cervelli in fuga chi resta e chi ritorna dall'estero

da  il fatto quotidiano 


“Per lavorare in Belgio ho lasciato un posto a tempo indeterminato. Ma dopo due anni sono tornata. Ecco perché”



Chiara Senti ha 29 anni e si è laureata a Brescia Biotecnologie mediche. Ha trascorso un periodo a Bruxelles per svolgere un dottorato, ma a differenza di altri 'cervelli' ha scelto di rientrare: "Mi è dispiaciuto, ma questa esperienza mi ha dato l’occasione di ottenere una posizione di rilievo in Italia che non ho potuto rifiutare. Anche alla mia età non si può perdere troppo tempo”


di Simone Bacchetta | 31 OTTOBRE 2021


Ha lasciato un posto a tempo indeterminato nella sanità pubblica, accettando l’offerta di un dottorato di ricerca in Belgio, e si è trasferita a Bruxelles. “Ma mi sono ritrovata a fare ciò che facevo in Italia”, dice al ilfattoquotidiano.it Chiara Senti, ventinovenne di Castell’Arquato (Piacenza), una laurea a Brescia in Biotecnologie mediche. “Ho scoperto troppo tardi che ero finita lì solamente perché c’era da coprire un posto da laboratorista. Se l’avessi saputo prima…”. Se l’avesse saputo prima, Chiara non avrebbe mai lasciato l’Italia. E così, due anni dopo, ha scelto di tornare. Perché non è tutto rosa e fiori quello offre l’estero, anzi. “Non hanno manifestato interesse per il mio progetto in campo oncologico – confida Chiara -. Per due anni, per via della cattiva gestione del mio progetto, il lavoro assegnatomi è stato fare il tecnico di laboratorio per seguire progettualità di altre aziende o di interesse dei miei referenti a scapito del mio”, mentre lei era lì per un dottorato in scienze biomediche e farmaceutiche. “Non mi è stato nemmeno assegnato il supervisor che deve avere ogni dottorando, in quanto studente”. E sì che due anni fa non aveva esitato a partire: “Ero fiduciosa che, con un curriculum come il mio, non mi mancasse alcuna competenza”: biotecnologo medico, sette anni di lavoro nell’ambito oncologico a gestire i progetti di ricerca clinica e preclinica, diventando una figura di riferimento per medici sulle consulenze di genomica. Nonostante l’esperienza lavorativa nel più importante centro di ricerca del Belgio sia stata deludente, Chiara non la rinnega. Non solo per l’aspetto retributivo (“i dottorandi in Belgio sono tra i più pagati in Europa, nulla di paragonabile con l’Italia”), ma soprattutto per l’arricchimento professionale e personale avuto nel corso del biennio: “Ho imparato due lingue e avuto modo di scoprire abilità lavorative che non pensavo di avere. Mi è dispiaciuto tanto non aver concluso il dottorato, ma questa esperienza mi ha dato l’occasione di ottenere una posizione di rilievo in Italia che non ho potuto rifiutare. D’altronde – ammette Chiara – anche alla mia età non si può perdere troppo tempo”. Verrà ora assunta da una società di Torino che non chiede l’esperienza ma guarda il curriculum e le darà la possibilità di formarsi direttamente in azienda. “Imparerò da zero una professione in una realtà che terrà conto del mio background scientifico applicato alla ricerca. Mi occuperò di sottoporre le sperimentazioni cliniche nei campi di oncologia, cardiologia e chirurgia alle autorità italiane ed europee come ministero della Salute, Aifa e Ema, e sarò una figura di riferimento per aziende farmaceutiche e ospedali coinvolti nei progetti al fine di testare nuovi farmaci o dispositivi medici. C’è tanto da imparare, confida la biologa, ma “trovo questo nuovo lavoro molto stimolante e di grande responsabilità”. Si parla tanto di meritocrazia. Sul tema Chiara è esplicita: “Si è portati a pensare che l’Italia non sia meritocratica e invece i Paesi esteri, per esempio del Nord Europa, lo siano. Non è così: l’unica differenza sono le maggiori risorse che fuori dall’Italia vengono dedicate alla ricerca”. Due anni in Belgio, in tutto. Il primo particolarmente difficile sul piano sociale: “Sono arrivata un mese prima della pandemia, sono rimasta sola e per lunghi periodi non sono potuta rientrare in Italia. Stavo cominciando ora a crearmi un po’ di vita sociale. Mi dispiacerà tanto non vivere il Belgio senza restrizioni”.






