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12.4.17

eccellenze italiane


da repubblica  del  11 aprile 2017

chef dell'Imàgo di Roma le studia da tantissimi anni. Ha al suo attivo non solo molte ricette che le utilizzano, ma ha creato blend originali con un continuo lavoro di ricerca. Seguici anche su Facebook 

di MANUELA ZENNARO

Usate singolarmente o sotto forma di blend, le spezie donano personalità a ogni piatto, aromatizzandolo con leggerezza. “Chi impara a conoscerle non le lascia più”, parola di Francesco Apreda. Dodici anni di consulenze in India, all’Oberoi, e una grande passione per i mercati. Sono questi i motivi che hanno spinto Francesco Apreda, chef del ristorante Imàgo all’Hotel Hassler di Roma, a trasformarsi in un “mago delle spezie” nostrano, contaminando la sua cucina con gli aromi d’Oriente. Al ristorante, come a casa.
Alcuni dei blend di Apreda

“L’utilizzo delle spezie in India è molto diverso rispetto all’Italia – spiega Apreda -. Esistono tantissimi blend, e ogni piatto ha numerosi componenti proprio grazie alla presenza di una grande quantità di spezie. Mi sono immerso in questo mondo molto particolare, ma all’inizio è stato devastante. Il mio palato non era allenato, mi sembrava tutto eccessivamente piccante, non capivo come si potesse mangiare in un modo simile. Anno dopo anno, sono riuscito a comprendere e amare questi ingredienti. Mi ha aiutato frequentare i mercati indiani, conoscere i blend, e per fare questo sono anche entrato nelle case di alcune persone che mi hanno spiegato come curavano le loro spezie. Da lì è nata la voglia di creare delle miscele personali, così ho iniziato con pepi e sesami, un blend composto da 5 tipi di pepe, e altrettanti di sesamo. Mi è riuscito molto bene, sono riuscito a bilanciare la parte grassa del sesamo con l’aggressività del pepe, facendo sprigionare tutti gli aromi. Incoraggiato dal risultato, ho creato altri blend, e a quel punto ho studiato un menu apposito e l’ho chiamato Sapori di viaggio, dove ad ogni portata corrisponde un blend diverso”.
Alcuni diffidano dalle spezie, convinti di trovarsi al cospetto di un ingrediente dittatore, che prevarica ogni altro sapore presente in un piatto. Altri subiscono un antico retaggio secondo cui la spezia veniva utilizzata come conservante, spesso per coprire lo sgradevole sentore emanato da un alimento non proprio freschissimo. “La spezia è complicata – prosegue lo chef - se mal dosata sovrasta ogni cosa e rovina il piatto, ma se si riesce a bilanciarla, al contrario esalta gli altri ingredienti. Quando prepariamo un piatto non immaginiamo di poter usare 5 – 6 tipi diversi di spezie. Ma se facciamo come in India, dove per fare un soffritto usano semi di senape e coriandolo, bucce di lime, foglie di kefir, foglie di curry, possiamo ottenere una miscela incredibile. Quando si creano i blend, la cosa più difficile è rendere distinguibili 8 – 9 sapori all’interno di una polverina. Il segreto è provare, cercare di adeguare le miscele al proprio palato”.
Chef Francesco Apreda

Come fare per abbinare l’universo delle spezie ai sapori di casa nostra? “Non bisogna spaventarsi – continua Francesco Apreda -. Se scegliamo un cardamomo verde, possiamo utilizzarlo come fosse basilico, grazie al suo sentore fresco
.Io consiglio di assaggiare la spezia da sola. In questo caso, basta aprire il baccello del cardamomo, e mettere qualche seme sulla punta della lingua. Questa spezia è perfetta nei casi in cui si ha bisogno di freschezza, ad esempio se nel piatto c’è una componente grassa molto decisa. Chiunque a casa può usare una polvere di curcuma, un cardamomo, dei semi di coriandolo, basta assaggiare queste spezie da sole, prima di usarle. Un esempio pratico: qualche anno fa ho scoperto il cardamomo nero, diverso da quello verde, si coltiva prevalentemente in Nepal. Si tratta di una spezia particolare perché è grande, e viene tostata ed essiccata sui carboni ardenti, cosa che conferisce un sentore affumicato. Quando l’ho annusata la prima volta, sembrava quasi un tè, poi assaggiandola aveva sentori di canfora, melissa, il tutto molto fresco, e allo stesso tempo affumicato”.
Come l’ha usata? “Ho pensato di provare il cardamomo nero a casa, in un’insalata di pomodori – ricorda lo chef -. Ho aggiunto cipollotto e provolone, ed era perfetta. In questo semplice piatto abbiamo l’acidità del pomodoro, la grassezza del provolone, e la freschezza della canfora arricchita dal sentore affumicato che, se ben calibrato, veicola tutti gli altri aromi. Subito dopo ho pensato di usare la spezia per preparare un risotto con pomodorino giallo, ed è nato un piatto profumato e gradevolissimo”. Esiste una stagionalità per le spezie? “In qualche caso sì, anche se la maggior parte delle spezie in circolazione sono secche. È ovvio che un cardamomo preso in India nella sua stagione, ha un sapore diverso da quello che qui acquistiamo in polvere, e che spesso ha perso parte del suo vigore”. 
Dalla primavera aumenta la voglia di una cucina leggera, e in questo caso le spezie possono essere un aiuto perché danno sapore, senza appesantire. “In questo momento va molto di moda la curcuma – prosegue Apreda -. A casa la uso sempre. Si trova in polvere, e ha un aroma fantastico, leggermente piccante. Può essere utilizzata ovunque, senza timore, anche aggiungendola alla salsa per una pasta, oppure a una zuppa fresca di piselli. Ripeto: bisogna essere aperti verso questi ingredienti, e soprattutto bisogna provare, assaggiare. Tornando alla curcuma, oramai è diventata parte integrante della cucina dell’Imàgo, ma anche di quella di casa mia. Prima utilizzavo solo origano secco, capperi e così via, ora non ho fatto altro che aggiungere altri elementi. Altro esempio sono le stecche di cannella, che possiamo grattugiare ovunque. Conferiscono una dolcezza molto gradevole, così come la vaniglia e l’anice stellato”.
Sembra quasi un universo sconfinato, come è possibile orientarsi? “ Internet aiuta molto. Di spezie ce ne sono tantissime – aggiunge Francesco Apreda - in questo momento mi sono appassionato alle foglie di curry, una pianta che cresce nel sud dell’India e ha un sentore limonato e speziato. Si chiamano curry leaves e non hanno nulla a che vedere con il curry che noi conosciamo. Inoltre consiglio il kefir, foglie di lime thailandese che sprigionano un aroma a metà tra limone e lemongrass, molto fresco e intenso, perfetto per una zuppa di cocco e verdure, ma anche in una semplice salsa di pomodoro, per dare quel tocco aromatico in più”.


Dove nascono i taralli (veri) che vanno per il mondo L'eccellenza pugliese si racconta
Scopriamo tutti i segreti della produzione del prodotto da forno tipico della Puglia.

 


 anche se    secondo questi commenti    che  trovate  all'interno dell'articolo


Questi taralli qui fotografati non sono del Nord della Puglia e non sono assolutamente artiganali, da noi si fanno molto grandi almeno quanto un palmo della mano.Nella precedente risposta ho anche specificato i vari tipi di taralli. bisogna visitarli i posti e accertarsi dei prodotti locali prima di fare affermazioni non veritieri o comunuque fuorvianti, Andate a Deliceto e vedete come sono i taralli.
Mi piaceRispondi115 h
forse sarebbe opportuno specificare che ci sono vari tipi di taralli: nel nord della puglia e precisamente nel foggiano sui monti dauni si fanno " li scallatièdd " cioè taralli che si fanno con farina di grano duro 0' ci vogliono circa 26 ore prima che si possono mangiare perché s'impastano con farina , acqua e olio di oliva , si fanno tanti rotolini sottili e si chiudono a cerchio e poi si fanno bollire. Dopo la bollitura si appendono su delle canne lunghe per farli asciugare 24 ore . Il giorno dopo, ben asciutti si portano al forno per farli cuocere. I taralli invece sono quelli che appena impastati e data la forma si portano direttamente al forno senza farli bollire. Poi ci sono i taralli con le uova tipici della pasqua, si aggiungono le uova all'impasto precedente e i rotolini sono, come spessore, tre volte "li scallatièdd" e si portano subito al forno. Qualcuno li fa anche con la glassa


i taralli che rappresentate nella foto non sono i taralli da forno!! e non sono di origine artigianale,perche' fatti a macchina in serie e sono i taralli bolliti diffusi molto nella zona a nord della Puglia
nella restante parte della puglia e piu' nel SALENTO i taralli da forno artigianali si fanno come tradizione vuole con la fartina di grano duro e olio extravergine di oliva il tutto impastato rigorosamente a mano.
I

anche nel Barese, non solo nel Salento
Mi piaceRispondi17 h





storie normali per gente speciale ., storie speciali per gente normali . dedicato a tutti i malpancisti e ai destrosi che vedono solo un latro dell'immigrazione e della povertà

Anche se    per  quanto riguarda la prima  storia    viene  considerata  " buonista " ed  ipocrita   isa  in maniera  civile   ed  educata    o altre  in maniera  al limite  del nazionalismo   più  becero vicino al becero   razzismo  e  populismo   come potete  vedere  dai commenti  all'indirizzo internet del  video   sotto riportato





I migranti che puliscono le strade di Roma: "Lo facciamo per dire grazie"
Sempre più spesso per le vie di Roma si incontrano ragazzi stranieri intenti a pulire le strade armati di scopa e paletta, in cambio chiedono un contributo volontario. Ci hanno raccontato perché.

