28.1.23

Ci sono cose che .....

.... Ci sono storie e fatti che è davvero difficile ed ancora più complesso commentare
vista  la  brevità del  post   ne  approfitto   per   rispondere  a  chi prende  aglio per  cipolla    e  mi  segue  tanto  per   farsi  i  ..  o  farsi due risate     ignorando    che spesso i poli opposti  s'attraggono    e   che  a  volte  capita    di condividere   \  trovare   un punto in comune     con  chi la  pensa    all'opposto  di te   e   di cui  combatti le  idee  
  come il caso  che   mi  è  successo recentemente  su fb    quando  ho  condiviso    il post  di  Povia   contro  Zelenski  a  San remo    ecco   lo scambio  di  commenti


Tommaso Sal
Giuseppe Scano Tu hai fatto una condivisione, non un lancio, se condividi significa che ti piace e sei d’accordo, quindi bando al braccino corto e sgancia la grana.

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Giuseppe Scano
magati  e lui che  me li  ha mandati    sulla mia poste pay perchè  ho parlato  di lui  
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  • Tommaso Sal
    Giuseppe Scano Come no, sei tu che hai condiviso il tizio che chiede soldi quindi sei solidale, devi dare il buon esempio, versagli la grana e poi posta la ricevuta.
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    Giuseppe Scano
    Tommaso Sal LOL . veramente non sempre condivido ciò che rilancio . lo faccio per dare voce a chi non ha voce oppure è, ai margini dei media . Ma soprattutto per intavolare un discorso \ dibattito . evidentemente ancora non ha imparato a conoscermi
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  • Tommaso Sal
    Giuseppe Scano Tu hai fatto una condivisione, non un lancio, se condividi significa che ti piace e sei d’accordo,quindi bando al braccino corto e sgancia la grana.
  •  
  •   e  qui  ho  evitato  di replicare ulteriormente   perché   è  come lavare la  testa  all'asino  con il sapone  

27.1.23

Giovanni Impastato scrive alla figlia di Messina Denaro: "Non ripudiare tuo padre, ma devi farlo pentire"

 di cosa  e  di chi stiamo parlando   

https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2023/01/lasciamo-in-pace-la-figlia-di-matteo.html

"Lorenza non ha mai rinnegato il padre. La sfera dei loro rapporti è intangibile" di Alessandra Ziniti 21 Gennaio 2023




Lettera aperta del fratello del giovane militante ucciso da Cosa nostra nel 1978: "Come te, anche io sono figlio di un mafioso. Ma Peppino è stato più coraggioso di me"



Cara Lorenza,

ti scrivo mentre cerco di immaginare cosa in questi giorni tu possa provare. Non sono sicuro di riuscirci, ma visto quello che anche io ho vissuto nella mia vita, credo di poter capire, se pur in parte, la tua situazione. Sono Giovanni Impastato, fratello di Peppino, un giovane
militante ucciso perché combatteva contro la mafia e nostro padre era un