“Dopo l’estero ancora in Italia per aprire la mia azienda: mi sembra di non essermene mai andato. Ecco perché ho scelto di tornare”



Nikolaus Widmann, ha 28 anni, ha studiato a Maastricht, in Olanda, e poco dopo si è spostato in Germania. "Sento spesso dire che bisognerebbe rafforzare il collegamento con il mondo del lavoro e dell'impresa: è vero"
di Raffaele Nappi | 19 OTTOBRE 2021


“Vorrei fare dell’Italia un modello per tutta l’Europa”. Nikolaus Widmann ha 28 anni, è altoatesino di nascita e berlinese di adozione. Ha deciso di tornare in Italia per fondare la sua azienda. Si chiama Inewa, ed è una società per la transizione energetica con sede a Bolzano. “Sinceramente non sento di essermene mai andato”, sorride. Papà altoatesino e mamma veneziana, dopo il liceo classico a Bolzano Nikolaus ha proseguito gli studi in Olanda in Economia e Informatica presso la Maastricht University School of Business and Economics. “Sono cresciuto in una realtà a cavallo tra la cultura italiana e quella tedesca”, ricorda al fatto.it. Fin da quando frequentava le scuole superiori Nikolaus aveva ben chiaro “quanto fosse importante fare esperienza all’estero”, per “allargare i miei orizzonti e vedere le opportunità che offre il mondo, anche perché viviamo in un sistema di economie interconnesse, a livello europeo e globale”. È anche per questo motivo che ha deciso di andare a studiare in Olanda. In Germania, nel 2014, Nikolaus a 22 anni è entrato a far parte di una delle principali aziende tedesche di ingegneria energetica, prima come tirocinante e poi come responsabile per la digitalizzazione. Nel 2017 crea uno spin-off dell’azienda per la quale, nel frattempo, si occupa anche dello sviluppo dei mercati internazionali, in particolare in Austria e soprattutto Italia. “E quando la società è stata acquisita da un grande gruppo internazionale da 600 milioni di euro di fatturato i nuovi azionisti mi hanno chiesto di rimanere e sviluppare il business in Austria e Italia. Così, nel 2020, è nata inewa”.
Nikolaus è tornato in Italia, a Bolzano, dove oggi guida un team di 25 persone. “Le mie radici mi hanno sempre tenuto legato al mio Paese. Ho a che fare con manager che in media hanno il doppio della mia età – sorride –. La transizione energetica è una sfida da vincere, con serietà. Non basta raccontare la favola della sostenibilità, ma occorrono interventi con impatti sul lungo periodo”, continua. “Mi impegno molto, ma mi diverto. Diciamo che mi piace affrontare sfide nuove e in azienda ci motiviamo a vicenda”. L’ambizione è diventare in pochi anni “una delle principali aziende di soluzioni energetiche sostenibili in Italia”.ikolaus è convinto che la formazione universitaria italiana sia di alto livello. “Sento spesso dire che bisognerebbe rafforzare il collegamento con il mondo del lavoro e dell’impresa: è vero. Nella mia esperienza universitaria all’estero abbiamo lavorato molto su casi reali, in collaborazione con aziende, e questo mi ha consentito di collegare la teoria con la pratica”.
Oggi Nikolaus è il più̀ giovane amministratore delegato all’interno del grande gruppo internazionale di cui fa parte la sua azienda. Fare innovazione, per lui significa “ripensare costantemente i propri modelli per ottimizzarli, impegnarsi ogni giorno per migliorarsi, farsi ispirare da quello che succede intorno a noi, ma con una costante attenzione alla sostenibilità”. Se dovesse dare un consiglio ai giovani italiani, ecco, dopo la sua esperienza, sarebbe proprio quello di “rimanere legati alle proprie radici e confrontarsi con il mondo”. Ma anche aspirare “a raggiungere traguardi ambiziosi, non arrendersi, imparare dagli errori, coniugare il successo personale con il benessere della società e dell’ambiente”. Cosa ha spinto questo giovane manager a tornare in Italia da Berlino? “Sinceramente non sento di essermene mai andato – risponde –. Vivo a Berlino, ma mi sento a casa tanto in Italia che in Austria e Germania, e in questo senso mi considero un cittadino europeo”. Ha mai pensato come sarebbe stata la vita se non fosse partito? “Avrei avuto meno possibilità di confrontarmi con realtà che si muovono a livello internazionale – risponde –. Insomma, avrei avuto difficoltà a capire come si muovono i protagonisti del mio settore”. Per Nikolaus l’Italia è un Paese “fantastico, creativo e pieno di opportunità. Riconosco però – conclude – che non è sempre facile e che molte persone decidono di andarsene, perché trovano migliori condizioni economiche in altri Paesi”.