    

  la  seconda  storia     avviene



Nell'antico complesso ospedaliero del San Gallicano, che ospita il centro "Genti di Pace" della Comunità di Sant'Egidio, è entrato in funzione un servizio di lavanderia offerto gratuitamente alle persone senza fissa dimora. Nei locali adibiti al servizio, che sarà aperto quattro giorni a settimana, si trovano sei lavatrici e sei asciugatrici, con ferri da stiro, sapone e ammorbidente e proprio i volontari della comunità di Sant'Egidio si occuperanno di gestire la lavanderia. "Chi è venuto qui ha detto di sentire profumo di casa. In fondo è quello che noi vogliamo offrire, essere accoglienti come in una casa" spiega Massimiliano Signifredi della comunità di Sant'Egidio


11.4.17

Dal Brasile ad Annone per trovare la casa lasciata dal trisnonno Il dottor Carlos Scaramuzza ha voluto rivedere l’abitazione dove viveva il proprio avo che emigrò dall’Italia a fine ’800

   Questa   storia  presa   da http://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/  del 11\4\2017   è simile    al finale   di questo  bellissimo   libro 
Libro La frontiera scomparsa Luis Sepúlveda

  
Dal Brasile ad Annone per trovare la casa lasciata dal trisnonno
Il dottor Carlos Scaramuzza ha voluto rivedere l’abitazione dove viveva il proprio avo che emigrò dall’Italia a fine ’800 di Alessio Conforti


ANNONE. Alla fine dell’ottocento una parte della sua famiglia partì da Annone per trasferirsi in Brasile, alla ricerca di un futuro miglioreda. E a distanza di tanti anni, colto dalla curiosità di andare alla ricerca delle proprie origini, ha deciso di tornare indietro per scoprire i luoghi lontani dove dimoravano i suoi avi. Riuscendo a trovare (e a visitare, grazie alla disponibilità degli attuali proprietari) proprio quella casa da dove tutto ebbe inizio: una bellissima abitazione situata in via Trento ad Annone, a pochi passi dal centro cittadino.
L’arrivo in Veneto Orientale nei giorni scorsi del dottor Carlos Alberto De Mattos Scaramuzza, biologo e direttore del settore sostenibilità ambientale del ministero dell’Ambiente brasiliano, è stato di quelli che non solo lui stesso non dimenticherà mai, ma anche gli abitanti del piccolo comune. L’abitazione in questione si sviluppa su tre piani, proprio come un tempo. Il padre del dottor Scaramuzza, Alberto Elio, 83 anni, la cerca dal lontano 1945 e Carlos, dopo anni di ricerche, decide di farsi avanti. Un anno e mezzo fa, nel corso di una precedente visita, l’uomo chiese aiuto al sindaco Ada Toffolon. «Ci siamo incontrati e ci confidò di essere alla ricerca delle sue origini», spiega il sindaco Ada Toffolon, «ed in particolar modo del suo trisavolo che partì da Annone per il Brasile alla fine dell’Ottocento. Con se aveva una foto dell’abitazione», continua il sindaco, «che diede i natali a Giuseppe Domenico Berti, suo trisnonno. Il ceppo dei Berti, tra l’altro, è molto radicato proprio ad Annone. L’immagine in questione ritrae una casa ai tempi della Grande Guerra, credo durante l’occupazione austriaca».
Il primo cittadino, ancora nel 2016, si mette quindi sulle tracce della dimora e dopo una serie di verifiche con gli uffici competenti riesce ad individuarla, contattare i proprietari e organizzare una visita ad hoc. L’appuntamento è per giovedì 6 aprile e l’atmosfera è quella delle grandi occasioni. Carlos Alberto arriva ad Annone con la famiglia e ad attenderlo c’è una delegazione comunale capeggiata dal sindaco ma soprattutto dal proprietario attuale della villa, che poco dopo apre le porte di casa sua per la felicità del brasiliano.
«Non riuscivo a crederci», ci confida qualche ora dopo Carlos, «perché alla fine sono riuscito a coronare il sogno di papà ma anche mio. Un obiettivo che lui si era prefisso fin dal dopoguerra e che negli anni era continuato con diversi viaggi in Italia. Ora», promette il dottor Scaramuzza mentre è sul viaggio di ritorno verso Brasilia, città dove vive, «tornerò sicuramente quanto prima proprio con mio padre, forse già entro la fine dell’anno. Sarebbe la terza volta in due anni». Ad Annone la sua visita non è passata inosservata e per qualche istante la comunità si è trasformata in un collante di generazioni passate, un filtro tra Veneto Orientale e la città d’oltreoceano. Ed ora,
quella casa, potrà diventare un simbolo importante per tutti: quella foto, che risale a 72 anni fa, entrerà negli annali del Comune e farà parte di un più ampio progetto culturale che l’amministrazione comunale realizzerà per rievocare il tema della Grande Guerra.












comunale realizzerà per rievocare il tema della Grande Guerra.

Tra granite filippine e vodka-kalashnikov: articoli insoliti nei negozi etnici modenesi Sugli scaffali o nei banchi frigo si possono trovare prodotti tipici e originali giunti dai paesi più lontani

Storie  come questa   che riporto  sotto  , presa  dalla   gazzettadimodena.gelocal.it/modena/cronaca del 11\4\2017,   mette in evidenza   come  ormai  il nostro  paese  sia sempre  più  multi etnico  in  culo : sia  alla destra   più becera ed estrema  (   casa pound   e   lega  )   sia   ai  vari governi specie    quest'ultimi  che  non  vogliono per  noi perdere  i voti   dei  malpancisti   concedere la cittadinanza  ai figli di stranieri    che  sono nati  qui  e   stanno in italia  d'anni  e  li lasciano   in uno stato  di Apolidia  . 
 Ma  ora    basta polemiche  e  veniamo all'articolo 


Tra granite filippine e vodka-kalashnikov: articoli insoliti nei negozi etnici modenesi
Sugli scaffali o nei banchi frigo si possono trovare prodotti tipici e originali giunti dai paesi più lontani 


LEGGI ANCHE:
Modena: il giro del mondo attraverso cento negozi etnici
Dal bazaar al night shop alla macelleria: gestiti da stranieri e sempre aperti Privilegiano gli alimentari, ma c’è chi fa affari soprattutto con alcol a basso costo






