11.3.22

foibe


io preferisco parlare di questione adriatica non solo di foibe ed esodo anche s'esse furono ed sono la parte culminate di tali eventi . Per i cultori del 10 febbraio Essa E’ una ferita dalla quale sgorgano ancora ricordi dolorosi. Ogni 10 febbraio è un tuffo in un passato che per troppi anni si è tentato di oscurare all’ombra della grande storia che scorreva.Infatti Roberto Menia, ex parlamentare di An (prima) e del Pdl poi, anche in virtù della sua esperienza familiare, si è sempre sentito cucito addosso il dovere di squarciare il velo dell’indifferenza sui crimini nelle foibe. Perché Tito “operò una vera e propria sostituzione: crimini sui quali per troppo tempo si è addensato un fitto muro di silenzio o, peggio, di negazionismo”. Nel 2020 ha pubblicato ‘10 febbraio. Dalle Foibe all’esodo‘ (I libri del Borghese). Ma, soprattutto, è stato il promotore della legge che ha istituto il Giorno del Ricordo. Una data che ancora, nonostante tutto, crea divisioni e polemiche. Infatti il motivo di questa spaccatura fra chi nega quanto accadde sotto il regime di Tito e chi invece ne pretende il ricordo a senso unico è nel fatto : 1) nel vedere il dranmma solo nelle vicende che avvennerro dal 1945 cioè quando i comunisti entrarono a triste fino comprendendo l'esodo massiccio fino al 10 novembre 1975quando il trasttato di Osimo sancì lo stato di fatto di separazione territoriale venutosi a creare nel Territorio Libero di Trieste a seguito del Memorandum di Londra (1954), rendendo definitive le frontiere fra l'Italia e l'allora Jugoslavia , e non anche negli eventi precedenti ., 2) nell'attribuire il silenzio nell'opinione pubblica solo ad una parte A chi è imputabile questa colpa? La strage delle foibe avvenne a guerra finita. E l’esodo addirittura si verificò nei quindici anni successivi. Il contesto era quello di un’Europa divisa ancora nei due blocchi. Quello sovietico, vicino a Tito, e quello atlantico. Dunque gli attori internazionali hanno in parte beatificato il boia degli italiani in quel frangente. L’altra componente che in un certo senso è complementare è quella della coscienza. La coscienza sporca di un partito comunista – quello italiano – che, cresciuto nel mito della Resistenza, fece sempre fatica ad ammettere i crimini di Tito. da https://formiche.net/2022/02/le-foibe-e-il-ricordo-menia/ Tali eventi , come quelli del novevento sono una linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico della storia

Infatti Pesarono interessi geopolitici, la Jugoslavia dopo lo strappo di tito da Stalin col suo profilo di “non allineata” divenne una zona cuscinetto tra questa parte d’Europa e il blocco sovietico, né mancavano scambi commerciali, il tutto nella logica di una buona stabilità da perpetuare anche in vista del “dopo Tito”porto a lasciare che la polvere coprisse le pagine più dolorose e cruente rispondeva a parecchi interessi. Quel mutismo complice accomunava sia La Dc ( molti di responsabili dei crimini italiani nei balcani si riciclarono nelle sue file e se avrebbe chiesto a tito conto croiminali comiunisti tito avrebbe poturo rivendicare quelli degli italiai ) del pci che sulle scelte compiute nell’alto Adriatico non poteva dirsi mera spettatrice ed avrebbero sconfessato stalin che aveva rotto con tito La linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico del passato


L’incomparabile paragone tra la Shoah e le Foibe

La linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico del passato

LaPresse lapresse
  • La cosa strana è che si debba discutere seriamente, a livello professionale, di un paragone fra realtà incommensurabili, come la Shoah e le Foibe. In alcuni ambienti più radicali si è diffusa la formula della “nostra Shoah”, che ha trovato largo ascolto da parte delle forze politiche di destra, non solo estrema.
  • Se ne trova traccia anche nella scelta del 10 febbraio quale data per il giorno del ricordo: un’opzione questa che ha ufficializzato un orientamento diffuso nel mondo della diaspora giuliano-dalmata, ma che ha spalancato la strada a due ordini di equivoci.
  • Possiamo ben dire che le esigenze dell’uso pubblico e dell’abuso politico abbiano avuto un effetto deflagrante.

La cosa strana è che si debba discutere seriamente, a livello professionale, di un paragone fra realtà incommensurabili, come la Shoah e le foibe. Questo non vuol dire negare di per sé l’utilità della storia comparata, che anzi può agevolare molto la comprensione dei singoli fenomeni, inserendoli all’interno di un contesto più ampio.

Così, ad esempio, porre a confronto i sistemi concentrazionari novecenteschi ci aiuta a comprenderne sia i tratti ricorrenti che le evidenti specificità.

Un’altra delle altre grandi strutture della contemporaneità europea, quella rappresentata dai massicci spostamenti forzati di popolazione, lascia emergere bene proprio attraverso i paragoni incrociati, un’articolazione complessa fra deportazioni, espulsioni ed esodi.

Stringendo il campo sull’area adriatica, l’impresa fiumana s’intende meglio collegandola a quelle di altri e meno conosciuti D’Annunzi del Baltico; allo stesso modo, torna utile considerare le politiche avviate dal regime fascista per snazionalizzare le minoranze slovena e croata nell’ambito di un più generale dibattito europeo fra scelte assimilazioniste e discriminatorie a danno delle minoranze rimaste dalle “parti sbagliate” delle frontiere emerse dalla Prima guerra mondiale.