mafioso. Mio fratello era molto coraggioso, sicuramente più coraggioso di me, lui fin da quando era adolescente ha iniziato a combattere la mafia frontalmente e a contestare apertamente nostro padre, fino al punto di essere ripudiato come figlio e cacciato da casa. La rottura in casa era già avvenuta, l'aveva messa in atto Peppino, la nostra situazione familiare era molto complicata ed anche mia madre aveva cercato di insegnarci valori diversi da quelli che la mafia voleva imporci .
Oggi le parole che Peppino scrisse nel suo diario, mi fanno venire i brividi e mi emozionano ogni volta che le leggo. Voglio condividerle con te, perché hanno rappresentato tantissimo per me, sono delle frasi molto forti, acute e sincere: "Mio padre, capo di un piccolo clan e membro di un clan più vasto con connotati ideologici tipici di una società tardo contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, fin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte ed il suo codice comportamentale. E' riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva ed a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività".
Capisco che in questi giorni stai vivendo forti pressioni mediatiche, immagino il caos che dimora nel tuo cuore. Con questa mia lettera non ti dico di ripudiare il padre, di abbandonarlo o di non amarlo, se vuoi puoi anche stargli accanto in un momento in cui è gravemente ammalato. Posso capire i sentimenti contrastanti che vivono in te, per un padre che forse non hai nemmeno conosciuto, ma che tanto ha condizionato la tua intera esistenza e continuerà a condizionarla. Voglio solo suggerirti di prendere coscienza che le scelte che tuo padre ha fatto nella vita sono inaccettabili, significa avere un macigno sulle spalle, significa vivere a contatto con la morte e la violenza, significa non poter dare amore ai propri figli, tu hai un figlio e puoi capire di quanto amore abbia bisogno, di quanta speranza nel futuro.
Sii sempre più cosciente che la vita vera è un'altra, è quella che consente ad una figlia come te di poter abbracciare il padre, è quella di chi non deve avere o provocare paura. Emancipati e riscattati da questa storia, consapevole che forse mai potrai cancellare tutto quanto: non significa non amare il padre, significa renderti libera da qualcosa di cui tu sei innocente, ma che sarai costretta a portare con te come un peso enorme. Se deciderai di restargli accanto, mi auguro che la tua vicinanza e la tua determinazione possano spingere tuo padre a pentirsi di quello che ha fatto, dovrebbe farlo per tanti motivi, per tante persone, ma anche per te.

Suzette Tartarone l'Anna Frank napoletana: trovate altre lettere dalla prigionia , L’anarchico Luigi Peotta, che non arrivò mai a Mauthausen e Walter Schellenberg, Ss morto a Torino: le esequie pagate da Chanel

in  sottofondo
Nomadi la canzone del bambino nel vento(Auschwitz)


Ecco  le  ultime  tre  storie   e  con questo     è  tutto    ed  adesso  prima  del  grande  silenzio per  parafrasare  la  canzone     citata  in  sottofondo  questa  poesia   piena  di speranza  

  repubblica    27\1\2023

di   Paolo Popoli

Suzette, l'Anna Frank napoletana: trovate altre lettere dalla prigionia A recuperarle Gaetano Bonelli, fondatore e direttore del Museo di Napoli



"Carissimo babbo, sono lieta di avere tue buone notizie. Vedo che la tua vita si svolge sempre metodica, regolata come un orologio, come pure la mia e se continua così non sarò di ritorno a casa nemmeno per Natale del 2.000": inizia così una delle nuove lettere ritrovate di Suzette Tartarone, la " Anna Frank napoletana".

Nove epistole, indirizzate al padre Alfredo nella casa di via Roma, scritte tra il 1941 e il 1942 nei campi di prigionia delle Marche: a recuperarle sul mercato antiquario è stato Gaetano Bonelli, fondatore e direttore del Museo di Napoli - Collezione Bonelli, che dodici anni fa ha scoperto la prima missiva di questo carteggio e ha fatto così emergere dall'oblio la storia tragica e appassionante della giovane napoletana di origini ebree, padre napoletano e madre francese, imprigionata non solo per motivi razziali, ma soprattutto per l'avversità al regime fascista e per i costumi emancipati, liberi, ma giudicati allora licenziosi e da condannare.