MODENA. Tornando dalla zona Tempio verso la stazione ci imbattiamo nel Mix Markt di Oksana e Igor Vatsovskyy che serve la sarma e la pastourma, entrambe alimenti con varianti rinvenibili in tutti i paesi dell'ex Impero ottomano. La prima è una foglia di vite che avvolge della carne e del riso speziato, la seconda è una specie di bresaola consumata dal Levante fino ai Balcani, passando per la Turchia e l'Armenia. Il Mix Markt è una catena presente in varie città del nord Italia. A Modena è gestita da una coppia di ucraini. All'interno è il trionfo del colesterolo: insaccati di maiale, salumi di ogni tipo, salsicce con l'aglio e il peperoncino. E poi acciughe, aringhe, sottaceti, crauti, cetrioli, alimenti molto salati che si accompagnano all'ampia scelta di birre e spiriti dell'est Europa. «Il nostro negozio è specializzato in alimenti dell'Europa orientale, qui vengono a fare la spesa le comunità slave di Modena, non vengono mai arabi o turchi perché sono musulmani e noi vendiamo maiale e alcolici», dice Oksana. Accanto alle vodke russe e all'ucraina Nemiroff, ci sono le birre chiare, rosse e scure Obolon e Lvivkse. Oltre alle matrioske posizionate sugli scaffali alti, ci sono altre curiosità un po' kitsch come la vodka imbottigliata in un contenitore a forma di kalashnikov o a forma di porsche.
Oltre al cavalcavia di viale Mazzoni, che spezza in due la città e la linea ferroviaria, c'è il Cina Africa Market in via Canaletto, a fianco della Coop. Qui si vende di tutto: dalle valigie ai detersivi, dalla biancheria intima alle immancabili birre, consumate sul piccolo piazzale antistante. Il personale è interamente cinese e in molti non parlano l'italiano ma tutti sanno fare i conti, addizioni e sottrazioni.
Continuando verso il centro storico incrociamo il Minimercato di Mohammad Abdul Hashem in via Selmi, uno dei tanti fruttivendoli gestiti da cittadini del sub-continente indiano: pachistani e bengalesi in particolare. «I prodotti più venduti sono la frutta e gli alcolici, non siamo propriamente un negozio etnico poiché vendiamo principalmente prodotti italiani», dice Mohammad che viene dal Bangladesh. «I migliori affari li facciamo nelle stagioni miti quando le persone acquistano birre per berle nei parchi o per strada», ammette candidamente l'uomo che ha una storia particolare alle spalle. «Ho aperto questo negozio nel 2012, prima abitavo a Tripoli e fui sorpreso dalla guerra civile. Dovetti scappare, le bombe non aiutano il commercio, prima della guerra civile per noi bengalesi la Libia era una meta ambita per fare business».
Un altro “night shop” degno di nota è quello in via Carteria, nel cuore della città, a pochi passi dal Duomo, gestito da un cittadino bengalese. Il quartiere è stato riqualificato impiantando micro-gallerie d'arte e piccole boutique di moda. Durante gli eventi della movida locale, c'è la fila davanti a questo “night shop” che vende praticamente soltanto alcolici ai giovani creativi della zona. «Una birra media al pub costa almeno cinque euro, qui costa un euro e trenta centesimi», dice un giovane cliente italiano.
Superando il centro storico, in viale Buon Pastore, troviamo l'unico negozio di alimentari filippino, una comunità che conta 3300 residenti nel territorio modenese. Qui i prodotti, quasi solo alimentari, sono completamente diversi dal resto dei negozi etnici della città. Per palati diversi, ecco i sapori esotici dal profondo sud-est asiatico. Il negozio, aperto nel 2015, è di Angelito De Peralta, un uomo di 50 anni emigrato a Modena nei primi del 2000. «Vendiamo solo specialità filippine come l'espasol, la torta di riso, l'ensaymada, una specie di brioche, l'adobo, un piatto di carne marinata e molto speziata, e la caldereta, uno stufato di manzo alla filippina», spiega Angelito. Molto particolare è la bibita nazionale, bevuta ghiacciata e preparata sul momento, chiamata halo halo, una sorta di granita filippina.
Servita in un bicchiere alto, si tratta di una miscela di ghiaccio tritato e latte evaporato a cui si aggiungono gelatina di ananas e di cocco, il mungo ovvero dei fagioli rossi e del riso soffiato. Dentro al locale ci sono un paio di tavolini per le degustazioni «ma la maggior parte della clientela ordina il piatto e lo viene a ritirare mentre durante la bella stagione, poiché noi filippini abbiamo la cultura del pic-nic, i clienti consumano il loro pasto nel parco del Buon Pastore», dice Angelito.



Gaetano Gasparini

L'elzeviro del filosofo impertinente

Ricordo che un tempo ero affascinato dalla simbologia pasquale, e non mi perdevo nessuna celebrazione religiosa o una pomposa manifestazione pubblica di tipica devozione popolare. Forse perché sono nato il lunedì di Pasqua, oppure perché da ragazzo il mio rapporto con la fede cattolica poteva definirsi davvero intenso. Per anni ho fatto il ministrante e sono stato scelto più volte dai sacerdoti per il rito della lavanda dei piedi del giovedì santo. Ciononostante anche se oggi non sono più credente trovo sempre coinvolgente la celebrazione della morte e resurrezione di Gesù. La Pasqua non è una festa di origine cristiana ma risale all'Antico Testamento. Gli ebrei la celebrano ancora oggi (Pesach) e ricordano la liberazione del popolo eletto dalla schiavitù d'Egitto. In lingua ebraica Pesach significa passaggio. In entrambe le tradizioni si affronta il tema della rinascita e della transizione da una condizione all'altra. Dalla schiavitù alla libertà (Pasqua ebraica), e dalla morte alla resurrezione (Pasqua cristiana). Tranquillizzatevi, non ho alcuna intenzione di propinarVi una mini lezione di catechismo bensì mi preme sottolineare la visione filosofica che si cela dietro la festa di Pasqua. Jiddu Krishnamurti sosteneva che per poter vivere dobbiamo morire e rinascere quotidianamente. Lui si riferiva alla morte dell'io, alla rinuncia dell'ambizione ed egoismo. Morire alle piccole cose per poi approdare ad una nuova nascita e aprirsi alla Conoscenza. Se non ci accostiamo al mondo con lo stupore della prima volta non comprenderemo mai il significato della nostra esistenza. Se le vecchie conoscenze muoiono costantemente in noi ci ritroveremo ogni giorno desiderosi di apprendere nuove realtà. Accumulare ricordi, talvolta astiosi e negativi, significa solamente collezionare ciarpame. Tutto quello che non è in grado di spingerci al cambiamento e all'amore universale non è di nessuna utilità. Anche nei PC, smartphone e iPad di tanto in tanto facciamo un po' di pulizie di file cosiddetti inutili. Non bisogna dimenticare che alla base della filosofia c'è lo stupore per ciò che non conosciamo. Per stupirci dobbiamo essere sempre aperti alle novità, alle diverse prospettive di vita. Non dobbiamo sentirci ancorati ad antiche tradizioni che eternano messaggi validi solo per la società che li formulò secoli fa. Occorrono, invece, occhi nuovi ma soprattutto menti vergini per vedere il lato nascosto della nostra realtà esistenziale. Gesù ha sconfitto i pregiudizi e le falsità che si annidano nel cuore dell'uomo. Egli è morto sulla croce ma è risorto dopo aver piegato la morte. Non importa se crediamo o meno alla verità di fede tramandata dai vangeli, ma conta invece se riusciamo ad annientare in noi la stupidità, la violenza, l'ignoranza per poi rifiorire e dotarci di un pensiero nuovo. Essere, in altre parole, persone nuove. Come scrive Enzo Bianchi: "L’uomo nuovo è un orfano felice. L’eredità non ha per lui alcun interesse sostanziale. Illusioni, favole, saperi inutili, di cui liberarsi in ogni modo". Il mio consiglio per celebrare anche laicamente le imminenti festività pasquali è proprio quello di rinunciare alle ostilità e ai facili moralismi. Riflettiamo sui giudizi insensati che elargiamo con così tanta superficialità, e impariamo che le parole uccidono più delle armi. Certe frasi dette in un momento di rabbia si fissano nella memoria di chi ci sta davanti. Le parole scagliate come pietre non solo restano impresse nella memoria per lungo tempo, ma incidono sulla nostra psiche in modo quasi indelebile. Dunque cogliamo tale occasione per sopprimere la nostra individualità, e abbracciamo idealmente la nostra parentela universale. Celebriamo il passaggio o meglio la fuga dalle gabbie del pregiudizio per approdare ad una vita caratterizzata da empatia e Conoscenza. E ricordiamoci sempre che: "La più alta forma di intelligenza umana è la capacità di osservare senza giudicare" (J. Krishnamurti).
(Criap)
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10.4.17

Si fa la piega nel suo salone: parrucchiera multata Accusata di evasione, sanzione di 500 euro. L’ultima follia di uno Stato forte solo coi deboli