Anche le Foibe possono venir comparate ad altri fenomeni simili, perché di stragi, purtroppo, fra la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra ce ne sono state moltissime.

Le stragi

Fin dai giorni successivi alle uccisioni dell’autunno 1943 ad esempio, i massacri che in Istria fecero circa 500 vittime vennero dalla propaganda fascista paragonati alle fosse di Katyn: a ciò la propaganda jugoslava replicò che le Foibe erano false come le stragi sovietiche vicino Smolensk commettendo, in prospettiva storica, un clamoroso autogol.

Inoltre, le stragi del 1943 e soprattutto quelle del 1945, quando le vittime furono alcune migliaia, possono venir legittimamente comparate con altre violenze di transizione, come ad esempio quelle del “triangolo della morte” emiliano.

In questo caso è proprio il confronto puntuale a far emergere la specificità della vicenda giuliana rispetto ad altre, apparentemente simili, dell’Europa occidentale. In Emilia infatti l’esplosione di violenza fu la coda di una lunga guerra civile avente il suo secondo atto nella Resistenza, ma al di fuori di un progetto organico di presa del potere comunista, che magari molti ex partigiani sognavano, ma i vertici del Pci no, tanto che cercarono di contenere le spinte rivoluzionarie.

Ancor più interessante è il raffronto con le coeve stragi avvenute nei contermini territori della Slovenia e della Croazia, dove i morti sfiorarono le 100mila unità. È facile vedere come in realtà non si tratti di due fenomeni distinti, ma della medesima ondata di violenza, avvenuta con le stesse modalità e sulla base dei medesimi ordini, decisa dai medesimi organi dei partiti comunisti sloveno e croato, gestita prevalentemente dalla polizia politica, l’Ozna, in un’area che dal punto di vista jugoslavo era unitaria, perché le province giuliane non solo erano occupate dall’armata popolare jugoslava, ma erano considerate annesse alla Jugoslavia fin dall’autunno del 1945.

Ovviamente, a differenza della gran tomba a cielo aperto della foresta di Kočevje, non lontano da Lubiana, da cui continuano a emergere cadaveri sloveni, a Fiume, Istria, Trieste e Pola le vittime furono quasi esclusivamente italiane, non solo perché italiani erano stati i fascisti, ma perché italiano era il potere che si voleva abbattere per via rivoluzionaria.

Tutto ciò non ha niente a che vedere con un genocidio. Lo possiamo dire con assoluta certezza non solo sulla base della percentuale delle vittime rispetto alla popolazione italiana della regione, ma perché conosciamo perfettamente gli ordini che guidarono la repressione e che con la prospettiva genocida non c’entravano nulla.

Verità soggettiva

LaPresse

Diverse invece furono le percezioni delle vittime, subitaneamente travolte da una catastrofe epocale che sembrava confermare nel sangue i più antichi timori di una “minaccia slava” volta a distruggere con ogni mezzo l’italianità adriatica.

Tale verità soggettiva si è poi consolidata, specie dopo l’altrettanto traumatica esperienza dell’esodo istriano, in una memoria inscalfibile, com’è abbastanza usuale che accada in circostanze del genere. Con un solo apparente paradosso poi: proprio l’oblio in cui è a lungo caduta quella memoria dolente al di là dei circuiti autoreferenziali degli esuli, ne ha rafforzato l’asprezza, assieme a un complesso di inferiorità rispetto ad altre memorie ufficialmente riconosciute.

È in questo contesto che in alcuni ambienti più radicali si è diffusa la formula della “nostra Shoah”, che ha trovato largo ascolto da parte delle forze politiche di destra, non solo estrema.

Se ne trova traccia anche nella scelta del 10 febbraio quale data per il giorno del ricordo: un’opzione questa che ha ufficializzato un orientamento diffuso nel mondo della diaspora giuliano-dalmata, ma che ha spalancato la strada a due ordini di equivoci.

Il primo, consistente nel concentrare l’attenzione non sul momento dell’entrata in vigore del Trattato di pace che sottrasse all’Italia Zara, Fiume e l’Istria, ma a quello della sua firma, quasi che la responsabilità ne pesasse sull’Italia democratica – che era stata costretta ad accettarlo – e non su quella fascista che aveva determinato il collasso dell’italianità adriatica.

Il secondo, riferito alla contiguità con il giorno della memoria, fonte di ripetute e non sempre ingenue confusioni, nonché di un evidente intento bilanciatorio. La tendenza si è confermata negli anni successivi, con inabissamenti e repentini affioramenti anche in relazione ai mutamenti del clima politico, fino alla recente proposta parlamentare di equiparare i «massacri delle foibe» alla Shoah nell’articolo 604 bis del codice penale.

Pulsioni illiberali

Possiamo dunque ben dire, che di fronte a un nodo autenticamente cruciale del nostro modo di accostarci al passato, com’è quello del rapporto mai facile fra le memorie offese e la storia in quanto disciplina critica, che richiede grande sensibilità e rispetto, le esigenze dell’uso pubblico e dell’abuso politico abbiano viceversa avuto un effetto deflagrante.