Stria simile è quella di


“Dopo una vita all’estero ho deciso di tornare in Italia: altrove non è sempre meglio. Ecco perché”




ecco le scelte di chi ha scelto di rimanere all'estero ed è indubbio se rientrare in italia o meno





“In Tunisia io e mia moglie siamo diventati imprenditori. L’Italia, che amo, incastrata in una burocrazia senza visione”


Andrea Barilli ha deciso di lasciare l'Italia quattro anni fa e oggi vive in Tunisia insieme alla moglie e alla figlia. Lui ha aperto un'azienda che si occupa di cybersecurity mentre la compagna ha avviato un progetto di supporto per le famiglie. Il vantaggio più grande dal trasferimento? Un ritmo più “rispettoso” del tempo, meno frenetico
di Simone Bacchetta | 20 GIUGNO 2021







In Tunisia fa il manager nel settore della sicurezza. E pure l’attore. L’improvvisazione nel mio lavoro è fondamentale e mi aiuta nelle relazioni professionali quotidiane”. Andrea Barilli ha 41 ed è originario di Viadana, in provincia di Mantova. Da quattro anni vive nel Paese nordafricano e lasciata l’Italia ha portato con sé lavoro e passione: anche nel Belpaese si occupava di sistemi di sicurezza e recitava musical nell’ambito di un’associazione culturale. “Conoscere il linguaggio del corpo – racconta Andrea – è utile per capire le persone che ti stanno davanti”. Sua moglie Stephanie, 35enne italo-francese, l’ha conosciuta a Bologna, dove era andato a vivere per motivi di studio, facendo teatro. Dieci anni sul palco e tanti spettacoli nella città delle torri medievali.
Poi la Tunisia, che rappresenta un progetto di famiglia: di Andrea, di Stephanie e della piccola Sophie: “Io e mia moglie – racconta lui – abbiamo condiviso la scelta di passare da dipendenti a imprenditori, seppur seguendo obiettivi differenti”. Andrea specializzato nella cybersecurity, la moglie creatrice dell’azienda La Pause Parentale, un progetto al quale collaborano più figure (consulenti, comunicatori, ostetriche, infermiere, esperti di allattamento) allo scopo di supportare le coppie in dolce attesa, potenziando il rapporto genitori-figli. “Ci occupiamo di supportare i futuri genitori – dice lei – tramite corsi pre e post-parto sul modo migliore di comunicare con i bimbi. Un progetto che oltre a colmare una carenza di offerta, stimola una domanda non pienamente espressa”. L’azienda di Andrea, che opera invece nel campo della sicurezza, non ha dipendenti ma stabilisce rapporti con un network di professionisti del settore, tunisini e italiani, offrendo servizi in Europa, Africa e nei paesi francofoni.

