ma all'aperto, in un campo prestigioso a Los Angeles o a Santa Monica". In effetti ci sono prospettive peggiori.
In Italia torna un paio di volte all'anno, a trovare la famiglia. Tutta fiera del sogno americano realizzato dal ragazzo. D'altronde lo insegnava già 90 anni esatti fa Duke Ellington, parlando d'altro, in It Don't Mean a Thing (If It Ain't Got That Swing): "Non significa niente se non ha lo swing giusto". Il fatto che per acquisirlo ci sia da pagare dodici volte il salario minimo è uno di quei dettagli che New York digerisce meglio di qualsiasi altra metropoli.

18.1.22

“Cose, spiegate bene. Questioni di un certo genere” di AA. VV. recensione di Cristian porcino di lerecensionidelfilosofoimpertinente.blogspot.com






(“Cose, spiegate bene. Questioni di un certo genere” di AA. VV., Iperborea, pp. 223, € 19,00).

Qualche settimana fa il sindacato Sap ha scritto al capo della polizia Giannini per affermare: “Noi le mascherine rosa non le indossiamo. Non fanno onore alla divisa”.
Tale frase svela una subcultura di stampo patriarcale e machista che da secoli alimenta gli stereotipi di genere.
Per far luce su questi argomenti vi consiglio vivamente la lettura del libro Cose spiegate bene. Questioni di genere. Un volume preziosissimo che aiuta a comprendere le identità sessuali, la differenza tra genere e sesso, la storia del colore rosa, lo strangolamento da boa di struzzo, i percorsi di transizione e molto altro. La filosofa Rosa Luxenburg sosteneva che: “Il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”. Quando per ignoranza non comprendiamo una realtà e utilizziamo frasi e concetti inappropriati creiamo intorno a noi soltanto infelicità.
Infatti Luca Sofri scrive nell’Editoriale che occorre: “… scegliere le parole, se si vuole - ognuno nel suo piccolo - «migliorare il mondo»”. Ad esempio intervenendo: “sulla lingua e sui termini che possono essere offensivi o discriminatori, malgrado il loro consolidato uso diffuso, e forzarne l’eliminazione e la sostituzione con formule meno familiari ma più rispettose”. Combattere ogni forma di discriminazione è una responsabilità che coinvolge tutti noi !  In definitiva un libro da non perdere assolutamente.
                                                        Cristian A. Porcino Ferrara