Rabbia, disillusione e l'affetto tenero per il genitore passano attraverso le parole impresse sulla carta dalla giovane donna, durante la detenzione, in questi nove inediti simili per contenuti alle altre cinque lettere già rinvenute da Bonelli a partire dal 2011. " Questo corpus offre nuove verità e nuove emozioni a un commovente diario epistolare della prigionia - spiega Bonelli - e conferma che Suzette Tartarone è stata detenuta non solo nel campo di Pollenza, ma almeno in altri due campi sempre nei pressi di Macerata: Castelraimondo e Caldarola".
Quattro anni di prigionia, dal 1940 al 1943, in condizioni dure e a chiedersi sempre " perché". Il 12 giugno 1941, Suzette parla di " 13 mesi di prigionia senza motivo valevole. Faccio i capelli bianchi qui dentro". Le nove epistole comprendono cartoline e biglietti al padre Alfredo, assieme a due risposte di quest'ultimo alla figlia, da lei conservate durante la prigionia, prima di evitare la deportazione ad Auschwitz e del ritorno a Napoli (grazie all'intercessione di uno zio prefetto a Torino) dove morirà negli anni Settanta. Della sua vita, però, non si sa altro.


"Le lettere portano il timbro "verificato dalla censura" - continua Bonelli - Forse Suzette ingannava i controlli, scrivendo nelle prime righe quasi sempre di convenevoli al padre, mentre più avanti lascia spazio a sfoghi e richieste di aiuto per ritrovare la libertà". "Vai a Roma, ti prego - scrive il 14 gennaio del ' 41 - non avrò pace finché la mia libertà non mi sarà resa". E sempre al padre che l'aiuta, dice il 6 giugno: " Peccato che l'on. Min. dell'Interno non sia come te".

Il 12giugno parla invece della polizia che si ricorda " benissimo della mia moralità sulla quale non c'è assolutamente nulla da dire. Spero che consentiranno a farmi tornare un giorno a casa. Il campo (di internamento, ndr) libero mi interessa poco. È un'altra schiavitù". Suzette racconta poi la sua rassegnazione ("La mia volontà non conta più niente", " Qui sono una cosa malleabile senza personalità") e rivendica l'ingiustizia subita: " Io sono nata libera". Nell'agosto 1941 vorrebbe tornare a Napoli: " Non ho paura delle bombe nemiche".

 

E poi ci sono i momenti di affetto, i ringraziamenti al padre per regali come sandali, calze e dolci. " Queste lettere andrebbero lette nelle scuole - conclude Bonelli - e spero un giorno possano diventare un libro o una rappresentazione teatrale. I nove inediti li ho acquistati due mesi fa, ma ho voluto diffonderli nella Giornata della Memoria e in questo momento di guerra in cui la sofferenza di Suzette, la costrizione della libertà e la vessazione in generale debbono fungere come monito".

L’anarchico Peotta, che non arrivò mai a Mauthausen

Ai tempi dei processi alla banda dell’anarchico Sante Pollastro, del quale era stato il braccio destro, lo avevano definito l’uomo dalle identità molteplici: era stato Giulio Coccari, Luigi Bimbo, Carlo Locati, Garibaldi Pedrocca. E in uno dei dibattimenti in cui era stato imputato dopo l’arresto in Belgio nel 1927, e poi condannato a oltre vent’anni di galera, Luigi Peotta, nato a Grancona (Vicenza) il 16 maggio 1901, vissuto fra Novi Ligure e Sesto San Giovanni, stampatore tipografo e anarchico individualista, non aveva forse detto al magistrato che lo stava interrogando: “Ma non mi chiamo Peotta: è questo che mi preme precisare. Consta a lei che mi chiami Peotta?”.

La storia ufficiale della deportazione nei lager nazisti recita che l’uomo dai tanti volti sarebbe morto a Ebensee, un sottocampo di Mauthausen. Il viaggio del “Bimbo” verso il lager dell’alta Austria era cominciato dal campo di concentramento di Fossoli il 21 giugno del 1944, per concludersi quindi il 24 giugno a Mauthausen. La deportazione di Peotta e quella

dei suoi compagni, nota come il “Trasporto 53”, è stata accuratamente ricostruita, così come sono noti i nomi dei prigionieri.