Il motivo più importante della partenza dall’Italia il manager-attore lo riassume così, con un’apparente contraddizione: “Avevamo tutto, ma mancava qualcosa”. È proprio così: bel lavoro, ottimi colleghi, “l’ambiente bolognese ci piaceva. Ma sia per noi che – soprattutto – per nostra figlia volevamo un ambiente più multiculturale. Per la nostra piccola abitare qui, in un crocevia di lingue e culture diverse (francese, inglese, araba, canadese, ivoriana, asiatica) sarebbe stata un’opportunità da non lasciarsi sfuggire”. E infatti Sophie, oggi, parla quattro lingue. In un ambiente multiculturale come la Tunisia, Andrea e Stephanie vedono più occasioni di crescita, e non solo economica, rispetto all’Italia: “Il Paese in cui son nato, che amo tantissimo, eccelle in tanti settori ma si ritrova incastrato in meccanismi burocratici privi di una visione globale sul futuro”.
Poi c’è il tema del costo della vita, in Tunisia tendenzialmente basso: per alcuni generi alimentari da 1/3 a 1/6 rispetto all’Italia. “L’affitto di una villetta con giardino in una bella zona – racconta Andrea – equivale a quello di un appartamento di 90 metri quadri nella periferia di una città italiana”. Sul fronte retribuzioni, invece, “per i lavori manuali i tunisini vengono pagati 200-250 euro al mese e possono vivere senza problemi. Il lavoro non è un valore, l’assenteismo è la normalità in queste categorie. Nelle aziende medie un impiegato arriva a 300-400 euro, forse anche 500”. Ma il ‘salto economico’ lo si fa lavorando in realtà internazionali. “Così il guadagno raddoppia, in alcuni casi triplica. Se poi si ricoprono ruoli manageriali gli stipendi sono superiori a quelli italiani della stessa posizione
lavorativa”. Un “super vantaggio”, così lo definisce Andrea, è quello di potersi adattare ad un ritmo ù “rispettoso” del tempo, meno frenetico: il basso costo della vita permette di gestire meglio il tempo lavorativo e dedicarsi di più alla famiglia. Inoltre si possono “avere migliori opportunità formative e ci si può togliere sfizi che in Italia avrebbero un costo proibitivo. Come mandare i figli ad una scuola internazionale privata e frequentare hotel a 5 Stelle che costano come un 3 Stelle in riviera in Italia“. E ancora: “I pensionati che abitano qui, pur percependo mille euro al mese, hanno un tenore di vita che in Italia potrebbero avere solo con il triplo di pensione”.
Vorrebbe tornare in Italia Andrea, ma allo stesso tempo non potrebbe fare a meno dei vantaggi che la Tunisia gli ha offerto. “Pensa che lo scorso ultimo dell’anno siamo andati a casa di amici e sul tavolo c’erano passaporti di 13 nazioni diverse”. Sui casi di Covid nel paese, Andrea dà questa lettura: “Siamo stati fortunati l’anno scorso. Sono state anticipate le chiusure dei confini. Forse però si è esagerato, mettendo in crisi l’economia”. Ma oggi, grazie a quelle scelte la situazione è sotto controllo. Andrea non si sente un ‘cervello in fuga’ ma certamente prova a frenare i giovani tunisini ad andarsene verso altri Paesi francofoni (Canada, Francia, Belgio) e del Golfo (Qatar, Emirati): “Vorrei incentivare i miei ragazzi a restare, magari offrendo benefit stimolanti. Vorrei poter farli lavorare da remoto il più possibile, affinché possano dedicarsi di più alla famiglia e alle loro passioni. Come ho la fortuna di poter fare io”.



Ingegnere in Belgio. “In Italia non mi hanno offerto un contratto all’altezza delle mie competenze. Tornare? Dovrà valerne la pena”
Alice Pellegrino, 28enne di Frascati, è laureata in Ingegneria Spaziale e Astronautica. Nel 2018, dopo un anno di tirocinio in Olanda, viene assunta a Tokyo. Poi la scelta di riavvicinarsi a casa, e la firma di un contratto all'altezza delle sue competenze che l'ha portata ad Anversa. "Sono felice del mio lavoro e dell’accoglienza che ho avuto qui. E le mie responsabilità sono aumentate"



