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- e qui ho evitato di replicare ulteriormente perché è come lavare la testa all'asino con il sapone
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
di cosa e di chi stiamo parlando
Lettera aperta del fratello del giovane militante ucciso da Cosa nostra nel 1978: "Come te, anche io sono figlio di un mafioso. Ma Peppino è stato più coraggioso di me"
Cara Lorenza,
in sottofondo
Nomadi la canzone del bambino nel vento(Auschwitz)
Ecco le ultime tre storie e con questo è tutto ed adesso prima del grande silenzio per parafrasare la canzone citata in sottofondo questa poesia piena di speranza
repubblica 27\1\2023
di Paolo Popoli
"Carissimo babbo, sono lieta di avere tue buone notizie. Vedo che la tua vita si svolge sempre metodica, regolata come un orologio, come pure la mia e se continua così non sarò di ritorno a casa nemmeno per Natale del 2.000": inizia così una delle nuove lettere ritrovate di Suzette Tartarone, la " Anna Frank napoletana".
Nove epistole, indirizzate al padre Alfredo nella casa di via Roma, scritte tra il 1941 e il 1942 nei campi di prigionia delle Marche: a recuperarle sul mercato antiquario è stato Gaetano Bonelli, fondatore e direttore del Museo di Napoli - Collezione Bonelli, che dodici anni fa ha scoperto la prima missiva di questo carteggio e ha fatto così emergere dall'oblio la storia tragica e appassionante della giovane napoletana di origini ebree, padre napoletano e madre francese, imprigionata non solo per motivi razziali, ma soprattutto per l'avversità al regime fascista e per i costumi emancipati, liberi, ma giudicati allora licenziosi e da condannare.
Rabbia, disillusione e l'affetto tenero per il genitore passano attraverso le parole impresse sulla carta dalla giovane donna, durante la detenzione, in questi nove inediti simili per contenuti alle altre cinque lettere già rinvenute da Bonelli a partire dal 2011. " Questo corpus offre nuove verità e nuove emozioni a un commovente diario epistolare della prigionia - spiega Bonelli - e conferma che Suzette Tartarone è stata detenuta non solo nel campo di Pollenza, ma almeno in altri due campi sempre nei pressi di Macerata: Castelraimondo e Caldarola".
Quattro anni di prigionia, dal 1940 al 1943, in condizioni dure e a chiedersi sempre " perché". Il 12 giugno 1941, Suzette parla di " 13 mesi di prigionia senza motivo valevole. Faccio i capelli bianchi qui dentro". Le nove epistole comprendono cartoline e biglietti al padre Alfredo, assieme a due risposte di quest'ultimo alla figlia, da lei conservate durante la prigionia, prima di evitare la deportazione ad Auschwitz e del ritorno a Napoli (grazie all'intercessione di uno zio prefetto a Torino) dove morirà negli anni Settanta. Della sua vita, però, non si sa altro.
"Le lettere portano il timbro "verificato dalla censura" - continua Bonelli - Forse Suzette ingannava i controlli, scrivendo nelle prime righe quasi sempre di convenevoli al padre, mentre più avanti lascia spazio a sfoghi e richieste di aiuto per ritrovare la libertà". "Vai a Roma, ti prego - scrive il 14 gennaio del ' 41 - non avrò pace finché la mia libertà non mi sarà resa". E sempre al padre che l'aiuta, dice il 6 giugno: " Peccato che l'on. Min. dell'Interno non sia come te".
Il 12giugno parla invece della polizia che si ricorda " benissimo della mia moralità sulla quale non c'è assolutamente nulla da dire. Spero che consentiranno a farmi tornare un giorno a casa. Il campo (di internamento, ndr) libero mi interessa poco. È un'altra schiavitù". Suzette racconta poi la sua rassegnazione ("La mia volontà non conta più niente", " Qui sono una cosa malleabile senza personalità") e rivendica l'ingiustizia subita: " Io sono nata libera". Nell'agosto 1941 vorrebbe tornare a Napoli: " Non ho paura delle bombe nemiche".
E poi ci sono i momenti di affetto, i ringraziamenti al padre per regali come sandali, calze e dolci. " Queste lettere andrebbero lette nelle scuole - conclude Bonelli - e spero un giorno possano diventare un libro o una rappresentazione teatrale. I nove inediti li ho acquistati due mesi fa, ma ho voluto diffonderli nella Giornata della Memoria e in questo momento di guerra in cui la sofferenza di Suzette, la costrizione della libertà e la vessazione in generale debbono fungere come monito".
Ai tempi dei processi alla banda dell’anarchico Sante Pollastro, del quale era stato il braccio destro, lo avevano definito l’uomo dalle identità molteplici: era stato Giulio Coccari, Luigi Bimbo, Carlo Locati, Garibaldi Pedrocca. E in uno dei dibattimenti in cui era stato imputato dopo l’arresto in Belgio nel 1927, e poi condannato a oltre vent’anni di galera, Luigi Peotta, nato a Grancona (Vicenza) il 16 maggio 1901, vissuto fra Novi Ligure e Sesto San Giovanni, stampatore tipografo e anarchico individualista, non aveva forse detto al magistrato che lo stava interrogando: “Ma non mi chiamo Peotta: è questo che mi preme precisare. Consta a lei che mi chiami Peotta?”.