Ormai si sfiora il ridicolo. È vero che l’Italia sia la patria del melodramma e  delle lamentele continue  , ma certi episodi di rigidità mentale e di pedissequa osservanza delle norme, peraltro assurde, hanno i contorni grotteschi oltre  che iniqui .
Parrucchiera multata  «È ingiusto, farò ricorso»
Mara Lucci all’esterno del proprio negozio di parrucchiera (Foto by Foto Menegazzo)
 per http://www.laprovinciadilecco.it/
Stiamo parlando del Stato, naturalmente, e dei blitz della Guardia di Finanza, che è costretta a fare cassa su mandato del fisco. Oramai abbiamo perduto il conto di tutte le multe scaturite dalla fantasia della burocrazia e comminate con zelo dagli agenti che devono compiacere un moloch vorace. Si potrebbe scriverne un libro. Ma ci limitiamo a raccontare l’ultimo caso in ordine di tempo, accaduto a Lecco a una parrucchiera. La signora Mara Lucci, titolare di un salone, è stata sanzionata dalla Guardia di Finanza per essersi fatta la piega nel proprio esercizio senza emettere lo scontrino. Non stiamo scherzando. Se voi avete un’attività commerciale, per esempio un bar, una pasticceria, una salumeria eccetera non potete assolutamente permettervi di bere un caffè, mangiare una pastina oppure un panino col prosciutto anche se appartengono a voi. Il motivo? La normativa sull’autoconsumo 
Si fa fare la piega nel suo negozio: multa La Finanza ci ripensa e cancella il verbale
piega nei tempi morti dell’attività, fra una cliente e l’altrache impone, anche al titolare dell’attività, di emettere la fattura o lo scontrino fiscale. Non sappiamo cosa passasse per la testa del creativo legislatore quando ha avuto la brillante ideona, ma sta di fatto che questa è la sconsolante realtà. A questo punto, pensiamo che per qualsiasi pubblico esercente sia più conveniente andare a prendere un caffè, una pasta o un panino dalla concorrenza e non nel proprio esercizio perché, a conti fatti, gli costerebbe meno che autoemettere lo scontrino.La parrucchiera di Lecco, probabilmente ignara di questa vessazione di Stato, ha pensato di farsi piega nei tempi morti dell’attività, fra una cliente e l’altra
la . E, senza rendersene conto, è diventata un pericoloso evasore fiscale, tanto da ricevere dai solerti finanzieri una multa di 500 euro. Quando le hanno contestato la violazione, ha pensato a uno scherzo, ma i toni degli agenti l’hanno subito stroncata, facendola sentire una disonesta. La signora Lucci è scoppiata in lacrime e ha invocato inutilmente il buon senso. Il buon senso? È un termine bandito nei dizionari dello Stato italiano, la cui voracità ha ormai raggiunto livelli insostenibili. Quello che sembra un caso di cronaca locale è invece il paradigma di un Paese intero, dove il cittadino è un suddito che deve piegarsi ogni qualvolta un burocrate, da Roma o Bruxelles, imponga norme incomprensibili, contradditorie, in antitesi con il buon senso. Una tirannia subdola e vendicativa. Sembra di vivere in un romanzo di Orwell. E così lo Stato despota, che ci impone di giustificare come spendiamo i nostri soldi quando dovrebbe essere lui a spiegare come spende i nostri, invece di andare a caccia di grandi evasori, di coloro che sfruttano il lavoro nero minacciando la previdenza pubblica, dei possessori di grandi patrimoni al di là dei confini, spreme i cittadini-sudditi. E se la prende con una parrucchiera di Lecco o con un barista di Albisola Superiore, che si è bevuto un caffè nel proprio bar, costatogli 500 euro; perseguita un cafè restaurant di Carpi perché il titolare ha evaso 95 centesimi non emettendo scontrini e lo bastona con una multa di 2.400 euro; sanziona pesantemente un imprenditore di San Donà di Piave perché ha scaricato con il carrello elevatore, che non ha la targa, un camion a un metro dall’azienda e non dentro la sua proprietà. Insomma, smettiamola di definire ipocritamente questi episodi come «lotta all’evasione», questa si chiama semplicemente persecuzione fiscale.
ha intenzione è di presentare ricorso, cioè una memoria all’Agenzia delle entrate, ricostruendo le circostanze, che ritiene  sproporzionate. Ora << (....) La solidarietà mi ha fatto, naturalmente, piacere – commenta la parrucchiera – I motivi, però, per i quali mi sono rivolta alla stampa erano più che altro due: rendere nota la vicenda per risparmiare, possibilmente, ad altri la medesima disavventura; e dare risalto a un atteggiamento sanzionatorio secondo noi per nulla ispirato al buon senso, diretto contro chi lavora onestamente: e questo lo ripeto; dal mio negozio non è uscito mai nessuno senza la fattura; ciò che è successo e che una dipendente ha acconciato la propria titolare ed io stessa non ero nemmeno uscita dal negozio prima che i finanzieri arrivassero a muovermi la contestazione; anzi, non ho avuto neppure il tempo di avvicinarmi alla cassa, qualora avessi voluto farlo».(....)  >>


  

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni" Giuseppe Costanza era con il giudice il 23 maggio 1992, giorno della strage: "Dopo mi misero a fare fotocopie".

due  parole  sono poche  ed una troppa  per  esprimere  il mio disgusto di questo stato  che   ipocritamente  va   a  funerali    o  da  in pompa  magna  medaglie ed onorificenze    delle vittime  , ma  non   solo per    quelli più in vista     gli altri   come  lui    non sa  che farsene o  gli emargina  \  mobizza 

 da  repubblica  online   d'oggi 

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni"
Giuseppe Costanza era con il giudice il 23 maggio 1992, giorno della strage: "Dopo mi misero a fare fotocopie". In un libro il racconto del suo drammadi SALVO PALAZZOLO - video di GIORGIO RUTA


PALERMO - "Al risveglio, dopo l'esplosione, pensavo di aver vissuto il giorno più brutto della mia vita, il 23 maggio 1992". Giuseppe Costanza, l'autista del giudice Giovanni Falcone scampato alla strage di Capaci, scuote la testa. "No, mi sbagliavo. Non era quello il giorno più brutto della mia vita. Restare in vita è stato peggio. Quasi una disgrazia, una condanna. Perché dopo un anno di visite e ospedali, al lavoro non sapevano cosa farsene di me".

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni"
Giuseppe Costanza vicino ai resti dell'auto sulla quale viaggiava con Giovanni Falcone e Francesca Morvillo 

L'uomo sopravvissuto al tritolo della mafia è rimasto schiacciato per anni dalla burocrazia del ministero della Giustizia. "Mi misero a fare fotocopie", racconta. "Rinchiuso in fondo a un corridoio del palazzo di giustizia di Palermo, dentro un box. Era mortificante dopo otto anni passati in prima linea sempre accanto al giudice Falcone. Mi sentivo rinchiuso in una gabbia, per di più costretto a sopportare il mobbing di un capo ufficio a cui era chiaro che non andavo a genio". In quei giorni, a Giuseppe Costanza non importava per niente di aver ricevuto una medaglia d'oro al valor civile. Lui voleva solo lavorare. "Non certo come autista - dice - non potevo più farlo, volevo essere assegnato in un ufficio in cui la mia esperienza potesse essere utile. Ad esempio, avrei potuto coordinare il parco auto del tribunale". Ma gli dissero che era necessaria una qualifica più alta per quel lavoro. E gli spiegarono con pignola precisione burocratica che la promozione per meriti di servizio è prevista solo per il personale militare. "E che cosa ero stato io se non un militare? - sbotta - nell'auto blindata di Giovanni Falcone c'era una radio collegata con la sala operativa della questura, accanto a me c'era il giudice. E alla cintola portavo sempre una pistola con il colpo in canna".Venticinque anni dopo la strage di Capaci, l'uomo sopravvissuto a trecento chili di tritolo ha deciso di scrivere un libro per raccontare la sua odissea, prima nei gironi infernali accanto al suo giudice, poi, da solo, negli altri gironi terribili, quelli di una pubblica amministrazione ottusa. Stato di abbandono, si intitola il commuovente libro di Giuseppe Costanza (scritto assieme a Riccardo Tessarini, edizioni Minerva). La storia di un uomo semplice, che pensava di avere già vinto la sua battaglia con la vita, e poi invece scoprì che aveva ancora un altro nemico da sconfiggere. Un esercito di piccoli burocrati. "Dopo anni di lettere, proteste, piccole vittorie e ancora altre umiliazioni, nel 2004 sono stato dispensato dal servizio", sussurra Costanza, come fosse una sconfitta, che lui continua a non accettare. "Pensavo di poter dare ancora tanto alle istituzioni, pensavo di poter dare un contributo importante nell'organizzazione di un servizio delicato come quello dell'autoparco del tribunale di Palermo, impegnato a stretto contatto con i servizi di scorta. Ma, evidentemente, mi sbagliavo. Mi hanno rottamato".
Ora Giuseppe Costanza va in giro per le scuole di tutta Italia per parlare del suo giudice e degli anni difficili a Palermo. "C'eravamo sentiti telefonicamente la mattina di quel 23 maggio, per organizzare l'arrivo a Punta Raisi. Alle 17,45 sono all'aeroporto assieme alla scorta. Il giudice ha due borse nelle mani. "Strano", penso. "Non ha il suo computer". Lo portava sempre con sé, lo riempiva di annotazioni. Eppure, l'hanno trovato vuoto, ma questo l'ho saputo molto tempo dopo". È uno dei misteri del 23 maggio, il computer portatile era rimasto nell'ufficio di Falcone, al ministero della Giustizia. "Quel pomeriggio - ricorda Costanza - Falcone è alla guida, accanto c'è la moglie, Francesca Morvillo. Io sono dietro. Gli dico: "Ecco il resto che le dovevo". Mi aveva chiesto di comprare un cric. Mi guarda, sorride: "Aveva un pensiero - dice - non poteva aspettare più". Era sereno, Giovanni
Falcone, nel suo ultimo viaggio verso Palermo. "La settimana prima mi aveva detto: è fatta, sarò il nuovo procuratore nazionale antimafia. Quel pomeriggio doveva incontrare alcuni suoi colleghi, ma non gli hanno dato il tempo. E ancora mi chiedo chi l'abbia voluto fermare". Presto, l'auto dell'ultimo viaggio di Falcone tornerà a Palermo. "Verrà sistemata fra i due palazzi di giustizia - spiega Costanza - non possiamo dimenticare".







