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2.11.25

Bazulini Pasolini, a 50 anni dalla morte di © Daniela Tuscano

Così leggerebbe il suo nome un giovane arabo che non l'avesse mai sentito nominare, e credo che Pier Paolo sarebbe il primo a esserne divertito. Forse persino lusingato. E così molti lo leggeranno, perché la prima traduzione di «Ragazzi di vita» è uscita a Beirut (edizioni Dar as-Saqi) due settimane fa. «Ragazzi di vita» è il suo romanzo più noto, e insieme il più datato, come del resto gran parte della narrativa pasoliniana. Ma questo stare fuori tempo si situa anche fuori del tempo, e solo a noi europei, in grado ormai di concepire nient'altro che la linearità cronologica, sfugge quel senso di parola sacra, vale a dire inalterata e inalterabile, che invece altrove si ritrova, anzi si vive, in quotidianità spietata, coi suoi atroci
limiti verghiani, afasica, forse senza riscatto. Ma chissà. E allora «Bazulini» - storpiatura che rievoca il Bayazid di Racine, e come quest'ultimo figlio cadetto, erede d'una dinastia gloriosa ma destinato a una fine miseranda -, il più europeo (e italiano) dei poeti del secondo Novecento, potrà essere compreso, e amato, proprio dall'altra sponda del Mediterraneo. Più che da noi, che l'abbiamo ridotto a un santino, o un santone, fra citazioni false, celebrazioni retoriche e accostamenti inutili. La verità è che «Bazulini» ancora infastidisce e imbarazza, sia i conservatori, impossibilitati a eluderne l'epilogo infame, sia, ancor più, i progressisti, i quali, semplicemente, lo rimuovono - «datato», appunto - per i suoi sensi di colpa (di peccato, in realtà, ma la differenza non si concepisce più), e per quel lato nero da nascondere, come certe fiabe ch'essi vorrebbero stolidamente edulcorare. La vitalità di Pasolini-Bazulini non è vitalismo ma aspirazione di purezza, resurrezione impossibile e però nominabile, come si nomina ancora l'inferno, il bene, il male, Dio. Certo, non da noi; non qui. Pasolini-Bazulini è un reperto di ciò ch'eravamo stati, un fossile d'anima, un frammento d'umanità comune in cui fra mille incagli ci si poteva ritrovare. Per questo la sua critica al consumismo e al liberalismo è tanto più vera, e così fraintesa: non in nome del sol dell'avvenire, ma per quell'unità spezzata ch'egli cercò strenuamente nel tempo eterno delle periferie, dei
 ragazzi mai cresciuti, poi dell'Africa, e finalmente negli Orienti, ben sapendo che anche Alì avrebbe avuto gli occhi azzurri un giorno, e sarebbe finito malandro, ma forse ci si poteva provare, pur senza speranza - egli l'aveva perduta - ma tentare, scommettere, fino a morirne, perché no. Unico modo di vivere appieno. Quello che noi abbiamo svenduto.
 © Daniela Tuscano

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