Il paragone Foibe/Shoah, privo in realtà di qualsiasi sensatezza, è divenuto una bandiera da piantare per testare il grado di patriottismo/anticomunismo di questa o quella formazione politica.

Certo, non hanno giovato alla serenità del giudizio le polemiche con le quali intellettuali e gruppi di estrema sinistra hanno voluto contestare l’esistenza dei massacri, la loro natura criminale e la loro funzionalità a una precisa progettualità politica. Ma tali derive negazioniste, in realtà marginali, sono state e vengono tuttora utilizzate quali pretesto per massicce campagne politiche volte a riproporre come unica verità accettabile, anche dalle istituzioni, le parole d’ordine del nazionalismo italiano, negando viceversa pregiudizialmente ogni legittimità a punti di vista che non si conformino a tale vulgata, anche se fondati su basi documentarie larghe e studi rigorosi.

È la conferma di come inquietanti pulsioni illiberali siano ancora diffuse all’interno di alcune culture politiche del nostro paese.

© Riproduzione riservata

La linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico del passato

L’incomparabile paragone tra la Shoah e le Foibe

La linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico del passato

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  • La cosa strana è che si debba discutere seriamente, a livello professionale, di un paragone fra realtà incommensurabili, come la Shoah e le Foibe. In alcuni ambienti più radicali si è diffusa la formula della “nostra Shoah”, che ha trovato largo ascolto da parte delle forze politiche di destra, non solo estrema.
  • Se ne trova traccia anche nella scelta del 10 febbraio quale data per il giorno del ricordo: un’opzione questa che ha ufficializzato un orientamento diffuso nel mondo della diaspora giuliano-dalmata, ma che ha spalancato la strada a due ordini di equivoci.
  • Possiamo ben dire che le esigenze dell’uso pubblico e dell’abuso politico abbiano avuto un effetto deflagrante.

La cosa strana è che si debba discutere seriamente, a livello professionale, di un paragone fra realtà incommensurabili, come la Shoah e le foibe. Questo non vuol dire negare di per sé l’utilità della storia comparata, che anzi può agevolare molto la comprensione dei singoli fenomeni, inserendoli all’interno di un contesto più ampio.

Così, ad esempio, porre a confronto i sistemi concentrazionari novecenteschi ci aiuta a comprenderne sia i tratti ricorrenti che le evidenti specificità.

Un’altra delle altre grandi strutture della contemporaneità europea, quella rappresentata dai massicci spostamenti forzati di popolazione, lascia emergere bene proprio attraverso i paragoni incrociati, un’articolazione complessa fra deportazioni, espulsioni ed esodi.

Stringendo il campo sull’area adriatica, l’impresa fiumana s’intende meglio collegandola a quelle di altri e meno conosciuti D’Annunzi del Baltico; allo stesso modo, torna utile considerare le politiche avviate dal regime fascista per snazionalizzare le minoranze slovena e croata nell’ambito di un più generale dibattito europeo fra scelte assimilazioniste e discriminatorie a danno delle minoranze rimaste dalle “parti sbagliate” delle frontiere emerse dalla Prima guerra mondiale.

Anche le Foibe possono venir comparate ad altri fenomeni simili, perché di stragi, purtroppo, fra la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra ce ne sono state moltissime.

Le stragi

Fin dai giorni successivi alle uccisioni dell’autunno 1943 ad esempio, i massacri che in Istria fecero circa 500 vittime vennero dalla propaganda fascista paragonati alle fosse di Katyn: a ciò la propaganda jugoslava replicò che le Foibe erano false come le stragi sovietiche vicino Smolensk commettendo, in prospettiva storica, un clamoroso autogol.

Inoltre, le stragi del 1943 e soprattutto quelle del 1945, quando le vittime furono alcune migliaia, possono venir legittimamente comparate con altre violenze di transizione, come ad esempio quelle del “triangolo della morte” emiliano.

In questo caso è proprio il confronto puntuale a far emergere la specificità della vicenda giuliana rispetto ad altre, apparentemente simili, dell’Europa occidentale. In Emilia infatti l’esplosione di violenza fu la coda di una lunga guerra civile avente il suo secondo atto nella Resistenza, ma al di fuori di un progetto organico di presa del potere comunista, che magari molti ex partigiani sognavano, ma i vertici del Pci no, tanto che cercarono di contenere le spinte rivoluzionarie.

Ancor più interessante è il raffronto con le coeve stragi avvenute nei contermini territori della Slovenia e della Croazia, dove i morti sfiorarono le 100mila unità. È facile vedere come in realtà non si tratti di due fenomeni distinti, ma della medesima ondata di violenza, avvenuta con le stesse modalità e sulla base dei medesimi ordini, decisa dai medesimi organi dei partiti comunisti sloveno e croato, gestita prevalentemente dalla polizia politica, l’Ozna, in un’area che dal punto di vista jugoslavo era unitaria, perché le province giuliane non solo erano occupate dall’armata popolare jugoslava, ma erano considerate annesse alla Jugoslavia fin dall’autunno del 1945.

Ovviamente, a differenza della gran tomba a cielo aperto della foresta di Kočevje, non lontano da Lubiana, da cui continuano a emergere cadaveri sloveni, a Fiume, Istria, Trieste e Pola le vittime furono quasi esclusivamente italiane, non solo perché italiani erano stati i fascisti, ma perché italiano era il potere che si voleva abbattere per via rivoluzionaria.