9.4.17

Cari fratelli Mussulmani .....

leggi anche  
http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2017/04/agli-unici.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Copti
https://it.wikipedia.org/wiki/Jih%C4%81dismo

Cari fratelli  e  sorelle   Mussulmani

La chiesa copta a Tanta (Epa)


Sono un occidentale  di formazione , anche  se  non più praticante  e anticlericale  ,  cristiano  \  cattolica  e come   questo  film   riportato sotto (anche  se   fatti   e contesti sono  diversi  ) 


 abbiamo  in comune  l'essere  vittime  da parte  interpretazioni  che  ormai non dovrebbero avere ragione d'esistere  . E' vero   che   noi occidentali  prima con  il colonialismo  , poi  con il neo colonialismo   vi abbiamo  sempre depredato e poi vilipeso instaurando  governi e  regimi fantoccio che  imponevano una  cultura ed una fede diversa ( anche   se  la nostra  religione   nacque appunto  in medio oriente  )  dalla vostra  e quindi l'uso \ la  trasformazione , il cosiddetto   Jihadismo ( "gihadismo"  ) ,  da lotta  spirituale  a  lotta  violenta  terroristica   risulta   comprensibile . Ma   qui  in occidente  ,  con questi attentati (  e non solo )   contro noi  europei  e  ora  contro i nostri e  credo  anche  vostri  fratelli  copti  non fa  che  aumentare  l'odio   generalizzato nei vostri confronti  . Quindi   come    avete fatto  e  come sapete  fare   quando  ci sono stati gli attentati  contro noi occidentali , sarebbe bello   vedervi in piazza  ed  esprimere  vicinanza  anche  a  vostri  fratelli   cristiani orientali   .   

AGLI UNICI




No, non è una festa. Ha i paramenti rossi come il sangue. E sangue ne è scorso a fiumi, oggi, ad Alessandria e al Cairo. Vittime, ancora una volta, i cristiani copti, massacrati dai jihadisti durante la Messa delle Palme. Il sorriso di questa domenica mostra i denti, finge il tripudio ma prelude alla Passione. In Egitto, terra così vicina a quella di duemila anni fa, il buio è piombato all'improvviso. 
Non è la prima volta. Lontani i momenti in cui il futuro papa copto Shenuda III veniva allevato da una famiglia musulmana e giocava coi figli di quest'ultima in qualche cortile a Cleopatra. Da molti anni i cristiani sono nel mirino del Daesh; il martirio di Sirte, due anni fa, ne rappresentò solo l'episodio più sconvolgente. 
Ma chi sconvolse, poi? Europa e Usa, no davvero. I media neolaici continuano a disinteressarsi della sorte dei cristiani mediorientali; e lo stesso può dirsi di certo terzomondismo "progressista". In effetti, per quest'ultimo sembra non esistano chiese distrutte in Medio Oriente, non famiglie perseguitate, non bambini rapiti e convertiti a forza. 


L'immagine può contenere: spazio al chiuso
Forse non li considerano abbastanza indigeni per destare interesse.Forse li ritengono un prodotto del colonialismo europeo.
Forse pensano Gesù provenga da Lentate sul Seveso e non li sfiora neppure l'idea che quei luoghi non sono nati musulmani, bensì cristiani.
Forse, e senza forse, si vergognano di loro. Non li prevedono. Oggi, un occidentale desideroso di passare per aperto, intelligente e dialogante "deve" rinnegare il cristianesimo. 
Ebbene: queste vittime, questi morti mettono a soqquadro il perbenismo corretto. Il quale, del resto, ha i giorni contati. Molto presto saranno costretti ad ammetterlo: sì, li uccidono perché cristiani. I cristiani vengono martirizzati, oggi come ieri. Addirittura più di ieri, secondo osservatori qualificati e secondo papa Bergoglio, atteso proprio in questi giorni. I cristiani sono inscindibili dalla croce. 
E non perché amino la sofferenza, ma perché ne sono attraversati, lo siamo tutti, è la cifra del nostro esistere. Averlo dimenticato significa vivere fra parentesi, simulare la festa. In tal modo non resta nulla, se non un'idiota allegria di naufragio, ondivaga come la folla. Che prima acclama, poi ripudia.
I nostri fratelli e sorelle copti, appena calcato il terreno della città, sono stati crocifissi. Vittime designate. È l'unica, lapidaria realtà. 
E oggi, in questa domenica delle Salme, per sentirmi realmente vicina a tutti, devo distinguere quelle morti, restituir loro l'originale, specifica fisionomia. Non voglio mescolarle a nessun altro. Oggi, affinché la mia solidarietà universale non risulti posticcia, sono cristiana copta.





© Daniela Tuscano
(Grazie per l'immagine alla comunità "Gesù Buon Pastore" di Madre Longhitano)