La storia ufficiale della deportazione nei lager nazisti recita che l’uomo dai tanti volti sarebbe morto a Ebensee, un sottocampo di Mauthausen. Il viaggio del “Bimbo” verso il lager dell’alta Austria era cominciato dal campo di concentramento di Fossoli il 21 giugno del 1944, per concludersi quindi il 24 giugno a Mauthausen. La deportazione di Peotta e quella
dei suoi compagni, nota come il “Trasporto 53”, è stata accuratamente ricostruita, così come sono noti i nomi dei prigionieri.
Lui era la matricola numero
76668, inserito nella categoria
“Berufs Verbrecher”, vale a dire “delinquente, criminale di professione”. Secondo i documenti tedeschi, Peotta, prigioniero dal 24 luglio del 1944 a Ebensee, sarebbe deceduto il 2 maggio 1945. Un decesso su cui concordano anche gli storici del movimento anarchico.
Ma un conto è la storia ufficiale, un altro conto è la verità nascosta. Proprio Sante Pollastro, graziato alla fine degli anni Cinquanta, confidò negli anni Settanta al suo amico e biografo Luigi Brignoli che il “Bimbo” era morto a Sesto San Giovanni nel 1965. Aggiunse inoltre di essere andato al suo funerale, dove si mise a piangere. Scrive Brignoli: nel libro Le confessioni di Pollastro, l’ultimo bandito gentiluomo: “Durante un bombardamento, gli alleati devastano il penitenziario (1943)”; quindi Peotta “viene trasferito al carcere di Verona da cui evade. Ripreso dai tedeschi e fatto prigioniero riesce ad evadere ancora una volta e a scappare. Si nasconde nei pressi di Milano (Sesto S. Giovanni) dove rimane sotto falso nome fino alla morte avvenuta nel 1965. Pollastro, ormai libero, andrà in incognito ai suoi funerali”. Peotta a Sesto San Giovanni “avrebbe lavorato per una nota casa editrice”, vendendo libri. La “nota casa editrice” sarebbe stata la Feltrinelli, visto che una parente del “Bimbo”, Bianca Maria Dalle Nogare, aveva sposato Giangiacomo Feltrinelli a Sesto San Giovanni nel 1947.
Pollastro non aveva motivo di mentire. E Luigi Peotta, essendo comunque sempre un condannato per reati gravi (rapine, uccisioni di carabinieri e pure di fascisti), fu costretto a farsi credere morto per ancora vent’anni. L’anarchico che ai giudici rispondeva pirandellianamente di essere uno, nessuno e centomila, come un Mattia Pascal beffò i nazisti e l’italia antifascista ma non troppo.
sempre dalla stessa fonte
Su La Stampa di martedì 1 aprile 1952, nella rubrica “Stato civile” della cronaca, i lettori appresero che a Torino, il 31 marzo, era morto un certo “Schellenberg Walter di Guido, a. 41, via Magenta 24”. Quel cognome, però, non dovette suggerire niente a chi vi si era imbattuto. E non sollecitò la curiosità neppure dei cronisti, che all’epoca erano soliti leggere con molta attenzione i necrologi. Strano ma vero. Solo tre anni prima, il 14 aprile del 1949, su Stampa Sera si era dato conto di quel Walter Schellenberg. Era uno dei nazisti imputati in uno dei procedimenti, il cosiddetto “processo dei ministri”, nati dal dibattimento di Norimberga: “Walter Schellenberg, capo della sezione spionaggio dell’s.d., responsabile del massacro di prigionieri di guerra russi”, condannato a sei anni di reclusione.
