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A conferma di questa mia risposta c'è un bellissimi articolo della rivista internazionale che riporto sotto di
Per quanto mi è dato ricordare, esistono solo due grandi fenomeni sociali che non sono nati da qualche progresso tecnologico: la religione e il calcio. Non intendo proporre confronti, anche se c’è chi l’ha fatto. Manuel Vázquez Montalbán, per esempio, in Calcio. Una religione alla ricerca del suo dio (Frassinelli 1998). E non è stato l’unico. Mi limito a constatare che tutti e due i fenomeni soddisfano (o almeno hanno soddisfatto) dei bisogni umani a livelli diversi.
Nel caso del calcio, la cui forma attuale (ce ne sono state molte) fu definita a metà dell’ottocento nelle università britanniche e prese piede con straordinaria rapidità nei quartieri popolari di mezzo mondo (nell’altro mezzo ci è voluto un po’ più di tempo), milioni di persone trapiantate dalle campagne nelle città e soggette all’alienazione dell’industria e della vita moderna trovarono in un campo da gioco un senso di appartenenza e un certo tipo di fede.
Fin dall’inizio, il calcio è stato più di un gioco con il pallone. Era un gioco ma anche un vortice di circostanze. Furono le circostanze e il loro impatto sulle persone e sulle società ad attirare gli scrittori. Una delle storie fondanti della letteratura calcistica, Juan Polti, mediano, pubblicata dall’uruguaiano Horacio Quiroga, racconta la storia di Abdón Porte, mitico mediano del Nacional di Montevideo che il 5 marzo 1918 si tolse la vita sul campo dello stadio Gran parque central della capitale uruguaiana. Porte aveva perso il suo tocco e non era più utile né alla squadra né ai tifosi. Preferì morire. Con quel suicidio nacque l’idea del calciatore come eroe (tragico, nel caso di Porte) del nostro tempo:
Nacional, anche se in polvere trasformato
e in polvere sempre amante
Non dimenticherò neanche un istante
quanto ti ho amato.
I versi con cui Abdón Porte si congedò dalla vita non erano alta letteratura. Ma allora come oggi potrebbero essere sottoscritti da milioni di tifosi.È logico che un materiale così potente e una passione così profonda (e razionalmente inspiegabile) per le bandiere e i colori che identificano ogni tribù calcistica abbia prodotto della letteratura. Uno dei primi sforzi letterari per spiegare l’impatto del calcio sulla società e sull’arte è forse quello dell’uruguaiano Eduardo Galeano, che scrisse Splendori e miserie del gioco del calcio (Sperling & Kupfer 1997). Questo libro segna il momento in cui molti intellettuali di sinistra, in Europa e in America Latina, smisero di vedere il calcio come qualcosa di sospetto, come un nuovo “oppio dei popoli”, e cominciarono a celebrarlo.
In quel periodo Manuel Vázquez Montalbán, che durante un periodo di detenzione sotto il regime franchista aveva scritto l’influente saggio Rapporto sull’informazione (1975) ed era già uno degli intellettuali più in vista dell’opposizione clandestina, pubblicò degli articoli che parlavano del Fútbol Club Barcelona e, usando risorse più letterarie che storiche, ne fece un simbolo della resistenza contro la dittatura.
All’epoca Vázquez Montalbán definì il Barcellona “l’esercito disarmato della Catalogna” (ricordiamo che il calcio è stato talvolta indicato come una “ritualizzazione della guerra”) e gli attribuì un’importanza politica che i dirigenti della squadra furono ben felici di fare propria, creando lo slogan “Més que un club”, più di un club. Le istituzioni calcistiche, come le nazioni, tendono a costruire la loro identità sulle gesta del passato. Non necessariamente vere, anzi. Però utili.
Permettetemi una digressione, perché il calcio spiega molte cose con la massima sincerità quando cerca di spiegare se stesso. È successo a Gianni Brera (1919-1992), il miglior cronista sportivo italiano della sua generazione. Nel 1972 Brera decise di scrivere un breve manuale didattico, destinato ai ragazzi che volevano intraprendere una carriera nel mondo del calcio. Lo intitolò Il mestiere del calciatore (Book Time 2012). Si proponeva di raccontare la storia di questo sport in Italia e di chiarire alcuni concetti elementari di tecnica e tattica. Finì per dimostrare che il calcio italiano era così com’era (difensivo, sofferente, opportunista) perché non poteva essere altrimenti, dato che il paese era stato per secoli nelle mani di potenze straniere, una situazione che aveva instillato negli italiani un certo carattere e un certo modo di fare le cose.
