L'identità come un dono da scambiare
Unione sarda del 12 novembre 2010
I l primo cartello nei titoli di coda de Il figlio di Bakunìn è dedicato a Sergio Atzeni, il mio amico caro della giovinezza, ritrovato da adulto e troppo presto perduto. Sergio aspirara a essere un cantore che racconta storie, un “custode del tempo”. Un aspetto che ci univa, rispetto alla Sardegna, era l'importanza del salvare la memoria, del raccontro tramandato, il valore della testimonianza, l'epica delle storie, l'idea dell'identità come un dono da scambiare col mondo. Tullio Saba, minatore, cantante, sindacalista, che attraversa il Novecento (dagli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta) è un personaggio inventato ma radicato nella storia di una Sardegna che è riflesso di un mondo, che si modernizza dolorosamente. La storia di Tullio Saba è ricostruita da un mosaico di testimonianze che sfumano nelle opinioni, nelle credenze, con un meccanismo tipico della tradizione orale e della leggenda popolare. Il personaggio di Tullio Saba è però un personaggio moderno con un forte contatto con il nostro tempo proprio per un certo randagismo dell'anima, per una tensione naturale e non ideologica, verso la libertà. E della leggenda della libertà - vale a dire dei modi in cui la libertà è tramandata, sognata, raffigurata da un popolo - il film ne racconta l'essenza contraddittoria. E' una Sardegna poco conosciuta, che avevo il desiderio di raccontare, un passato prossimo importante di una Sardegna “mineraria e industriale” e così rendere giustizia a un mondo raramente raccontato al cinema. Non il ritratto intimista inserito in un paesaggio "esotico" ma un'epopea popolare. Ho cercato di fare un film corale: gli spazi geografici e passaggi storici, personaggi disparati e diversi si riflettono nella figura del protagonista, che ha l'alone tipico dell'eroe popolare. In questo credo, intimamente fedele al progetto del libro, cioè all'idea di far parlare oggi un coro di persone, che ricordano una storia possibile che c'è stata, che non vuol essere dimenticata e che lega tutte queste vite che per un attimo possiedono questo frammento di verità. Ho cercato ne Il figlio di Bakunìn un linguaggio popolare, non concettuale, usando attori di diversa provenienza, professionisti, dialettali, dilettanti fino ai visi di gente che ha vissuto in prima persona fatti simili a quelli narrati nel film. Sono attratto dal cinema popolare, un cinema che contemporaneamente abbracci molte istanze e sia in grado di parlare ed emozionare persone diverse. Così Il figlio di Bakunìn è un film molto stratificato dove qualunque destinatario può trovarci qualcosa: la poesia, l'oralità, la narrazione, l'epica, la Storia con la S maiuscola e le tanti possibili storie.
GIANFRANCO CABIDDU
L'epopea sarda tra memoria e mito
“Il figlio di Bakunìn” di Cabiddu, un affresco di 50 anni di storia
Con l'unione sarda Secondo film di Gianfranco Cabiddu “Il figlio di Bakunìn”
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alcune immagini del film e il regista foto tratta dall'unione sarda del 12\11\2010 | |
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IL 1997 è l'anno di svolta del cinema sardo. Esce Il figlio di Bakunìn di Gianfranco Cabiddu, film spartiacque, operazione che rivoluziona lo sguardo sull'immaginario isolano, coraggiosa sperimentazione sulla storia e sulla memoria con un occhio proiettato al futuro. Cabiddu dà un colpo di spugna alla produzione a senso unico che aveva marchiato fino a quel momento la Sardegna (filone deleddiano, banditesco, più le varianti agropastorali) e disegna una epopea sarda col respiro di mezzo secolo di Storia, dagli anni Trenta agli anni Ottanta.
PRODUCE TORNATORE Un film spettacolare. Non è un caso che il produttore, qui all'esordio, sia Giuseppe Tornatore che con Cabiddu ha condiviso la gavetta cinematografica. Già premio Oscar con Nuovo Cinema Paradiso , anche Tornatore fu colpito dal libro di Sergio Atzeni, da cui la pellicola è tratta, e assecondò il regista sardo - nei limiti di un budget molto contenuto, due miliardi di lire - perché si potessero usare carrelli e dolly (si vedano i due bellissimi piani sequenza che aprono e chiudono il film) per dargli il respiro del grande cinema popolare.