Tutto ciò non ha niente a che vedere con un genocidio. Lo possiamo dire con assoluta certezza non solo sulla base della percentuale delle vittime rispetto alla popolazione italiana della regione, ma perché conosciamo perfettamente gli ordini che guidarono la repressione e che con la prospettiva genocida non c’entravano nulla.

Verità soggettiva

LaPresse

Diverse invece furono le percezioni delle vittime, subitaneamente travolte da una catastrofe epocale che sembrava confermare nel sangue i più antichi timori di una “minaccia slava” volta a distruggere con ogni mezzo l’italianità adriatica.

Tale verità soggettiva si è poi consolidata, specie dopo l’altrettanto traumatica esperienza dell’esodo istriano, in una memoria inscalfibile, com’è abbastanza usuale che accada in circostanze del genere. Con un solo apparente paradosso poi: proprio l’oblio in cui è a lungo caduta quella memoria dolente al di là dei circuiti autoreferenziali degli esuli, ne ha rafforzato l’asprezza, assieme a un complesso di inferiorità rispetto ad altre memorie ufficialmente riconosciute.

È in questo contesto che in alcuni ambienti più radicali si è diffusa la formula della “nostra Shoah”, che ha trovato largo ascolto da parte delle forze politiche di destra, non solo estrema.

Se ne trova traccia anche nella scelta del 10 febbraio quale data per il giorno del ricordo: un’opzione questa che ha ufficializzato un orientamento diffuso nel mondo della diaspora giuliano-dalmata, ma che ha spalancato la strada a due ordini di equivoci.

Il primo, consistente nel concentrare l’attenzione non sul momento dell’entrata in vigore del Trattato di pace che sottrasse all’Italia Zara, Fiume e l’Istria, ma a quello della sua firma, quasi che la responsabilità ne pesasse sull’Italia democratica – che era stata costretta ad accettarlo – e non su quella fascista che aveva determinato il collasso dell’italianità adriatica.

Il secondo, riferito alla contiguità con il giorno della memoria, fonte di ripetute e non sempre ingenue confusioni, nonché di un evidente intento bilanciatorio. La tendenza si è confermata negli anni successivi, con inabissamenti e repentini affioramenti anche in relazione ai mutamenti del clima politico, fino alla recente proposta parlamentare di equiparare i «massacri delle foibe» alla Shoah nell’articolo 604 bis del codice penale.

Pulsioni illiberali

Possiamo dunque ben dire, che di fronte a un nodo autenticamente cruciale del nostro modo di accostarci al passato, com’è quello del rapporto mai facile fra le memorie offese e la storia in quanto disciplina critica, che richiede grande sensibilità e rispetto, le esigenze dell’uso pubblico e dell’abuso politico abbiano viceversa avuto un effetto deflagrante.

Il paragone Foibe/Shoah, privo in realtà di qualsiasi sensatezza, è divenuto una bandiera da piantare per testare il grado di patriottismo/anticomunismo di questa o quella formazione politica.

Certo, non hanno giovato alla serenità del giudizio le polemiche con le quali intellettuali e gruppi di estrema sinistra hanno voluto contestare l’esistenza dei massacri, la loro natura criminale e la loro funzionalità a una precisa progettualità politica. Ma tali derive negazioniste, in realtà marginali, sono state e vengono tuttora utilizzate quali pretesto per massicce campagne politiche volte a riproporre come unica verità accettabile, anche dalle istituzioni, le parole d’ordine del nazionalismo italiano, negando viceversa pregiudizialmente ogni legittimità a punti di vista che non si conformino a tale vulgata, anche se fondati su basi documentarie larghe e studi rigorosi.

È la conferma di come inquietanti pulsioni illiberali siano ancora diffuse all’interno di alcune culture politiche del nostro paese.

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Dibattito sulla memoria. Da molti anni raccontiamo la nostra storia a rovescio

Foibe, fascismo e resistenza

Da molti anni raccontiamo la nostra storia a rovescio

(AP Photo)
  • Da quasi quattro decenni è in corso un tentativo di normalizzare il passato dittatoriale e razzista del nostro paese dipingendo i carnefici fascisti come figure non peggiori delle vittime.
  • La vicenda delle foibe è uno degli strumenti più importanti di questo percorso e oggi, con la richiesta esplicita di equipararla all’Olocausto, siamo arrivati al culmine del processo di riscrittura della nostra storia.
  • Chiunque abbia a cuore la democrazia, la cultura e la libera espressione dovrebbe fare propria la battaglia culturale contro questo tentativo di alterazione profonda della nostra memoria.

Non passa praticamente settimana in cui non scattino polemiche su esternazioni di politici o giornalisti che attaccano antifascismo e Resistenza derubricandoli nella migliore delle ipotesi a fastidiosi residui del passato oppure che, sovente in parallelo, proseguono imperterriti la tradizione del racconto di un fascismo immaginario, sorvolando sulla sua ferocia e sulla sua natura di crimine al potere.

È un rumore di fondo che ha accompagnato integralmente la vita dei quarantenni di oggi: la critica mossa negli anni Ottanta alla cosiddetta “vulgata resistenziale” – come ha scritto lo storico Filippo Focardi – si è trasformata all’inizio del decennio seguente «in una pressione crescente sulle istituzioni» perché «promuovessero una nuova memoria pubblica svincolata dalla contrapposizione fascismo/antifascismo».