Torniamo al poligrafo Vázquez Montalbán. Dopo il 1977, in seguito alla fine della dittatura e sulla strada della democrazia, Vázquez Montalbán e il madrileno Javier Marías, che sarebbe diventato il più prestigioso scrittore spagnolo della sua epoca, formarono un curioso duo sulle pagine del quotidiano El País. Prima di ogni clásico, come viene chiamata la sfida tra Real Madrid e Barcellona, entrambi firmavano articoli sul calcio di altissimo livello letterario.
Gli scrittori amanti di questo sport non avevano più remore a confessare le loro passioni. Scrivevano di calcio, ma la loro attenzione era concentrata sulla squadra a cui erano fedeli. È il caso, poco più tardi, del saggista e giornalista italiano Beppe Severgnini, autore di libri deliziosamente autoironici sull’Inter. Lo stesso Javier Marías spiegava così questo fatto: “Il calcio è il recupero settimanale dell’infanzia”, cioè della radice di tutta la letteratura.
Forse chi ha scavato più a fondo nelle viscere del fenomeno calcistico come follia e recupero dell’infanzia è l’argentino Roberto Fontanarrosa, autore di un racconto fondamentale, 19 dicembre 1971, incluso nel suo libro Nada del otro mundo y otros cuentos (1988). Con il linguaggio della curva, la furia del tifoso (nel suo caso, del Rosario Central) e la brutale innocenza di un bambino, Fontanarrosa creò un capolavoro, apparentemente privo di qualsiasi veste intellettuale, ma con una tecnica letteraria squisita. Il suo racconto ha contribuito al fatto che ancora oggi, ogni 19 dicembre, centinaia di tifosi, per lo più del Rosario Central ma anche di fedi diverse, celebrano in tutto il mondo il gol che Aldo Pedro Poy segnò in quella data contro gli avversari del Newell’s.
Nel 1993 un famoso scrittore britannico, Nick Hornby, pubblicò un saggio autobiografico (in realtà un romanzo) sulla sua devozione per l’Arsenal di Londra. Lo chiamò Febbre a 90’, ed è un testo selvaggio e divertente come il racconto di Fontanarrosa. È uno dei libri più popolari e venduti di Hornby, ma lui preferisce non parlarne troppo. Non perché lo rinneghi, ma perché quando raccontiamo senza limiti la nostra personale mania per il calcio finiamo per svelare cose che preferiremmo mantenere private.
Osvaldo Soriano, un altro argentino tifoso di calcio (del San Lorenzo de Almagro) con un orecchio squisito per il linguaggio popolare, ha lasciato nella memoria collettiva gli affascinanti campionati mondiali del 1942. Che non sono mai esistiti, ovviamente (la vicenda è narrata nel racconto Il figlio di Butch Cassidy, incluso nel libro Fútbol. Storie di calcio, del 1998). Il torneo, che secondo Soriano si sarebbe svolto in Patagonia in piena guerra mondiale, è stato oggetto di articoli e documentari che forniscono nuovi dati e presunte prove: la favola è troppo bella per non assecondarla.
Lo scrittore messicano Juan Villoro, un grande della letteratura, è una firma ricorrente quando si parla di calcio. Ci sono le raccolte di articoli e cronache, come Dios es redondo del 2006 (ancora una volta entriamo nel terreno religioso) e Balón dividido, del 2014, o le lettere scambiate con l’amico Martín Caparrós (Ida y vuelta: una correspondencia sobre fútbol, 2014).
Finora abbiamo visto che l’approccio letterario al calcio tende ad assumere la forma di racconti, articoli di giornale e, in generale, testi brevi. Villoro stesso lo spiega:
Il calcio non ha bisogno di trame parallele e lascia poco spazio all’inventiva dell’autore. Questo è uno dei motivi per cui i racconti sul calcio sono migliori dei romanzi sul calcio. Il calcio ci arriva già narrato, e i suoi misteri inediti di solito sono brevi. Il romanziere, che non si accontenta di essere uno specchio, preferisce guardare in altre direzioni. Invece il cronista (interessato a raccontare ciò che è già accaduto) ci trova stimoli inesauribili.