Lui era la matricola numero

76668, inserito nella categoria

“Berufs Verbrecher”, vale a dire “delinquente, criminale di professione”. Secondo i documenti tedeschi, Peotta, prigioniero dal 24 luglio del 1944 a Ebensee, sarebbe deceduto il 2 maggio 1945. Un decesso su cui concordano anche gli storici del movimento anarchico.

Ma un conto è la storia ufficiale, un altro conto è la verità nascosta. Proprio Sante Pollastro, graziato alla fine degli anni Cinquanta, confidò negli anni Settanta al suo amico e biografo Luigi Brignoli che il “Bimbo” era morto a Sesto San Giovanni nel 1965. Aggiunse inoltre di essere andato al suo funerale, dove si mise a piangere. Scrive Brignoli: nel libro Le confessioni di Pollastro, l’ultimo bandito gentiluomo: “Durante un bombardamento, gli alleati devastano il penitenziario (1943)”; quindi Peotta “viene trasferito al carcere di Verona da cui evade. Ripreso dai tedeschi e fatto prigioniero riesce ad evadere ancora una volta e a scappare. Si nasconde nei pressi di Milano (Sesto S. Giovanni) dove rimane sotto falso nome fino alla morte avvenuta nel 1965. Pollastro, ormai libero, andrà in incognito ai suoi funerali”. Peotta a Sesto San Giovanni “avrebbe lavorato per una nota casa editrice”, vendendo libri. La “nota casa editrice” sarebbe stata la Feltrinelli, visto che una parente del “Bimbo”, Bianca Maria Dalle Nogare, aveva sposato Giangiacomo Feltrinelli a Sesto San Giovanni nel 1947.

Pollastro non aveva motivo di mentire. E Luigi Peotta, essendo comunque sempre un condannato per reati gravi (rapine, uccisioni di carabinieri e pure di fascisti), fu costretto a farsi credere morto per ancora vent’anni. L’anarchico che ai giudici rispondeva pirandellianamente di essere uno, nessuno e centomila, come un Mattia Pascal beffò i nazisti e l’italia antifascista ma non troppo.


  sempre   dalla stessa   fonte   


Schellenberg, Ss a Torino: le esequie pagate da Chanel

Su La Stampa di martedì 1 aprile 1952, nella rubrica “Stato civile” della cronaca, i lettori appresero che a Torino, il 31 marzo, era morto un certo “Schellenberg Walter di Guido, a. 41, via Magenta 24”. Quel cognome, però, non dovette suggerire niente a chi vi si era imbattuto. E non sollecitò la curiosità neppure dei cronisti, che all’epoca erano soliti leggere con molta attenzione i necrologi. Strano ma vero. Solo tre anni prima, il 14 aprile del 1949, su Stampa Sera si era dato conto di quel Walter Schellenberg. Era uno dei nazisti imputati in uno dei procedimenti, il cosiddetto “processo dei ministri”, nati dal dibattimento di Norimberga: “Walter Schellenberg, capo della sezione spionaggio dell’s.d., responsabile del massacro di prigionieri di guerra russi”, condannato a sei anni di reclusione.