RADICI E IDENTITÀ Al di là di una sensazione a fior di pelle Il figlio di Bakunìn (il dvd da domani in edicola con L'Unione Sarda a 8,80 euro più il prezzo del quotidiano) scava in profondità, mette lo spettatore sardo di fronte alle proprie radici, lo chiama ad un confronto continuo; inconsciamente si trascina l'ambiguità di una rappresentazione che ci rappresenta: siamo un popolo che non ha memoria cinematografica perché senza una tradizione di cinema e ritrovare sullo schermo luoghi che abitiamo e che ben conosciamo (schegge di Cagliari, Carbonia, Villamassargia, la selvaggia e disadorna bellezza dei complessi minerari del Sulcis), avere di fronte attori che provengono per la maggior parte dalle tavole dei palcoscenici sardi, mette subito in gioco l'antico discorso sulla riconoscibilità, sulla credibilità.
UOMO E NATURA Come dire, ogni spettatore sardo col suo carico di archetipi e pregiudizi, si sente proiettato sullo schermo, riflesso condizionato di una tradizione, con la paura di doversi svelare: quelli siamo noi, c'è un pezzo della nostra storia. Terreno infido e scivoloso ma da questo punto di vista l'opera seconda di Gianfranco Cabiddu funziona perfettamente, la storia calata in un mare di sarditudine ha tracce vere di una cultura emarginata che è fortemente legata alla terra, che coglie l'essenza del rapporto conflittuale tra l'uomo e la natura che sarà sempre una chiave di volta per un cinema sardo (come dimostreranno poi i film di Mereu, Sanna, Columbu).
L'INTUIZIONE DI ATZENI Il figlio di Bakunìn , che esce per la prima volta in Dvd, è anche un racconto sulle tracce dell'identità e su quelle caratteristiche riconoscibili nel Dna di un sardo, cioè testardaggine, orgoglio, fierezza, dignità. Caratteristiche che si riconoscono in Sergio Atzeni: lui che era andato via dalla Sardegna ma aveva sempre conservato un legame inossidabile, non solo nella produzione letteraria, e nell'Isola è drammaticamente tornato per morire inghiottito dal mare, accentuando simbolicamente quell'inestricabile amalgama uomo-natura, che nel suo caso è diventata maledizione del destino.
METAFORA Ad Atzeni si deve l'intuizione di questa superba metafora sulla Sardegna e sulla trasformazione d'una cultura, con il personaggio Tullio Saba che incarna la voglia di nuovo, l'ansiosa ricerca di slegarsi dagli obblighi della tradizione per percorrere le strade della libertà, di un anarchismo pasticcione che è, prima d'un credere politico svogliato, un sentimento interiore di confusione, fuga, desiderio di cambiamento. Portando fedelmente sullo schermo il romanzo, con i dovuti tradimenti però, Cabiddu allarga ancor di più questa intuizione, puntando tutto su una struttura mosaico, l'affastellarsi di decine e decine di testimonianze che vanno a tracciare l'identità sfuggente di Tullio Saba, Zelig di provincia, minatore, sindacalista, politico, donnaiolo, cantante, affarista, traditore, eroe: uno, nessuno, centomila.
TRADIZIONE ORALE Ne esce un Rashomon al quadrato, dove tutti hanno una verità su Tullio ma non esiste una verità assoluta: così ricalcando il modello della tradizione orale (che è il fulcro della cultura sarda) il film dà voce alle voci che si fanno ricordo epico, contos, aneddoto, battuta, trasmissione della memoria tra amnesie, bugie, fatti nascosti, sentimenti d'amore, invidia e ammirazione per quel figlio di un calzolaio benestante dall'istinto rivoluzionario (per questo lo soprannominarono Bakunìn) che perse tutto col fascismo.
RICERCA DI UN PADRE Epica dunque ma anche film-inchiesta: ogni personaggio guarda in macchina (verso noi spettatori) e parla ad un giovane dai capelli lunghi e orecchino, che va di casa in casa per ricostuire vita e gesta di Tullio. Potrebbe essere un giornalista (una intervistata dice: non finirò mica sull'Unione Sarda?) ma è anche questa una finta pista che approda nel sottofinale almeno ad una verità: quel giovane è un figlio illegittimo di Tullio Saba, il film dunque è la lunga ricerca di un padre, con tutto ciò che di traslato c'è dietro.