Si tratta di una linea di tendenza generale che ha visto un'erosione della narrazione antifascista; la peculiarità italiana pare essere il ruolo di primissimo piano svolto dall'opposta vulgata, quella neofascista. Opera di una destra incarnata nella svolta Msi-An che a metà degli anni Novanta iniziò a capitalizzarne i frutti che sarebbero stati infine colti dalla Lega nazionalista e dal partito loro erede per filiazione: Fratelli d'Italia.

Il ruolo delle foibe

Un quarto di secolo fa Gian Enrico Rusconi ci ammoniva: l'offensiva storico-politica di An proponeva con forza inedita «innanzitutto il riconoscimento della dignità e dell'onore personale dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana». Ma nel discorso pubblico si chiedeva qualcosa di politicamente più rilevante, insisteva Rusconi, e cioè che si ammettesse che le motivazioni dei fascisti «avevano ragioni storicamente valide che oggi si possono finalmente dire ad alta voce: erano le ragioni dell'anticomunismo»; tesi non originale che puntava a «spostare l'asse politico più a destra». Pare ci siano riusciti.

Questa offensiva, inoltre, dal 2004 ha un'ulteriore freccia nel suo arco: l'uso politico del Giorno del Ricordo, la ricorrenza in cui si celebrano le persone uccise nei massacri del confine orientale, con il quale si è santificata la figura della “vittima delle foibe”, anche se fascista. È un'operazione che rischia di far diventare il 10 febbraio, come è stato sottolineato dallo storico Eric Gobetti – autore di E allora le foibe? – e da tanti altri studiosi, la “Giornata della memoria fascista”.

Perché tra le migliaia di italiani uccisi nel corso della “complessa vicenda del confine orientale” (come recita la legge istitutiva) c'erano anche colpevoli: tra gli esempi più eclatanti c'è quello del tenente colonnello Vincenzo Serrentino, che nel 2007 ha ottenuto la medaglia d’oro al merito civile in quanto “infoibato”: fascista senza scrupoli, criminale di guerra e membro del Tribunale straordinario della Dalmazia, aveva condannato a morte anche minorenni.

Eppure, come abbiamo più volte denunciato pubblicamente, anche con una lettera aperta – firmata da 137 studiosi italiani, sloveni e croati – alle alte cariche istituzionali in occasione dell'80esimo anniversario dell'invasione nazifascista della Jugoslavia (che ha fatto un milione di morti), un paese sano deve innanzitutto assumersi le responsabilità storiche dei crimini commessi, per poi eventualmente approfondire le violenze – oltretutto successive, e in parte consequenziali – subìte.

I crimini dimenticati

Il racconto pubblico che la destra ha consolidato come senso comune si basa invece sulla deliberata rimozione del fatto che il fascismo abbia seminato morte e distruzione nel mondo per due decenni. Dalla conquista della Libia e dell’Africa Orientale, passando per i bombardamenti sulla Spagna repubblicana, per giungere alla guerra contro i civili in Grecia, Russia e appunto in Jugoslavia, l’esercito italiano in epoca fascista si è macchiato di indicibili atrocità, sterminando le popolazioni locali, guidato da una feroce sete imperiale ancora in larga misura taciuta nel racconto mainstream del '900 italiano, o – ed è pure peggio – narrata come spinta verso una legittima grandeur sullo scacchiere internazionale.

I soli massacri di Addis Abeba e Debre Libanos in Etiopia, tra febbraio e maggio del 1937, produssero oltre 20mila morti – quattro volte quelli “delle foibe” – in una sanguinaria caccia all'uomo che coinvolse gran parte della società coloniale.

Il dibattito pubblico italiano, ormai, orbita costantemente intorno alla richiesta di riconoscimento delle “proprie” vittime o alla pretesa di una “memoria condivisa” che schiacci in un unico contenitore patriottico e nazionalista le ragioni e i torti della storia, le vittime innocenti, i carnefici e chi si era opposto all'incubo del nuovo ordine nero.

La memoria pubblica del fascismo non ha mai goduto di una salute migliore, anche e innanzitutto all'interno di ampie fasce del senso comune moderato. L'anno successivo all'Istituzione del Giorno del Ricordo, Sergio Luzzatto già dava voce al sospetto che fosse quella resistenziale a «somigli[are] fin troppo a una storia dei vinti», e un anno dopo Giovanni De Luna firmava un articolo dall'eloquente titolo "Resistenza: hanno vinto i revisionisti”. Complice la stagione di governi di destra che avevano permesso al revisionismo di dilagare, si iniziò a parlare, con Angelo D'Orsi, di “rovescismo”.

Se è vero che la narrativa antifascista nei decenni si è svuotata troppo spesso dei suoi contenuti ammantandosi di vuota retorica, ormai nello spazio pubblico paiono più presenti le violenze sporadiche sui fascisti che quella sistemica del regime e di Salò. Nella logica del «non esistono morti di serie B» i gerarchi della Repubblica sociale italiana dovrebbero essere degni dello stesso rispetto degli antifascisti che lottavano per un'Italia libera e democratica, e persino delle loro vittime.