Ciò che Stampa Sera non diceva è che Schellenberg, generale delle SS, era stato assistente del gerarca Reinhard Heydrich e tra i principali collaboratori del “Reichsführer” Heinrich Himmler nella veste di capo del suo servizio di controspionaggio. Lo Schellenberg deceduto a Torino per un tumore al fegato nella lussuosa Clinica Fornaca di corso Vittorio Emanuele II, in quell’inizio di primavera, era proprio l’alto ufficiale nazista, anche se i torinesi e gli italiani non lo avrebbero saputo. I servizi segreti americani, invece, e forse pure i nostri, che peraltro erano stati ricostituiti dagli angloamericani, ne erano informati. Lo testimonia una nota della CIA del 20 ottobre 1952 sul “General Walter Schellenberg”, in cui si asseriva che “fonti hanno confermato, sulla base di un’investigazione, che il Soggetto si è sentito male mentre stava viaggiando in treno nel nord Italia. Quando il treno è arrivato a Piacenza, il Soggetto è stato caricato su un’ambulanza che ha proseguito per Torino, dove il Soggetto è stato ricoverato nella clinica Forcava [cioè Fornaca]”. Lì “egli è morto il 31 marzo per arresto cardiaco, cirrosi al fegato e infezione della bile”. Sembra che l’ex generale delle SS fosse riuscito a evitare il carcere riparando in Svizzera. Aveva raggiunto poi il Lago Maggiore, fermandosi per qualche tempo a Pallanza e a Domodossola. Quando si sentì male era probabilmente “diretto a Roma, forse per incontrare qualcuno interessato alla pubblicazione delle sue memorie oppure per altre ragioni più oscure, legate al suo passato e verosimilmente ai contatti che già prima della fine della guerra aveva avuto con gli angloamericani. Certo è che il funerale del nazista venne pagato dalla stilista Coco Chanel, già amante di Schellenberg e agente segreto al soldo del Terzo Reich. Non è noto se il soggiorno torinese di “Schellenberg Walter di Guido” fosse stato dovuto soltanto alla malattia. Di sicuro, in quei giorni, nella città piemontese viveva indisturbato Marcel Déat, detto “l’hitler dei francesi”, condannato a morte nel suo Paese. Lo avevano cercato ovunque, ma l’ex socialista divenuto nazista abitò sotto la Mole fino alla morte, nel gennaio del 1955.

    “Pure un giorno la sospirata
Primavera tornerà
E dai tormenti desiderata
La libertà rifiorirà
La libertà rinascerà”

( Wir Sind Die Moorsoldaten )

Si chiamava Diego, #DiegoValencia. © DanielaTuscano

 Si chiamava Diego, #DiegoValencia. Era l'anziano sacrestano della chiesa di Nuestra Señora de La Palma, ad #Algeciras, ed è stato

accoltellato a morte da un presunto #jihadista la sera del 25 gennaio, festa della #conversionedisanpaolo. Quanti Diego vivono una fede quotidiana e senza clamore, e quale voragine lasciano nel momento in cui civengono strappati via? L'indifferenza che ha circondato la notizia, come altre riguardanti i sempre più numerosi attacchi a chiese cristiane, indica l'irreversibile declino. Non del cristianesimo, ma del #nichilismo che ammorba le nostre società, incapace di suscitare passioni e motivi per vivere. Persone come Diego quella passione l'avevano, ed è grazie al loro agire silenzioso se il mondo non è ancora affossato. Ancora è attraversato da luci, da quella folgorante di #BiagioConte a quella più mite di Diego, cui non si fa caso, come al canto degli uccelli, ma il cui silenzio, a lungo andare, pesa come pietra.


#cristianiperseguitatinelmondo

#nofondamentalismo

#nuovimartiri

26.1.23

Leone, la piuma del Ghetto. Il figlio Romolo e l'infanzia negata: "Sempre in fuga, ma riuscì a salvarmi"

La giornata del 27 gennaio       si potrebbe riassumere la  battuta  che  trovate  sotto  ma   ho preferito 
 raccogliere    nel  post  d'oggi  la  storia    di   leone  efrati (  foto   a  sinistra  )  un pugile italiano,  che  troviamo   tra le vittime ebree romane dell'Olocausto.con questa  battuta  

Ma     ci sono    storie  bellissime    da  raccontare  su  tale  periodo appunto      come   quella  di  cui  parlavo  prima  

 repubblica    online  
La storia di Efrati, il pugile che arrivò in cima al mondo prima di morire in un campo di concentramento raccontata in un libro. Il figlio ricorda quegli anni terribili, come sopravvisse e come fece condannare le due persone che lo fecero arrestare col padre
                   di  Luigi Panella