 | 16 MAGGIO 2021



Laureata in Ingegneria Spaziale e Astronautica alla Sapienza di Roma, con una specializzazione in Telerilevamento spaziale, Alice inizia a lavorare già prima della specializzazione. “Ho avuto la fortuna di poter collaborare ai progetti dello Space Systems and Space Surveillance Laboratory (S5Lab) della Sapienza, partecipando alla progettazione e realizzazione di piccoli satelliti ed esperimenti universitari internazionali”. Tra i lavori del S5Lab ci sono i satelliti per il tracciamento della fauna selvatica nei parchi nazionali del Kenya. Nel 2018, dopo un anno di tirocinio in Olanda, ottiene un lavoro a Tokyo per un’azienda giapponese che nel 2017 ha lanciato nello spazio il suo primo satellite commerciale. “Ho avuto subito un contratto a tempo indeterminato, un appartamento e la possibilità di lavorare ad un progetto all’avanguardia”. Alice aveva ventisei anni. Anche per i suoi colleghi nipponici è stata la prima volta: è la prima donna ingegnere del suo dipartimento e non asiatica della compagnia. “Non erano abituati a parlare in inglese, ci siamo dovuti adattare – afferma sorridendo -. Per il mio lavoro dovevo interfacciarmi con una ventina di colleghi e non è semplice farlo con chi per motivi culturali ha un’idea nei rapporti interpersonali così diversa dalla nostra”.
Medico di famiglia in Danimarca. “Ero stanca di fare le notti e dell’incertezza. Qui la mia famiglia ha un futuro sereno”
La tematica di genere è molto sentita da chi lavora proiettato verso le stelle: “Faccio parte di un gruppo locale di Roma dell’associazione Women in Aerospace Europe, dove coordino un progetto di ricerca sul tema della parità di genere in ambito STEM (cioè le materie scientifiche, tecnologiche, matematiche, ingegneristiche) e aerospaziale. Tutti ambienti ancora prettamente maschili”. Eppure è stata una donna afroamericana, Katherine Johnson, a calcolare le traiettorie che portarono l’uomo sulla luna. “Sono molte le donne che hanno dedicato la loro vita alla ricerca spaziale, è importante che questo settore sia senza discriminazioni o distinzioni di genere”.
Alice era in Giappone tra febbraio e marzo 2020, quando è arrivata la pandemia. “All’inizio si facevano pochi tamponi, poi iniziarono a farli solo a chi aveva sintomi gravi – ricorda -. Parliamo di un Paese dove già prima del Covid-19 il 60% della popolazione era abituato a portare la mascherina”. Le restrizioni, poi, interessavano di più gli stranieri. “Il governo varò una serie di misure rimaste in vigore fino a settembre dello scorso anno, tra cui l’impossibilità di rientrare nel Paese per chi non fosse giapponese”. Sono i mesi in cui il comitato olimpico internazionale decide il rinvio delle Olimpiadi di Tokyo 2020. “L’azienda non ci permetteva lo smart working, l’unica possibilità di flessibilità mi è stata data attraverso la rinuncia di parte dello stipendio. La pandemia ha scosso tutti – afferma – in quei mesi ho deciso di ritornare vicino la mia famiglia”. Ma tra le possibilità che le si prospettano le differenze sono disarmanti: “In Italia ci sono molte aziende che lavorano nel mio campo. Bravura e competenza non mancano – afferma- ed è un peccato quando ti accorgi che l’unica problematica è che appartieni ad una categoria bistrattata: quella dei giovani”. Ad Anversa le hanno proposto un contratto simile a quello che ha in Giappone, dall’Italia invece non sono arrivate offerte paragonabili.
“In Danimarca sanno che c’è più efficienza se si passano meno ore in ufficio. Il mio stipendio è il 60% in più rispetto ai colleghi italiani”
E le sue responsabilità lavorative in Belgio sono cresciute: “Sono sia ingegnere di sistema che manager per le forniture di un progetto per la Stazione Spaziale Internazionale (ISS): l’International Berthing and Docking Mechanism (IBDM), un meccanismo di attracco a basso impatto per veicoli spaziali grandi e piccoli”. Con giornate di lavoro caratterizzate da orari flessibili e attenzione ai bisogni del dipendente. “Sono convinta che lo smart working, se usato in modo intelligente, può far risparmiare tempo sia al lavoratore che all’azienda”. Per la sua Italia è soltanto un arrivederci? “Non rinuncerò alla speranza di rientrare ma dovrà valerne la pena. Spero che il mio Paese decida quanto prima di investire in noi giovani. Quale sarebbe altrimenti il suo futuro, se non riesce ad attirare e trattenere i giovani lavoratori?”.



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