CULTURA MINERARIA Cos'altro è Bakunìn ? Uno sguardo che abbraccia cinquant'anni di storia fondendo mito, tradizione, realtà ma senza scegliere fra nessuna, è il ricordo di un'epoca fondata sulla manualità certosina soppiantata traumaticamente da una manovalanza schiavizzata dall'industria, come mostra la sequenza delle scarpe dei minatori, prima resistenti quando le faceva il calzolaio, ora di pessima qualità quando le fornisce il governo fascista. Ancora: è una riflessione su una evoluzione culturale, il passaggio dall'agropastorale alla modernità, rappresentata dall'affermarsi del lavoro in miniera. Per la prima volta il cinema di finzione si occupa di quello che è stato - assieme all'emigrazione - il vero romanzo popolare della Sardegna: la cultura mineraria che nel portarsi appresso il vento della modernità (l'energia elettrica era prima arrivata lì, poi a Cagliari) ha sempre mantenuto una specificità sarda. E miniera vuol dire lotte operaie (nel film è ben raccontato, con secchezza didascalica, il rapporto proletari-padrone), e un crogiuolo dove s'era formato un melting pot - pastori diventati minatori, avventurieri ed emigrati che venivano dal continente - che allargava la società monosarda.
ATTORI E FACCE Il figlio di Bakunìn è soprattutto un film di facce, un paesaggio di volti che legati da una stessa inquadratura fanno dondolare il racconto tra passato e presente, smascherando in questo modo il vero personaggio segreto: la memoria. È un panorama di attori sardi (sembra l'assemblea degli Stati generali, ci sono tutti da quelli della “vecchia” Cooperativa a quelli dialettali) fusi con altri continentali più famosi (Renato Carpentieri, Laura Del Sol, Massimo Bonetti, Claudio Botosso, Simona Cavallari), un tentativo di restituire alla Sardegna una coralità, una dimensione collettiva che il cinema - chiudendolo in una tanca - le aveva finora negato.
IL PROTAGONISTA Era molto delicata la scelta del protagonista, di quel Tullio Saba che nelle pagine del libro non compare mai, perché evocato, raccontato, ricordato, menzionato dai tanti testimoni, in un alone fra il mito e il mistero. Cabiddu sceglie di dargli un volto, privilegiando una pista popolare rispetto ad una sofisticata, più d'autore, e affidando allo sguardo profondo di Fausto Siddi il gravoso compito. La figura di Tullio emerge lentamente, quindi occupa la parte centrale del racconto per poi sfilacciarsi di nuovo fra i tanti rivoli narrativi del film.
AMBIENTI Che ha negli ambienti un altro punto di forza: la Sardegna prima e dopo la guerra rivive con attenzione ai dettagli, in particolare il paesaggio minerario, felicemente ricreato sulle strutture fatiscenti di Ingurtosu, Monteponi, Iglesias, Carbonia; e poi Cagliari, sfruttata nei vicoli di Castello per l'ambientazione anni Cinquanta, oppure nel buco di rovine del vecchio cinema Ariston per avere un credibile lampo della città che si risveglia nel 1945 dopo le bombe; così come è efficace la ricostruzione del ventennio nero, dove il potere fa la voce grossa fra i minatori ed è preso in giro nella piccola comunità del paese. La fotografia di Massimo Pau indulge al patinato, togliendo un po' di ruvidezza all'irrequieta epopea sarda, la bellissima musica di Franco Piersanti - raffinata e melodica - fascia il film con insistenza.
CAPOSTIPITE Si diceva prima: taglio popolare, che vuol dire essere in sintonia con le tante tipologie di pubblico, infilando anche scene d'amore e squarci di siparietti da commedia. È così che Il figlio di Bakunìn ha funzionato come iniezione di fiducia, scossa di energia per quel drappello di registi sardi che nel 1997 non esisteva. Il successo del film, il suo coraggio nel saper guardare oltre, ha dato agli altri la consapevolezza che un progetto-cinema sardo poteva nascere. Senza Bakunìn (che al botteghino incassò un miliardo di vecchie lire, cifra che ha sgretolato l'endemico indecisionismo dei produttori verso la Sardegna) oggi non si parlerebbe di onda sarda, suo malgrado Gianfranco Cabiddu è un po' il padre degli ultimi registi sardi arrivati al cinema.