50 anni fa moriva il principe della risata. Triste, cieco e stroncato

da ilfattoquotidiano
di Marco Travaglio | 3 aprile 2017




Giovedì 13 aprile 1967, primo pomeriggio. Il principe Antonio de Curtisrincasa dal set molto presto, più presto del solito, a bordo della Mercedes grigia guidata dal fido autista Carlo Cafiero. Proprio quel giorno ha cominciato le riprese de “Il padre di famiglia” di Nanni Loy. “Cafie’, mi sento ‘na schifezza”, dice entrando nell’ascensore della sua casa di via Monte Parioli 4 a Roma. Ad attenderlo c’è Franca Faldini, la giovane attrice dagli occhi azzurrissimi, sua compagna da 14 anni. Il medico assicura che non è nulla, ma la sera seguente Franca lo trova appoggiato al tavolo, pallidissimo. “Chi mi ha tirato questa fucilata al petto?”. Attacco alle coronarie. Tre infarti in due ore. Poi l’ultimo attimo di lucidità e le ultime parole sulle quali, come per tutti i grandi, si litiga da 50 anni. “Lasciatemi in pace, fatemi morire”. Oppure: “Sto male, portatemi a Napoli”. O ancora: “Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano”. O forse tutt’e tre le frasi insieme. Spira alle 3 di notte di sabato 15 aprile. Qualche ora dopo iniziano a piovere le telefonate, i telegrammi. Poi la processione nella camera ardente di parenti amici, colleghi, attori, registi, autorità, semplici cittadini e critici. Quei critici che fino al giorno prima non avevano fatto che disprezzarlo.
La salma parte per Napoli. Esequie solenni nella chiesa del Carmine, una folla immensa accorsa ad accogliere la bara fin dallo svincolo dell’autostrada. Nino Taranto, la voce spezzata dal pianto, pronuncia la breve l’orazione funebre: “Hai regalato a Napoli il sorriso al posto della malinconia… Il tuo pubblico è qui e ha voluto che il suo Totò facesse a Napoli l’ultimo esaurito della sua carriera…”. Ma due giorni dopo il suo rione Sanità gli regala un secondo funerale. Lo organizza Nicola Campoluongo, detto “Nase ‘e cane”, il vecchio guappo della mala che, conosciuto Totò in gioventù, se n’era autoproclamato il protettore: “’O principe ha da turna’ a casa”. La bara vuota viene portata sulle spalle dai gorilla del guappo, tra gli stessi napoletani piangenti e acclamanti di due giorni prima. E dire che, poco prima di morire, ‘O Principe aveva detto nell’ultima intervista: “Chiudo in fallimento, nessuno mi ricorderà…”.
Antonio nasce a Napoli, rione Sanità, il 15 febbraio 1898. Figlio naturale di Anna Clemente, popolana di umilissime origini, e del marchesino Giuseppe de Curtis, rampollo di una nobile casata decaduta. Che, per il divieto degli aristocratici genitori, è costretto ad abbandonare la ragazza col bebè in fasce. Anna lo tira su con mille sacrifici lavorando giorno e notte e affidandolo alla nonna. Totò passa il tempo a giocare con gli amici del rione, detesta la scuola, non spiccica una parola d’italiano. 
E, quando rischia di finire malamente, viene spedito per tre anni in un collegio per ragazzi poveri, fino al termine delle elementari. Qui, mentre si allena alla boxe con un istruttore, si procura quella deviazione cronica del setto nasale che farà la sua fortuna (l’altra metà della sua maschera comica se la procurerà lui stesso, prendendosi a pugni la mascella fino a sganciarla dalla sua sede naturale). Tornato a casa, ripiomba nei vicoli, bazzicati anche da Eduardo De Filippo, di due anni più giovane, ma di famiglia meno misera. Lo chiamano “Totò ‘o spione” per l’abitudine di pedinare i personaggi più stravaganti del rione facendone il verso . Il suo primo palcoscenico è proprio la strada: improvvisa imitazioni, scenette, spettacolini, che poi replica in casa davanti ai parenti. Ma la madre sogna per lui una carriera da ufficiale di Marina. E lui, anche per sfuggire dall'asfissiante tutela materna, parte volontario per la Grande Guerra.
È il 1915. Lo destinano a Pisa, poi in Francia. E mentre già sta sulla tradotta verso il confine, capisce che la guerra è una cosa seria. E riesce a farsi riformare in extremis simulando una raffica di attacchi epilettici. L’ufficiale medico abbocca e nel ’18 lo rispedisce a Napoli. Ha quasi vent'anni e deve decidere cosa fare da grande. Ma combina poco. Nel 1922 il marchese suo padre si rifà vivo con la madre per sposarla. Ad Antonio, vissuto da sempre nell'onta del figlio bastardo, non par vero di scoprirsi figlio di un marchese, per quanto spiantato. Ma non si accontenta e si fa adottare dal principe Francesco Gagliardi, che gli regala una sfilza di titoli araldici: Focas Flavio Angelo, Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio Gagliardi Antonio Giuseppe di Luigi Napoli, Principe Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano impero, Nobile Altezza Imperiale. Il padre, piccolo impresario teatrale, lo fa ben sperare per la carriera artistica. Lui intanto segue come un’ombra il re dell’avanspettacolo napoletano Gustavo De Marco. Ma Napoli non offre sbocchi. E la famiglia De Curtis finalmente riunita si trasferisce a Roma. Antonio bussa a tutte le porte della capitale, invano. Soffre la fame, recita per un tozzo di pane nelle compagnie più malfamate, conosce persino l’abiezione della droga (una boccetta di etere che, scoperta dalla madre, gli vale una scarica di botte). In teatro ci entra, alla fine, ma come maschera: accompagna la gente ai posti prima degli spettacoli, al teatro del varietà, il Jovinelli, fondato dall'omonimo impresario casertano Peppe.
Poi, una sera, il colpo di fortuna: De Marco, approdato a Roma sulle ali del successo, litiga con l’impresario e dà forfait. Si fa avanti Antonio: “Don Peppe, saccio fare il repertorio di De Marco. Se volete, stasera recito io”. Jovinelli lo mette alla prova. Funziona. Il contratto, da giornaliero, diventa settimanale, poi mensile, poi annuale. Nel 1931 già guadagna mille lire a serata, proprio mentre un cantante in voga, Gilberto Mazzi, sogna “mille lire al mese”. In cartellone “Totò imitatore di De Marco” diventa semplicemente “Totò”: serata dopo serata, abbandona le macchiette demarchiane e crea un personaggio tutto suo: sciamméria (una specie di frac) larga e lunga, pantaloni “a saltafosso”, calzini a rigoni colorati, bombetta nera, laccio da scarpe a mo’ di cravatta. Totò, appunto: marionetta in carne e ossa, povera e surreale, snodata e scattante, l’ultima maschera della commedia dell’arte. Successo clamoroso, tournée sold out in tutta Italia, ingaggi da favola, avventure galanti. Travolgente quella intrecciata nel ’29 con la soubrette più famosa d’Italia, Liliana Castagnola: dura un anno, poi la diva abbandonata si suicida con due flaconi di sonnifero. Totò non riuscirà mai a perdonarselo. E non sarà più lo stesso. Disperato, poi triste, infine malinconico. Per qualche mese medita di mollare tutto. Ma nell’estate del ’31 conosce Diana Baldini Rogliani, 16 anni, bella e innamorata pazza di lui. Prima la “rapisce”, poi la sposa e due anni dopo nasce Liliana (come la Castagnola), l’unica figlia. Ben presto però la morbosa gelosia di lui guasta i rapporti dei coniugi. I due si separano di fatto nel 1940, ma per non turbare l’infanzia della figlia decidono di vivere insieme fino ai suoi 18 anni. Diana però se ne va prima per risposarsi, stufa delle infedeltà del marito che per questo le dedicherà Malafemmena, la canzone struggente su cui si favoleggerà tanto (secondo alcuni, smentiti da Liliana, era dedicata a Silvana Pampanini che aveva rifiutato la sua proposta di nozze).
Sono gli anni ruggenti del varietà e Totò ne è il primattore assoluto. Gira l’Italia con la rivista e le commedie di Eduardo Scarpetta (che porterà poi al cinema, da “Miseria e nobiltà” a “Il medico dei pazzi”), recita nella grande compagnia di Michele Galdieri, fa coppia con Anna Magnani e terzetto con Eduardo e Peppino De Filippo (capolavori di cui purtroppo non resta traccia filmata, a parte qualche sketch ripreso nei suoi film, a cominciare dal collage “Totò a colori”). Incappa persino nelle maglie della censura per il suo vezzo di parodiare il Duce e il Fuhrer. Si becca una denuncia per un’innocua battuta su “Galileo Gali-lei/Gali-voi”, che prende in giro la campagna del regime per il “voi” contro il “lei”. Nel marzo del ’44, in una Roma pullulante di nazisti dopo la strage delle Ardeatine, il coprifuoco sbarra tutti i locali, compresi i teatri. Anche il Valle, dove Totò è in cartellone con la Magnani nella rivista “Che ti sei messo in testa?”. Il questore Pietro Caruso – lo racconterà lo studioso Francesco Canessa su La Repubblica-Napoli – avverte il principe che i tedeschi vogliono arrestarlo per le sue imitazioni di Mussolini, più esplicite in privato, solo accennate sul palco. E con lui rischiano la galera Peppino ed Eduardo, impegnati in quei giorni alla Sala Umberto. Totò avverte Peppino tramite un macchinista del teatro, poi corre a nascondersi nel casale di un contadino a Valmontone, mentre i De Filippo si rintanano in casa di amici in città. Fino al 4 giugno, quando gli Alleati entrano nella Capitale. Tre giorni dopo riapre il Valle: Totò e la Magnani tornano sul palco, con la stessa rivista intitolata però “Con un palmo di naso” e aperta da una nuova “sortita” liberatoria del principe che, sulle note accelerate di Lili Marleen, marcia al passo dell’oca sbeffeggiando Hitler con baffetti, divisa militare e un telefono in mano: “Tutte le sere al general quartier / arriva una telefonata per me il Furier! / si rincula al sud, dice ma / ma si avanza verso il nord! / Si rincula a sud, ma si avanza al nord!… Eins-zvei-eins-zvei…”.
Intanto nel 1937 Totò ha debuttato al cinema in “Fermo con le mani”, scritto dal futuro leader dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini. Un mezzo fiasco. Ci riprova con “Animali pazzi” di Achille Campanile, diretto da quello che diverrà uno dei suoi registi preferiti, il futurista Carlo Ludovico Bragaglia. Altro insuccesso. Il terzo tentativo però va meglio: “San Giovanni Decollato” di Cesare Zavattini. È il 1940, l’anno dell’entrata in guerra. Di film Totò ne girerà 97 in 30 anni. “Papà non amava il cinema – racconterà la figlia Liliana – ma lo faceva perché gli dava la possibilità di guadagnare molto di più con minore fatica. Soprattutto da quando cominciò a perdere la vista, fino alla cecità pressoché totale. Un occhio lo perse da giovane per distacco della retina, l’altro nel ’56 per una polmonite virale trascurata, e da allora non vide che ombre confuse”. Ma poi l’adrenalina da palco e da ciak faceva ogni volta il miracolo.
All’uscita di ogni pellicola, i critici storcono il naso e stroncano il Principe, siglano le recensioni “Vice” per non sminuirsi con la propria firma e coniano per i suoi film un neologismo spregiativo: “totoate”. In effetti molti soggetti sono deboli, canovacci da commedia dell’arte, e meno male perché il resto lo aggiunge lui, il Principe, col tocco del suo genio, riuscendo a rendere appetitose le trame più sciape, irresistibili i copioni più insulsi con invenzioni pirotecniche, improvvisazioni fulminanti, gag esilaranti, giochi di parole, mimiche da marionetta umana anzi sovrumana (le scene della lettera alla malafemmina e del treno inizialmente duravano 30 secondi). Comunque lavora con signori registi come Mattoli, Steno, Mastrocinque, Corbucci, su su fino a Lattuada, Comencini, Monicelli, Risi, Rossellini e Pasolini. E duetta con Peppino, Eduardo e Titina De Filippo, Taranto, Fabrizi, De Sica, Macario (il prediletto, per la sua stralunatezza), Magnani, Fernandel, Sordi, Mastroianni, Gassman, Tognazzi, Manfredi, Franca Valeri, Sophia Loren, Virna Lisi, oltre alla fedele spalla di sempre, Mario Castellani (l’onorevole Trombetta nello sketch del treno).
Le sale sono sempre strapiene, il popolo lo adora da un capo all’altro d’Italia. Ma la puzza sotto il naso della critica fighetta e impegnata, che non riesce a cogliere la profondità tridimensionale del suo lavoro di vero intellettuale e poeta, inventore di una neolingua che gli sopravviverà in eterno, non gli perdona il disimpegno politico, né coi governi Dc né con le opposizioni socialcomuniste. Infatti il commovente “Totò e Carolina” di Monicelli si guadagna il record di film più tartassato dalla censura di Stato: “Hanno fatto 82 tagli – ricorderà Totò – e hanno persino preteso la soppressione del nome del mio personaggio che si presentava dicendo: Caccavallo, agente dell’Urbe” (“dell’Urbe” suonava, per gli ottusi censori, troppo nostalgica e fu sostituita con “di Roma”, rovinando la battuta). Di politica capisce poco e s’interessa ancor meno. È iscritto alla massoneria, eppure cattolico osservante. E monarchico, forse per la passione araldica, ma soprattutto per la sua natura di uomo fuori dallo spazio e dal tempo. Una sera del 1958, al Musichiere di Mario Riva, si lascia sfuggire un “Viva Lauro!” (Achille, l’armatore monarchico). Riva, spaventato, lo rimbrotta: “Ma Totò…”. E lui: “A me piace Lauro, che vuo’ fa’?”. Non lo si rivedrà più in tv, fino al celebre duetto del 1965 con Mina a Studio uno.
“Ho fatto un ammasso di schifezze”, ripete negli ultimi anni sempre più cupo, amareggiato e menomato della cecità. Riservato e malinconico, mai mondano, ma sempre gentile e generoso con tutti i bisognosi come lo era stato lui: elargisce biglietti da 10mila ai poveri che l’aspettano sul portone di casa, regala moto agli operai della troupe, dona auto come regali di nozze agli amici e la notte si fa portare nei quartieri popolari per infilare sotto usci buste anonime gonfie di banconote per garantire risvegli da favola a gente che non saprà mai chi ringraziare. Adotta anche 150 cani abbandonati, mettendo su un canile sulla Cassia.
Ricco, famoso, mai felice. Tutto il contrario della sua maschera. I grandi registi “seri” lo snobbano (a parte Rossellini e poi Pasolini: Fellini risponde ai suoi appelli facendosi beffe di lui). E negli ultimi anni anche alcuni colleghi, come Peppino, iniziano a rifiutare di recitargli accanto per non “sminuirsi”. Un giorno gli assegnano un premio minore. Lui, serissimo, va a ritirarlo, sale sul palco e si accorge, con quel po’ di vista che gli è rimasta, che in sala a festeggiarlo non c’è quasi nessuno. Se ne va piangendo, con la sua statuetta di latta sotto il braccio. Solo quando Pasolini lo chiama per “Uccellacci e uccellini” la critica “impegnata” sembra ricredersi. Ma è tardi. Anzi quel successo tardivo lo deprime vieppiù, come se dei suoi quasi cento film non si fosse accorto nessuno. “Sarei potuto diventare un grande attore e invece non ho fatto nulla di buono”, dice sconsolato pochi mesi prima del passo d’addio. Non sa che, a funerali avvenuti, persino Fellini proporrà addirittura di farlo santo. E che saranno i suoi critici a essere dimenticati, non lui. Chissà le risate lassù su quella nuvoletta nel paradiso dell’incanto e della fantasia, della tenerezza e dell’ironia. Là dove si pasteggia a Moet Chandon. E lui: “Mo’ esce Antonio”.