"Avevo sette anni ma è come se ne avessi avuti 15. Sempre in fuga, da un portone all'altro a cercare un posto dove dormire. Una volta bastò un minuto di distrazione e ci rubarono persino le coperte". Romolo Efrati ora di anni ne ha 85, ha cinque figli e una vita felice che però non ha conosciuto l'infanzia. Il padre si chiamava Leone, per tutti Lelletto. Era un grande pugile, ne racconta la storia La piuma del Ghetto, di Antonello Capurso (Gallucci editore). Una parabola di gloria e tragedia che parte negli Anni 20 del secolo scorso. Nelle strade del Ghetto di Roma, tra pietre millenarie, carretti e odore di fritto. È come il quartiere ebraico di C'era una volta in America di Sergio Leone, ma Noodles e Max cercano la scorciatoia facile, mentre Lelletto sceglie l'onestà e si arrangia con i lacci, venduti otto alla volta. Ring e strada è un trait'd'union. La boxe la fanno in tanti, anche quel piccolo pugile - peso piuma - che inizia all'Audace, a due passi dal Colosseo.
Lì la storia riavvolge il nastro partendo dal ritrovamento quasi casuale di una valigetta di pelle con incise due iniziali: L.E. Leone Efrati la nascondeva in quella palestra. "Ormai gli ebrei non solo non potevano più combattere - ricorda Romolo -, non avevano diritto neanche ad allenarsi". Eppure "l'orgoglio nazionale non ha bisogno di deliri di razza, l'antisemitismo non esiste in Italia", aveva detto Mussolini nel 1932, eppure i giornali avevano esaltato le vittorie di Efrati con la sua stella di Davide cucita sui pantaloncini. Ce l'hanno in tanti, tra loro anche quel Max Baer che ha posto fine al regno di Primo Carnera, il mito a cui tutti i pugili italiani dell'epoca si ispirano. Lelletto vince, tanto. Si guadagna l'America, la chance per il titolo mondiale a Chicago: perde ai punti contro Leo Rodak, un grande campione d'origine ucraina, ma ormai è arrivato in alto. Se restasse negli Usa avrebbe una vita diversa, avrebbe una vita. Ma la sua adorata Ester e i figli non possono più espatriare, le cose per gli ebrei sono cambiate. "Più che come pugile, lo ricordo come padre buono e generoso. Mi sono rimaste impresse quelle caramelle sul letto, lo aiutavo a confezionare sacchetti da dieci, per me era un gioco". Ma non era un gioco.


Quelle caramelle venivano vendute per tirare avanti ai soldati che partivano per il fronte. Senza più diritti, senza più una casa: "Se l'era presa una famiglia non ebrea. Non erano brava gente, avevano assicurato a mia madre che almeno ci avrebbero fatto fare il bagno. Invece non ci fecero più entrare e per lavarci dovevamo andare al fontanone a Ponte Sisto. Quando non c'era nessuno, alle 5 di mattina, con l'acqua gelata". Una storia già tragica che si arricchisce di due personaggi oscuri, si chiamano Consoli e Ceccherelli. "Mio padre mi aveva comprato un gelato al cioccolato, fuori dalla gelateria ci aspettavano quei due. Ci portarono prima a via Tasso, mi ricordo un portone grande. Poi a Regina Coeli, in una camera di 2 metri quadri in cui restammo 21 giorni. Non addabbera niente (non dire nulla in giudaico romanesco) si raccomandò mio padre. E io non dissi niente quando mi chiedevano dove fosse il resto della mia famiglia".
Il destino poi li divide. Per Lelletto si chiama Fossoli, Auschwitz, Ebensee. "Io mi salvai perché mi lanciarono fuori dal camion che ci doveva portare al treno. Con l'arte della strada riuscii a scappare salendo su una carrozzella". Il padre non si salvò. Nei campi di concentramento si organizzavano incontri di boxe, alcuni erano anche campioni come Victor "Young" Perez, tunisino, campione del mondo dei pesi mosca o Hertzko Haft, detto "la Belva giudea", che dopo la guerra sfiderà Rocky Marciano per il titolo dei massimi. Efrati a suon di pugni guadagna per sé e per il fratello Marco una sopravvivenza appena più dignitosa. Ma è proprio l'ultimo match che gli costa la vita. Ridicolizza un polacco molto più grosso di lui, e i kapò connazionali dello sconfitto si accaniscono contro il fratello Marco. Lelletto cerca di vendicarsi, ma uno contro tanti non è possibile. Pochi giorni dopo sarebbero arrivati quegli americani che invece Romolo ha già visto entrare a Roma.
La sua famiglia si è ripresa la propria casa, il senso di giustizia torna a farsi largo. Ma quei due prendevano soldi per ogni ebreo consegnato potrebbero farla franca. Solo un testimone che ora ha 10 anni può inchiodarli: "Al processo non avevo paura, mi sentivo solo confuso. Ricordo l'entusiasmo della gente in aula quando finì tutto. Dissi che uno dei due non aveva un braccio, e quando lui fu costretto a togliersi il cappotto tutto divenne chiaro". Per Romolo un nuovo inizio: "Quando sono cresciuto anche io ho fatto il pugile, ho toccato buoni livelli tra i dilettanti. Mi sono fatto una famiglia, sono riuscito ad avere una vita felice". Ma l'infanzia negata non potrà mai riaverla indietro.