L’ultimo assalto

Ora il partito che – senza una chiara elaborazione del suo passato e della sua incompatibilità con la democrazia repubblicana, come ha scritto Piero Ignazi su queste pagine –, raccoglie l'eredità di quella esperienza, Fratelli d'Italia, propone che l'articolo del codice penale che punisce chi nega, minimizza gravemente o fa apologia della Shoah renda perseguibile anche chi fa lo stesso con i “massacri delle foibe”. Lo scopo di fare di quella vicenda (decontestualizzata, ingigantita e mitizzata) il contraltare nazionalista della Shoah è sempre stato piuttosto esplicito, anche nell'ottica di insabbiare ulteriormente i crimini dell'Asse, ribaltando la mappa dei valori dell'Europa postbellica. È l'obiettivo di chi, nella “partita” della memoria pubblica, vuole che un fanatico gerarca fascista debba essere ricordato (e celebrato), esclusivamente in quanto “vittima italiana”, allo stesso modo di un neonato gassato ad Auschwitz.

Come storici e cittadini non possiamo che augurarci che questo infondato accostamento raggelante venga respinto dai nostri rappresentanti, ma nel frattempo auspichiamo un'inversione di rotta nell'opinione pubblica: le finte indignazioni contro il “politically correct” su quotidiani che incitano all'odio identitario da anni sono intollerabili ferite alla democrazia; ed è altrettanto preoccupante la gara a chi arriva prima a “prendere le distanze” da chiunque avanzi critiche verso un/una neofascista più o meno malamente camuffato/a.

Dobbiamo uscire dal vortice del nuovo squadrismo (ora mediatico) di chi si sente erede di quella storia e alfiere di quella memoria, e non esita a scatenare tempeste di fango su chiunque intralci la sua strada, per poi invocare la libertà d'espressione. Perché ogni volta ci caschiamo. Chiunque abbia a cuore la democrazia, la cultura e la libera espressione dovrebbe fare propria questa battaglia culturale. Prima che articoli come questo siano perseguibili per legge.

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9.3.22

Campionessa col mio cane, l'intesa è uno sport


La 17enne triestina Sara Gregorio e la sua Cocker Angy sono le campionesse italiane della categoria Under 18 – 400 mm di agility dog, una competizione nella quale l'animale, accompagnato e guidato dal proprio conduttore, deve portare a termine un percorso a ostacoli nel minor tempo possibile e senza errori.

Il titolo l’hanno conquistato lo scorso dicembre a Cattolica, aggiudicandosi di conseguenza un posto nella squadra nazionale che parteciperà il prossimo maggio in Olanda al Mondiale World Agility Open 2022. La coppia si allena due volte alla settimana a Savogna d’Isonzo (Gorizia), sotto la supervisione di Virna Rosato dell’Asd “Tenuta Mivea Sporting Club”. In previsione del “pensionamento” di Angy, Sara sta iniziando ad allenare anche Nike, un giovane e scattante esemplare di Bordier Collie

di Simone Modugno

8.3.22

8 marzo festa della donna o giornata internazionale della donna ?

 come    dice  questo  interessante articolo preso da https://inews.io/32377/

  

Foto di Ginevra Abeti


da 

      Giovanna Toma

L’8 marzo non è la “festa della donna”. Si chiama così solo in Italia. La Giornata internazionale della donna – questo il suo vero nome – è nata in ambito socialista ed è dedicata in origine alle battaglie di cui le donne furono protagoniste all’inizio del Novecento. Nel corso degli anni la festa della donna italiana è diventata una stucchevole liturgia a cadenza annuale in cui le donne vengono omaggiate con fiori e cioccolatini. Anche se spesso la chiamiamo Festa della Donna in realtà la ricorrenza non nasce come
una festa ma un’occasione di riflessione sulle questioni sociali che riguardano la parte femminile della popolazione. Come mai si celebra proprio l’otto marzo? La Giornata della Donna non è sempre stata la stessa negli anni. Nel 1908 tra le donne socialiste si iniziò a parlare dell’istituzione di un “Women’s Day“, per dare risonanza alle proprie
istanze. L’anno dopo gli Stati Uniti furono la prima nazione a celebrare una giornata dedicata alle donne per chiedere il diritto di voto. Ma in quell’occasione si scelse il 28 febbraio, non l’8 marzo. In Italia la giornata fu celebrata per la vita volta nel 1922, ma il 12 marzo. Dopo la seconda guerra mondiale fu l’Unione Donne libere italiane a organizzare la prima giornata della donna nell’Italia liberata, l’8 marzo 1945.


Il consiglio di iNews ed mio   dunque è quello di non limitarsi a regalare:  mimose o cioccolatini,  trucchi  ed  altre   amenità  varie   bensì di passare una giornata cercando di capire il significato più profondo di questo giorno

quindi  ma    quale  festa  


per  chi    non crede    faccia qualche  altra  iniziativa  laica  . ma  soprattutto evitiamo come      ogni anno    frasi  del genere  . 



Ha sollevato un vero e proprio polverone il tweet pubblicato dal giornalista e conduttore di Che tempo che fa Fabio Fazio che, in occasione della Giornata internazionale della donna, ha scritto: «Oggi è l’8 marzo, festa della donna. La donna è colei che dà la vita. La guerra è l’esatto contrario. Non si può non pensare a tutte le madri e le mogli straziate per il dolore di questa e di tutte le altre guerre».

