«Ogni giorno dovremmo fare una cosa nuova e una cosa vecchia. Tu vai a letto a mezzanotte e ti chiedi: oggi cosa ho fatto di nuovo e cosa ho fatto di antico? Non devono essere cose eccezionali, basterebbe semplicemente percorrere una strada che non hai mai fatto, semplicemente metterti una maglia che non ti sei mai messo perché pensavi ti stesse male, una piccola cosa, ma allo stesso tempo recuperare anche un gesto antico: come salutare uno sconosciuto o dire una preghiera. Queste due cose insieme fanno futuro».
da il suo istangram https://www.instagram.com/francoarminio/ |
«La vita può sempre portare delle situazioni nuove, dobbiamo mettercelo in testa, possono essere belle o possono essere terribili. E questo è il mistero. Noi non dobbiamo mai ridurre la quota di mistero, noi non sappiamo cosa ci può accadere tra un’ora. Se noi tendiamo a rendere prevedibile la giornata, a fare solo cose programmate, a sapere già cosa faremo questa sera alle otto, allora un po’ si impoverisce la vicenda umana. La vita è una danza tra mistero e cose conosciute, l’impensato è una grande risorsa». La sfida mi sembra di quelle da accogliere: guardare le cose con occhi nuovi e osservare ciò che ci circonda: «Il mondo esterno ci può guarire, uscire di casa la mattina con curiosità aperti all’incontro con gli altri è una grande medicina. Dobbiamo avere più fiducia in quello che c’è fuori».
«Caio Mario amava la strada, dovunque e comunque, e diceva: io vedo l’uomo così com’è soltanto sulla strada. Nelle sue foto non c’è mai qualcuno che posa: per fare uno scatto che a te può sembrare posato, lui ha dovuto camminare mesi». Caio Mario di cognome faceva Garrubba, era un fotogiornalista speciale, il suo set erano le strade del mondo, lavorò sempre come freelance e pubblicò su tutte le più importanti riviste dagli Anni Cinquanta ai Settanta, dal Mondo di Pannunzio all’americana Life. È mancato a 91 anni nel 2015, senza aver avuto la notorietà e gli onori che meritava dopo la fine della sua carriera, ma oggi è in atto una sua riscoperta la cui artefice è stata la donna che ha amato per 43 anni e che aveva conosciuto a una festa a Varsavia nel 1961.
Alla Folonietov, polacca di origine cosacca, due anni dopo la morte di Caio Mario decise che tutti i negativi, le diapositive e i provini che il marito aveva catalogato non potevano andare perduti. Così cedette l’intero archivio all’Istituto Luce, salvandolo dall’oblio e regalandogli una nuova fortuna. Io l’ho scoperto in una mostra meravigliosa che si può visitare fino al 28 novembre a Palazzo Merulana a Roma, curata da Emiliano Guidi e Stefano Mirabella.
Emiliano, che si occupa della conservazione della parte fotografica dell’Archivio storico Luce, ricorda il giorno in cui Alla gli aprì la porta della casa di Spoleto: «Mi aveva detto di non presentarmi prima delle tre del pomeriggio, perché amava dormire tutta la mattina. Temevo fosse una donna schiva, invece non vedeva l’ora di raccontare, e per giorni mi parlò del marito fino a notte fonda. Voleva che non andasse perduto nessun ricordo, voleva dargli una seconda vita e continuava a ripetermi quanto lo avesse amato. Tanto che io decisi di riprenderla e registrammo un’intervista di più di cinque ore (potete ascoltarne qui un breve estratto). Due anni dopo quella prima visita scomparve anche lei, ma sicuramente serena di aver fatto la sua parte».
«Nella casa di Spoleto c’erano foto appese ad ogni parete, non smettevo di guardarle, e rimasi subito affascinato dallo sguardo delle persone che aveva ritratto. Poi mi portò a vedere l’archivio: 60mila negativi contenuti in una lunga fila di scatole da scarpe. Ricordo l’emozione del privilegio di mettere le mani nella vita intera di un fotografo che ha raccontato il mondo e le sue strade. Quando pensavamo di aver visto tutto, Alla mi disse che in una piccola casa che avevano in campagna doveva esserci qualcos’altro. Ci andammo e dietro una porta chiusa da anni, in un sottoscala, trovammo degli scatoloni con una scritta a pennarello: “Scarti”. Erano pieni di diapositive, che nella sua severità Caio Mario non aveva mai voluto pubblicare, ma che non aveva nemmeno veramente eliminato. In quegli scatoloni c’erano delle perle». Oggi il lavoro di Carrubba è stato tutto digitalizzato, ci sono voluti quattro anni per farlo, e al Luce stanno catalogando ogni foto per renderle tutte fruibili e pubbliche.
«È giunta l’ora di riscoprirlo, è stato un incredibile innovatore che già negli anni Cinquanta scattava delle foto con uno stile e un’idea che era molto più moderna del suo tempo. Una fotografia fatta di sfumature, come dice Tano D’Amico che non lo ha mai dimenticato: “Nelle sue foto non succede nulla, c’è solo la vita che scorre”. È così: Garrubba non è il fotografo del momento decisivo, dell’attimo, ma è un fotografo di atmosfera e ha un linguaggio che troveremo poi nei grandi fotografi di strada americani».
«Quello che amo – diceva Garrubba – è la fotografia stradale, perché solo sulla strada trovo l’umanità così com’è. Io sulla strada trovo documenti preziosi». E di strade percorse quelle di tutto il mondo: era in Cina nel 1959, dove fece un reportage di 4000 scatti nel decennale della rivoluzione. Il secondo fotografo a raccontare la Pechino di Mao dopo Cartier Bresson.
Il fotografo degli sguardi amava anche fotografare le persone di spalle, una cosa che ha fatto in ogni luogo e in ogni lavoro. Voleva lasciare aperta un’idea, la possibilità di immaginare. È come se congedandosi ci avesse detto: io posso arrivare fino ad un certo punto, il resto lo dovete fare voi.
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