25.1.23

Giornata della Memoria, parla Lucy Salani, la donna trans più anziana d’Italia, sopravvissuta a Dachau: «Ho 98 anni ma sono morta allora»

continuando il proposito di cui avevo parlato nei post dell'anno scorso ovvero non esprimere pareri personali e "censurando" le mie emozioni onde ad evitare di cadere nela retorica lascio che a parlare siamo oi protagonisti che ancora sono rimasti i vita come in questo caso , ebrei e non ebrei .


La storia che riporto oggi presa da L'Espresso (repubblica.it) e da altri siti che ora non ricordo

Luciano che diventerà Lucy anche fisicamente solo a 58 anni, nasce nel 1924 a Fossano, vicino a Cuneo, da una famiglia antifascista, di origine emiliana che negli anni Trenta si trasferisce nel bolognese, dove Lucy affonda le sue radici. Con le mani nodose, gli occhi liquidi e l’ironia di chi ha sofferto molto ci fa entrare nel suo appartamento al secondo piano di un alloggio popolare e ci accompagna nelle notti della sua vita. Le attenzioni pedofile da parte del parroco da piccolissima: «Sento ancora i brividi a pensarci» racconta in debito d’ossigeno: «Oggi, quando vengono a benedire la casa, la porta non la apro. Suona pure, dico, stai fuori».
Poi i rifiuti in famiglia: il padre non crederà ai suoi racconti delle violenze subite. Poca cosa rispetto a quello che dovrà affrontare più avanti. Si sente donna da sempre. Sopravvive. Da Dachau fino al dopoguerra, dall’operazione per il cambio di genere alla perdita della sua figlia adottiva. Di sé parla al femminile soltanto quando racconta il dopo Dachau. Prima, dall’infanzia alla Liberazione, ricorda Luciano. Declina al maschile le memorie di un uomo che non c’è più. Quasi come se ci fosse un primo e un secondo atto dentro questa storia che è una fuga da qualcosa che non si può neanche nominare. Non ha mai voluto cambiare nome all’anagrafe. «Quante volte me lo hanno chiesto. Ho sempre risposto no. Me lo hanno dato i miei genitori. È sacro. Perché una donna non si può chiamare Luciano? Perché no?».