Un post che ha provocato diverse reazioni. A partire da quella della scrittrice Giulia Blasi secondo cui «non è una festa, non siamo funzioni della vita degli uomini, e molte donne ucraine in questo momento sono al fronte come combattenti attive».

Per la giornalista Rula Jebreal, invece, «il miglior modo di celebrare le donne è l’inclusione. Serve che ogni giorno, non solo oggi siano coinvolte più giornaliste, inviate di guerre, analiste e attiviste… La parità va implementata, non elogiata»

«Ragazze, mi raccomando, o date la vita o niente – ha dichiarato invece l’artista Ella Marciello – O siete appendici e funzionali di qualche maschio o non siete donne. Madri e mogli. Questa retorica è pericolosissima per la sicurezza delle donne, riusciamo a mettercelo in testa?». «L’ 8 marzo non è una “festa” – ha concluso Beatrice Covassi, capo della rappresentanza in Italia della Commissione Europea – Considerare le donne solo come madri e mogli non fa giustizia a tutte noi né alle combattenti ucraine e a tutte le donne che nel mondo lottano per i diritti».




5.3.22

Milano, si laurea in ospedale per stare accanto alla sorella: “È la parte migliore della mia vita”

 sara  cronologicamente  di due anni fa  , ma   tale  storia  è bellissima    tantoi   d'andare  alò di  lùà  del tempo e  dello spazio  . 


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Adriana è una studentessa di Cerignola, iscritta all'università di Foggia. Qualche settimana fa si è laureata in giurisprudenza, discutendo la tesi da una stanza dell'ospedale Besta di Milano, al fianco della sorella Sara, di 15 anni, ricoverata per dei controlli. A Fanpage.it, Adriana rivive e racconta l'emozione di quel giorno indimenticabile: la sua paura era infatti di laurearsi lontano dalla sorella, che per una malattia rara è costretta a letto e impossibilitata a muoversi. Il ricovero al Besta è durato più del previsto, andando a coincidere con il giorno della discussione. Sara è stata così l'unica persona a poter assistere alla  discussione della sorella maggiore Adriana  affetta da una rara malattia. I controlli medici sono durati più a lungo del previsto e la giovane studentessa ha così vissuto uno dei momenti più importanti della sua vita in compagnia dell’unica persona che temeva non avrebbe potuto partecipare all’importante giorno: “Lei è la parte migliore della mia vita – ha spiegato Adriana a Fanpage.it – ed è lei che mi ha insegnato tutto”.


È difficile non commuoversi quando si ascolta la storia di Adriana Ciafardoni, studentessa di Cerignola, iscritta all'università di Foggia, che qualche settimana fa si è laureata in giurisprudenza, discutendo la tesi da una stanza dell'ospedale Besta di Milano. Una scelta che la 23enne ha fatto per restare al fianco della sorella Sara, di 15 anni che soffre di una rara malattia che la costringe a letto ed era ricoverata nel nosocomio milanese per dei controlli. I giorni in ospedale e la laurea giunta all'improvviso Il loro rapporto è unico, di quelli che legano due sorelle in un modo difficile a spiegarsi ma che traspare dalle parole e dagli occhi pieni di vita di Adriana che a Fanpage.it ha voluto raccontare l'emozione di quel giorno indimenticabile, quello della laurea che ha voluto condividere con l'unica persona che invece pensava non vi avrebbe preso parte: la sua paura era infatti di laurearsi lontano dalla sorella che per una malattia rara è costretta a letto e impossibilitata a muoversi. E invece così non è stato perché il ricovero al Besta per la piccola Sara è durato più del previsto ed è coinciso con il giorno della discussione della tesi di Adriana: "Non avevo la tesi con me perché non me l'aspettavo, per cui ho lasciato la copia della tesi a casa a Cerignola: avevo il pc che avevo portato per altri motivi ma che alla fine si è rivelato utile – racconta la studentessa -. In stanza con me c'era solo mia sorella e mi è stato accanto nel vero senso della parola: è stata la prima persona che ho guardato quando c'è stata la proclamazione e non potevo essere più felice". Sara: Mia sorella è stata bravissima, soprattutto perché mi è rimasta accanto Sara ha abbracciato la sorella con "i suoi occhioni lucidi" come ricorda Adriana e ovviamente non può che essere orgogliosa del traguardo da lei raggiunto: "È stata bravissima mia sorella, ma non solo nel discutere la sua laurea ma soprattutto per quello che ha fatto rimanendo accanto a me nelle ultime due settimane", le parole della 15enne intervistata da Fanpage.it. Anche da lontano è facile percepire l'amore che unisce queste due sorelle e che la vita ha portato a condividere proprio questi momenti così importanti: "Mi ha detto che era orgogliosa di me e che era contenta di quello che avevo fatto – continua la 23enne nel ricordare il giorno della laurea subito dopo la proclamazione – le cose accadono sempre per una ragione: dovevano esserci tutti tranne lei e invece c'era lei e basta ed è stata la cosa più importante".  Ho passato la vita a insegnarle il mondo ma è stata lei a insegnarmi tutto Adriana con un grande sorriso spiega come in realtà il loro rapporto sia cambiato e come indirettamente sia stata anche Sara a prendersi cura di lei insegnandole tante cose: "Io ho passato una vita cercando di insegnarle il mondo perché lei sono anni che è allettata, poi crescendo ho capito invece è stata lei a dare degli insegnamenti a me: a essere forte, a mettercela tutta sempre, contro qualsiasi avversità – conclude la giovane studentessa – lei è il mio esempio, non poteva che andare tutto al meglio con lei lì. Per tanto tempo è stata la mia piccolina, oggi è un compagno di viaggio, un confidente, una persona da cui ricevere e dare consigli, siamo simbiotiche. Lei è la parte migliore della mia vita". 