la ricerca scientifica su fa anche fuori laboratorio un biologo in surf a caccia di super batteri Cliff Kapono studia l'acqua ingerita in mare, da lui e da altri atleti, e trova le nuove resistenze agli antibiotici



la ricerca scientifica su fa anche fuori laboratorio


da repubblica  del 09 aprile 2017

La farmacia nell'oceano: un biologo in surf a caccia di super batteri
Cliff Kapono studia l'acqua ingerita in mare, da lui e da altri atleti, e trova le nuove resistenze agli antibiotici 

di GIULIANO ALUFFI




Cliff Kapono sul suo surf




ROMA - Silver Surfer, il glabro e argenteo personaggio della Marvel, non è l'unico surfista che si fa in quattro per difendere l'umanità. Ma mentre Silver Surfer combatteva il gigantesco Galactus, alla University of California di San Diego c'è un surfista con i dreadlocks, 29enne ricercatore in chimica, che vuole proteggerci da minacce ben più nascoste. Si chiama Cliff Kapono, è nato nell'isola di Hawaii e ha fondato un progetto che lo porta a cavalcare, con la sua tavola, i mari del mondo in cerca di batteri resistenti agli antibiotici: il Surfer Biome Project.
Kapono ci ha spiegato in che modo i surfisti possano aiutare la scienza. "Noi che abbiamo questa passione - io faccio surf da quando cammino perché è qualcosa di legato alla mia cultura, i nativi delle Hawaii sono stati i primi a stare in piedi sulle onde - abbiamo una caratteristica: entriamo a contatto con i milioni di batteri dispersi nell'oceano più di ogni altra categoria di persone, per la frequenza e la durata delle uscite in mare" spiega Kapono. "Per ogni uscita con la tavola beviamo in media 170 millilitri di acqua salata. Siamo esposti più di tanti altri a batteri potenzialmente nocivi, come mostrano studi dell'Università di Exeter". I surfisti sono un campione prezioso per studiare gli effetti del microbioma marino sull'uomo. "L'oceano è un ambiente ancora largamente inesplorato dai microbiologi - conosciamo meglio la Luna del mare profondo - e molto competitivo" sottolinea Kapono. "L'acqua facilita i contatti tra gli organismi, scatenando una lotta senza quartiere, combattuta a colpi di sostanze difensive. E di resistenze che evolvono in risposta, e richiedono ancora nuove armi chimiche". Succede così che certi microbi marini possano risultare resistenti agli antibiotici che si usano in medicina anche se non sono mai stati a contatto con farmaci prodotti dall'uomo: "La loro resistenza si è evoluta per sopravvivere agli organismi marini rivali, ma può proteggerli anche dai nostri antibiotici".



Ed ecco che vengono chiamati in causa i cavalcatori dell'onda. "Nelle viscere dei surfisti, i batteri provenienti dal mare possono rendere più resistenti - mediante il cosiddetto "trasferimento orizzontale" di geni - i batteri più "nostrani", come l'E. coli. O altri ancora più pericolosi che oggi teniamo a freno grazie agli antibiotici". Un rischio da prevenire, identificando in anticipo i batteri marini più resistenti. Prova a farlo il Surfer Biome Project lanciato da Kapono come estensione dell'American Gut Project, iniziativa di "citizen science" che chiede a chiunque voglia partecipare di passare dei tamponi sulla pelle, sugli occhi, sulla lingua e sulle feci e inviarli alla mia università, l'Ucsd, insieme a un questionario sulle abitudini di vita e sul luogo in cui si vive. "In laboratorio estraiamo il Dna dei batteri raccolti e lo sequenziamo, usando anche la spettrometria di massa per studiare le proprietà delle singole molecole di cui il batterio è composto. Così possiamo scoprire nuovi batteri resistenti agli antibiotici" spiega Kapono. "Cercando nuovi modi di usare questi strumenti, ho pensato di focalizzarmi sui surfisti. Raccogliendo campioni entro due ore dall'uscita dei surfisti, me compreso, dall'acqua in California, Marocco, Inghilterra, Irlanda, Hawaii".
Il progetto è iniziato a settembre 2016 e finirà quest'estate. "Per ora stiamo vedendo due cose: che i surfisti di ogni parte del mondo hanno un microbioma piuttosto simile, e che - seppure esposti all'incognita dei batteri marini- non accusiamo più infezioni delle altre persone". Chissà che non sia proprio il surf il migliore farmaco.