Villoro, come sempre, ha ragione. Lo sport funziona come ingrediente in alcuni romanzi: il personaggio del giovane calciatore in Saper perdere (Feltrinelli 2008) di David Trueba o il giocatore ucciso in Il centravanti è stato assassinato verso sera (Feltrinelli 1991) di Manuel Vázquez Montalbán sono due dei tanti esempi. Però c’è qualcosa d’insoddisfacente quando il calcio e i suoi dintorni sono al centro dell’azione. Ispirandosi a un classico della suspense come Il mistero dell’arsenale (film diretto da Thorold Dickinson, del 1939), lo scozzese Philip Kerr, uno dei grandi del romanzo poliziesco, ha voluto mescolare calcio e thriller in una serie centrata su Scott Manson, un allenatore del campionato di serie a inglese. Il risultato sono tre romanzi minori.
Potremmo precisare alcuni dettagli della spiegazione di Villoro. Il calcio narrato, quello che si ascoltava alla radio prima che la televisione diventasse un elettrodomestico comune, lasciava innumerevoli misteri aperti: quelli che nascevano nell’immaginazione dell’ascoltatore. Pochi hanno visto giocare il brasiliano Manuel Francisco dos Santos, meglio noto come Garrincha, ma molti ne hanno sentito parlare o ne hanno letto sulla stampa. Le storie e le leggende sull’inarrestabile ala destra che aveva una gamba più corta dell’altra sono di per sé un sottogenere ibrido tra narrativa e memoria collettiva.
E cosa dire di Tomás Carlovich, detto El Trinche, la divinità più misteriosa del calcio? Argentino originario di Rosario, pigro, incapace di vedere il gioco come una professione, allo stesso tempo semplice e riflessivo, è sempre stato “il genio nascosto”, quello che non volle schierarsi in nessuna grande squadra perché preferiva stare a letto, andare a pescare o trovarsi con qualche amico e scivolare tra loro con il pallone tra i piedi in qualche campetto locale. Tutti i giganti gli resero omaggio, più per fede che per evidenza. Maradona gli regalò una maglietta con questa scritta: “Trinche, sei stato meglio di me”. Carlovich è stato ucciso nel 2020, all’età di 74 anni, da un ragazzo che voleva rubargli la bicicletta. La sua leggenda è culminata in quel momento. Perché la letteratura calcistica ha sempre privilegiato gli eroi tragici. C’è poco materiale interessante (dal punto di vista artistico) su giocatori illustri come Pelé, Di Stéfano, Cruyff, Beckenbauer o Messi: manca la tragedia. È il genio autodistruttivo, l’eroe fragile, l’idolo commovente ad attirare lo scrittore. George Best, Garrincha, Paul Gascoigne, Sócrates. E, ovviamente, l’essere supremo quando si parla di calcio e letteratura: Diego Armando Maradona.
Torniamo a Juan Villoro. In effetti, è il cronista la figura a cui interessa raccontare quel che è successo. Certi eventi non sono semplicemente accaduti, ma sono stati visti più e più volte dalla maggior parte della popolazione mondiale. Come Argentina-Inghilterra del 1986, forse la partita di calcio più famosa di tutti i tempi perché conteneva una quantità colossale di materiale letterario: l’astio tra le squadre per la guerra delle Falkland, il contesto dei mondiali e la presenza del migliore dei migliori, Maradona, che fece del suo peggio (un gol con la mano, “la mano di Dio”, ovviamente) e del suo meglio (quel gol irripetibile in cui superò l’intera squadra avversaria).
Tutti gli appassionati conoscono bene questa partita. Trent’anni dopo, il giornalista argentino Andrés Burgo ne ha scritto un resoconto meticoloso di quasi trecento pagine, ovviamente intitolato El partido (2016). L’opera di Burgo è tra i migliori romanzi (ora che il romanzo scorre senza scrupoli tra finzione e realtà) sul calcio e sul suo significato. Direi che El partido è ancora più bello della partita che racconta. Perché contiene tutto quello che è successo, quello che si è visto e quello che non si è visto, con l’aggiunta dell’immaginazione del lettore. E questa è letteratura. .