Ciò che Stampa Sera non diceva è che Schellenberg, generale delle SS, era stato assistente del gerarca Reinhard Heydrich e tra i principali collaboratori del “Reichsführer” Heinrich Himmler nella veste di capo del suo servizio di controspionaggio. Lo Schellenberg deceduto a Torino per un tumore al fegato nella lussuosa Clinica Fornaca di corso Vittorio Emanuele II, in quell’inizio di primavera, era proprio l’alto ufficiale nazista, anche se i torinesi e gli italiani non lo avrebbero saputo. I servizi segreti americani, invece, e forse pure i nostri, che peraltro erano stati ricostituiti dagli angloamericani, ne erano informati. Lo testimonia una nota della CIA del 20 ottobre 1952 sul “General Walter Schellenberg”, in cui si asseriva che “fonti hanno confermato, sulla base di un’investigazione, che il Soggetto si è sentito male mentre stava viaggiando in treno nel nord Italia. Quando il treno è arrivato a Piacenza, il Soggetto è stato caricato su un’ambulanza che ha proseguito per Torino, dove il Soggetto è stato ricoverato nella clinica Forcava [cioè Fornaca]”. Lì “egli è morto il 31 marzo per arresto cardiaco, cirrosi al fegato e infezione della bile”. Sembra che l’ex generale delle SS fosse riuscito a evitare il carcere riparando in Svizzera. Aveva raggiunto poi il Lago Maggiore, fermandosi per qualche tempo a Pallanza e a Domodossola. Quando si sentì male era probabilmente “diretto a Roma, forse per incontrare qualcuno interessato alla pubblicazione delle sue memorie oppure per altre ragioni più oscure, legate al suo passato e verosimilmente ai contatti che già prima della fine della guerra aveva avuto con gli angloamericani. Certo è che il funerale del nazista venne pagato dalla stilista Coco Chanel, già amante di Schellenberg e agente segreto al soldo del Terzo Reich. Non è noto se il soggiorno torinese di “Schellenberg Walter di Guido” fosse stato dovuto soltanto alla malattia. Di sicuro, in quei giorni, nella città piemontese viveva indisturbato Marcel Déat, detto “l’hitler dei francesi”, condannato a morte nel suo Paese. Lo avevano cercato ovunque, ma l’ex socialista divenuto nazista abitò sotto la Mole fino alla morte, nel gennaio del 1955.
“Pure un giorno la sospirata
Primavera tornerà
E dai tormenti desiderata
La libertà rifiorirà
La libertà rinascerà”
( Wir Sind Die Moorsoldaten )
Si chiamava Diego, #DiegoValencia. Era l'anziano sacrestano della chiesa di Nuestra Señora de La Palma, ad #Algeciras, ed è stato
accoltellato a morte da un presunto #jihadista la sera del 25 gennaio, festa della #conversionedisanpaolo. Quanti Diego vivono una fede quotidiana e senza clamore, e quale voragine lasciano nel momento in cui civengono strappati via? L'indifferenza che ha circondato la notizia, come altre riguardanti i sempre più numerosi attacchi a chiese cristiane, indica l'irreversibile declino. Non del cristianesimo, ma del #nichilismo che ammorba le nostre società, incapace di suscitare passioni e motivi per vivere. Persone come Diego quella passione l'avevano, ed è grazie al loro agire silenzioso se il mondo non è ancora affossato. Ancora è attraversato da luci, da quella folgorante di #BiagioConte a quella più mite di Diego, cui non si fa caso, come al canto degli uccelli, ma il cui silenzio, a lungo andare, pesa come pietra.#cristianiperseguitatinelmondo
#nofondamentalismo
#nuovimartiri
il gruppo facebook Diaconia "Santa Maria Egiziaca" in Bresso riporta la storia Bakhita Fortunata Quascé,
Alla forza del perdono che Giuseppina Bakhita attinge dall’incontro con Cristo si aggiunge il coraggio che Fortunata Bakhita Quascé attinge da Cristo per contrastare ostinatamente la schiavitù. Lei testimonia come una donna schiava che scopre la propria dignità divenga a sua volta “liberazione” per tante altre vittime.
Il 25 gennaio 2023 viene presentata a Roma la vita di Bakhita Fortunata Quascé, donna libera contro la schiavitù
Nel 1882, quando Giuseppina Fortunata Bakhita viene comprata da Calisto Legnani a Kahrtoum, Bakhita Fortunata Quascé diventa Pia Madre della Nigrizia a El Obeid. La rivoluzione mahadista travolge il Sudan, e nel 1883 anche lei viene fatta prigioniera con altre suore; con loro subisce percosse e maltrattamenti e più di loro, come africana, è esposta a una nuova schiavitù. Riesce a fuggire nel 1885 insieme a suor Maria Caprini, e nel 1888 è di nuovo maestra in Cairo, nella colonia antischiavista Leone XIII. Una donna tenace, mai più schiava, che continua a liberare tante altre ragazze.
Il suo miracolo è stato questo, e a lei si ispirano le Suore missionarie comboniane che da decenni contrastano nuove forme di schiavitù.
Dal 2015, la “Giornata di preghiera e azione contro la tratta” ricorre l’8 febbraio, giorno in cui si ricorda la “nascita al cielo” di santa Bakhita.
Quest’anno c’è anche un’altra Bakhita, deceduta il 12 ottobre 1899 in Cairo.
Alla forza del perdono che Giuseppina Bakhita attinge dall’incontro con Cristo si aggiunge il coraggio che Fortunata Bakhita Quascé attinge da Cristo per contrastare ostinatamente la schiavitù. Lei testimonia come una donna schiava che scopre la propria dignità divenga a sua volta “liberazione” per tante altre vittime.
Oggi, grazie a Maria Tatsos, la sua storia è raccontata nel libro: “Fortunata Bakhita Quascè. Una donna libera contro la schiavitù”, e merita attenzione.
Il prof di Economia si laurea in Fisica sfruttando un errore e gli esami di un omonimo L’accademico dell’anno è il prof. Sergio Barile, doce...