8.4.17

proposte di lavoro "hot" sui profili di ragazze e belle donne Sconcerto e annunci di denuncia per le proposte che molte donne del litorale si sono viste recapitare per lavorare in un night con lap-dance



Il fatto successo  a Jesolo  , vedi articolo  sotto  , potrebbe  capitare  anche  in qualunque  altra  città  italiana   visto  l'ormai  sempre più massiccio e  codificato uso   di mettere   pubblicamente  le proprie  foto  sexy    sui  social  .  
Quindi   mi  fa  indignare    , quelle    donne  (  purtroppo  anche  adolescenti    e  e  ventenni )  che mettono  le loro  foto  in pose ammiccanti  e  sensuali   e  poi   s'indignano     se  succedono cose  del genere  
Quindi mi  chiedo  ma  .....  ti lamenti   se   sei  tu  ad  offrirli  un esca  .  





Jesolo, proposte di lavoro "hot" sui profili di ragazze e belle donne
Sconcerto e annunci di denuncia per le proposte che molte donne del litorale si sono viste recapitare per lavorare in un night con lap-dance

di Giovanni Cagnassi




Un locale di lap dance

JESOLO. Ma quale stagione estiva come cameriera o barista, adesso arrivano le proposte di lavoro decisamente "hot". Direttamente sul cellulare o il computer, attraverso i social.
Un misterioso agente ha rintracciato le ragazze in rete, magari basandosi sulle foto che le ritraggono su Facebook. E ha proposto nuovi lavori ben remunerati per danzare in locali del Trevigiano: night e locali in cui il sesso è protagonista assoluto nelle sue tante sfumature dalla lap dance a chissà quali incontri.
Così, tante ragazze e anche qualche avvenente mamma un po' più matura e ancora seducente, hanno ricevuto la proposta, assolutamente corretta e legale, ma quanto meno audace e sopra le righe. "Vuoi lavorare in un night? Contattami". E poi altre descrizioni e allusioni al genere di lavoro che non manca mai, come del resto i clienti. I vari episodi hanno solle
"Mi è arrivata questa proposta di lavorare in un night della Marca", racconta una ragazza di Jesolo, " e mi sono decisamente stupita. L'ho detto al mio compagno, che aveva già occhieggiato il cellulare con curiosità e lui si è subito inalberato, pensando che io avessi contatti in un certo tipo di ambiente. "Capisco che magari questo agente posa aver visto la mia foto sul profilo Fb", aggiunge imbarazzata, "ma utilizzare i social come veicolo per proposte di lavoro certamente non usuali è sbagliato a crea inutili tensioni in famiglia o tra gli affetti. Adesso vedrò che cosa fare, ma queste sono le storture dei social, che possono anche diventare ben più gravi".
vato più di qualche tensione nelle famiglie jesolane e del Basso Piave, tra mamme scandalizzate, papà visibilmente arrabbiati, fidanzati gelosi e scattati sull'attenti davanti alle "proposte indecenti".
"Mi è arrivata questa proposta di lavorare in un night della Marca", racconta una ragazza di Jesolo, " e mi sono decisamente stupita. 
L'ho detto al mio compagno, che aveva già occhieggiato il cellulare con curiosità e lui si è subito inalberato, pensando che io avessi contatti in un certo tipo di ambiente. "Capisco che magari questo agente posa aver visto la mia foto sul profilo Fb", aggiunge imbarazzata, "ma utilizzare i social come veicolo per proposte di lavoro certamente non usuali è sbagliato a crea inutili tensioni in famiglia o tra gli affetti. Adesso vedrò che cosa fare, ma queste sono le storture dei social, che possono anche diventare ben più gravi".
Oltre ai "leoni della tastiera", come sono chiamati in gergo coloro che dietro i terminali denunciano e offendono o si sfogano alimentando scontri e liti, ci sono altri fenomeni incontrollati come queste proposte di lavoro diciamo osé, o, peggio ancora, persone meschine che usano i social media per incontri viscidi e inganni, truffe o addirittura violenze, minacce e estorsioni. La polizia postale e i carabinieri sono in questi anni sommersi da denunce e segnalazioni e di recente, nelle scuole del territorio sono stati organizzati seminari e incontri sulle insidie della rete. Ma la proposta di lavorare in un night, oltretutto in un periodo in cui trovare lavoro è sempre più difficile, è l'ultima novità che ha turbato il territorio e soprattutto l'universo femminile ancora mercificato come accadeva in un lontano passato che si credeva ormai archiviato.

Cagliari, con 'Merendine solidali' 1200 euro per aiutare la compagna malata

Ansa  8 aprile 2017 Cagliari





Quando la scuola è davvero buona: i bambini della primaria Randaccio di via Venezia a Cagliari raccolgono 1200 euro con le "merendine solidali" per aiutare una loro compagnetta che ha bisogno di costose cure per una malattia neurologica, la sindrome di Brett. E ieri il generoso gesto è stato ricordato durante una cerimonia ufficiale organizzata dall'associazione no profit La Pecorella Solidale e dai suoi piccoli soci. La bambina, dieci anni, frequenta la scuola a tempo pieno. Ma - racconta l'associazione- le necessità sono tante: non solo c'è bisogno di un'insegnante di sostegno e di un'educatrice durante le ore di lezione, ma anche a casa le giornate vengono scandite dalle sessioni di terapia riabilitativa e dal sostegno continuo delle persone che la aiutano a camminare, a mangiare e a compiere tutti quei piccoli gesti che forse vengono dati per scontati tutti i giorni dalle persone normali. "L'iniziativa- spiega la presidente de La Pecorella Solidale, l'insegnante Giorgia Meloni- è nata durante la scorsa primavera, periodo in cui l'associazione ha organizzato due merendine solidali con cui sono stati raccolti questi soldi. Avevamo deciso che li avremmo destinati a bambini in difficoltà economica per le spese dovute a particolari cure. Durante quest'anno scolastico, son venuta a conoscenza che nell'istituto dove insegno c'era questa bambina affetta dalla sindrome di Rett, abbiamo così deciso che sarebbe stata lei la beneficiaria". Oltre ai soldi, consegnati attraverso un assegno simbolico, la bambina ha ricevuto una tshirt de La Pecorella Solidale con le firme di tutti i bambini e la tessera di socio a vita. "Ci auguriamo- ha detto la docente- che questo piccolo gesto di solidarietà possa essere d'aiuto alla famiglia, ma soprattutto che riesca a sensibilizzare tutti nei confronti di persone affette da malattie rare, ma non solo".

da  http://www.sardiniapost.it/cronaca

Quando la scuola è davvero buona: i bambini della primaria Randaccio di via Venezia a Cagliari raccolgono 1200 euro con le “merendine solidali” per aiutare una loro compagnetta che ha bisogno di costose cure per una malattia neurologica, la sindrome di Brett. E ieri il generoso gesto è stato ricordato durante una cerimonia ufficiale organizzata dall’associazione no profit La Pecorella Solidale e dai suoi piccoli soci. La bambina, dieci anni, frequenta la scuola a tempo pieno. Ma – racconta l’associazione- le necessità sono tante: non solo c’è bisogno di un’insegnante di sostegno e di un’educatrice durante le ore di lezione, ma anche a casa le giornate vengono scandite dalle sessioni di terapia riabilitativa e dal sostegno continuo delle persone che la aiutano a camminare, a mangiare e a compiere tutti quei piccoli gesti che forse vengono dati per scontati tutti i giorni dalle persone normali.
“L’iniziativa- spiega la presidente de La Pecorella Solidale, l’insegnante Giorgia Meloni– è nata durante la scorsa primavera, periodo in cui l’associazione ha organizzato due merendine solidali con cui sono stati raccolti questi soldi. Avevamo deciso che li avremmo destinati a bambini in difficoltà economica per le spese dovute a particolari cure. Durante quest’anno scolastico, son venuta a conoscenza che nell’istituto dove insegno c’era questa bambina affetta dalla sindrome di Rett, abbiamo così deciso che sarebbe stata lei la beneficiaria”.
Oltre ai soldi, consegnati attraverso un assegno simbolico, la bambina ha ricevuto una t-shirt de La Pecorella Solidale con le firme di tutti i bambini e la tessera di socio a vita. “Ci auguriamo- ha detto la docente- che questo piccolo gesto di solidarietà possa essere d’aiuto alla famiglia, ma soprattutto che riesca a sensibilizzare tutti nei confronti di persone affette da malattie rare, ma non solo”.


ANSA 08-04-2017 11:58

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