4.3.22

LA MIA COLPA? CHE MI HANNO VIOLENTATA Paola, messicana, economista, dormiva quando, in Qatar, un collega è entrato e l’ha stuprata. «Ho documentato tutto con le foto», racconta. E sporto denuncia. Però rischia 7 anni di carcere e 100 frustate.

  dal settimanale  oggi  


Quando venne data la notizia che sarebbe stato il Qatar a ospitare i primi Campionati del mondo di calcio in Medio Oriente, la Fifa e il Qatar presentarono un documento di 112 pagine in cui garantivano che i diritti umani sarebbero stati tutelati.




 Il Qatar, si legge, promuoverà «condizioni di lavoro e di vita dignitose» e verrà ribadito il divieto di «qualsiasi forma di discriminazione nei confronti di Paesi, persone o gruppi di persone in base a origine etnica, colore della pelle, nazionalità, origine sociale, orientamento sessuale, disabilità, lingua, religione, opinioni o qualsiasi altro status». Fatma Samoura, segretario generale della Fifa, continua a ripetere che i campionati di calcio nel novembre di quest’anno offrono «un’opportunità unica per apportare cambiamenti positivi, un’opportunità a cui né Fifa né Qatar possono e devono rinunciare».
Deve essere andato storto qualcosa se una donna messicana che lavorava all’organizzazione dei Mondiali rischia una condanna a 100 frustate e 7 anni di carcere per «sesso extraconiugale». La sua colpa? Essere stata violentata mentre era in Qatar. 

Paola Schietekat ha 28 anni, viene dal Messico ed è un’economista comportamentale che lavorava a Doha per il Supreme Committee for Delivery and Legacy. La sera del 6 giugno 2021 Schietekat dormiva nel suo appartamento. La donna racconta che un collega, che lei conosceva, si è intrufolato nella sua camera da letto e sarebbe riuscito a trascinarla a terra e violentarla, lasciandole braccia, spalle e schiena coperte di lividi. «Ho mantenuto la calma», racconta Paola Schietekat in una testimonianza a sua firma sul periodico messicano Julio Astillero, «l’ho detto a mia mamma e a una collega di lavoro e ho documentato tutto con le foto, in modo che la mia memoria, nel tentativo di proteggersi, non minimizzasse gli eventi o ne cancellasse completamente una parte». Schietekat conosce bene quella fitta di dolore e di paura, aveva 16 anni quando il suo primo ragazzo la violentò minacciando di ucciderla.

Decide di denunciare. Ottiene un certificato medico e va alla polizia con il console messicano in Qatar. Sarebbe una delle molte storie di violenza, ma il giorno stesso Schietekat viene richiamata in commissariato, tre ore di interrogatorio in cui capisce di essere passata dalla parte
dell’accusata

Le chiedono un test di verginità, vogliono controllarle il telefono per scoprire se avesse una relazione con l’aggressore che dichiarava di essere il suo fidanzato. «Tutto ruotava attorno alla relazione extraconiugale, mentre, sotto la mia abaya, la casacca che mi consigliavano di indossare per sembrare una “donna di buoni costumi”, portavo i segni, viola, quasi neri. Il mio avvocato capiva a malapena. Ho dovuto consegnare il mio telefono, sbloccato, alle autorità, se non volevo andare in galera», racconta Schietekat.



La donna, con l’aiuto del Comitato organizzatore dei Mondiali, riesce a tornare in Messico. Il tribunale, intanto, ha assolto l’aggressore perché, nonostante il referto medico, i giudici scrivono che «non c’erano telecamere che puntassero alla porta dell’appartamento, quindi non c’era modo di verificare che l’aggressione fosse avvenuta». In Qatar, del resto, la testimonianza di un uomo vale di più di quella di una donna, come avveniva da noi prima che il deputato Salvatore Morelli, dell’area riformista, scheggiasse il tetto di cristallo. Era il 1887.

Per chiudere il caso che il Qatar ha aperto contro di lei, Schietekat ha solo una soluzione: sposare il suo aggressore (anche questo accadeva da noi fino a prima del 5 settembre 1981 quando la legge 442 abolì il delitto d’onore e il matrimonio riparatore). «Senza una posizione ferma della comunità internazionale», scrive Paola Schietekat, «le leggi draconiane, retrograde e persino assurde troveranno un piccolo buco per continuare a giustificarsi, all’ombra di grandi eventi sportivi o culturali». Quando alla cerimonia in mondovisione tutto sarà festa, scomparirà la storia di Paola e degli altri diritti negati. La colpevolizzazione della vittima passa dalle istituzioni. Le donne non vogliono essere coraggiose, vogliono essere al sicuro. Chissà se alla Fifa sono d’accordo.

Quando il make-up diventa uno strumento di empowerment femminile, la storia di Beatrice Gherardini

  credevo che il  trucco cioè il make  up femminile  (  ovviamente  non  sto  vietando  niente  ogno donna   è libera  di  fare  quello che ...