È il 1943 e Luciano ha 19 anni. C’è la guerra nelle strade e la guerra dentro di lui. Cerca subito di fuggire dall’esercito: «Mi presento militare e faccio la visita. Dico: sono omosessuale, non posso farlo. Mi rispondono: dite tutti così ma con questa guerra non c’è più sesso». L’esperienza sotto le armi però dura poco, solo tre settimane. L’8 settembre con l’armistizio l’esercito si dissolve. È un’altra fuga mancata. A Vercelli viene catturato, costretto a entrare nell’esercito tedesco. Passa qualche settimana. Luciano si adatta. È quell’istinto di sopravvivenza che lo porterà lontano. Riesce a farsi assegnare il posto di addetto alla fureria, cioè l’ufficio militare che si occupa della stesura degli incaricati dei servizi giornalieri e delle licenze della truppa. Qui, da solo, prepara le carte per tornare a casa: «Mi sono fatto i permessi e sono arrivato fino a casa. I tedeschi mi cercavano perché ho dato un indirizzo e un nome falso. Peggiorando la mia situazione».
Rischia la pena di morte. Luciano è consapevole, ma Bologna è la sua casa. Ritrova i suoi amici. Frequenta gli unici luoghi concessi agli omosessuali del tempo: bagni, parchi, cinema in terza visione. «Facevamo marchette. C’erano i tedeschi e pagavano anche bene. Una volta arrivò un capitano tedesco e mi portò all’Albergo Bologna. Ma fecero una retata. Erano tedeschi anche loro: a lui dissero “taglia la corda”, io venni arrestato. Scoprirono tutto». Processato come disertore dell’esercito tedesco e condannato a morte per fucilazione. «Chiesi la grazia a Kesserling (il generale tedesco che nel 1943-44 guidò la ritirata ndr), accettarono ma con lavori forzati in Germania. La mattina ci caricarono su un carro merci, per poi scaricarci a Dachau».

Il campo di concentramento segna uno spartiacque nella vita di Lucy. Entra da triangolo rosso, non rosa. Conosce un orrore che racconta con fatica, la voce rotta da un principio di pianto: «C’erano pidocchi, cimici, topi. Ma non riuscivamo a prenderli. Altrimenti li avremmo mangiati». Con gli occhi lucidi ricorda la sua mansione: «Insieme a un polacco dovevo prendere tutti cadaveri che la notte morivano e metterli fuori, attaccar loro una targhetta con il suo numero. Perché non c’era un nome. Poi li caricavamo sopra un carro e li portavamo al forno crematorio». La voce si rompe, alcuni dei corpi destinati al crematorio erano vivi: «Quello che ho visto è allucinante. Mettere un essere vivente dentro a un forno». Come si fa a convivere con questi ricordi? Su quale mensola della coscienza si colloca l’immagine di quei giorni, per non pensarci più? «È dentro di me. Come quando leghi qualcosa che non scappa. Lo leghi stretto e ti senti schiacciato. Stanotte sarà un’altra notte».
Lucy ritorna in famiglia ma viene rifiutata di nuovo. Il ritorno è da disertore sopravvissuto a Dachau, ma in Italia prova quello che moltissimi omosessuali hanno vissuto nel dopoguerra: traumatizzati dalle violenze subite e dalle atrocità, vanno avanti non nominati nelle cerimonie di commemorazione. Omessi dalla collettività ed esclusi dalla cultura della memoria. Non sono sopravvissuti ma si sono semplicemente salvati. «Guai a dire che ero donna», racconta: «Dicevo ai miei: mi avete fatto voi così. Io non ho voluto nascere in queste condizioni. Ma vi ringrazio perché a me piace essere così. Mio fratello mi ha detto: non ti chiamerò mai Lucy, per me sarai sempre Luciano».
All’inizio vive di espedienti: la prostituzione, sotto il nome Carmen, ma anche la ballerina e l’attrice in uno spettacolo en travesti. Poi decide di trasferirsi a Torino. Un’altra fuga, un’altra vita alla luce del sole. Qui è Lucy nella sua pienezza. Assume gli ormoni, inizia ad avere il seno, ad arrotondare i fianchi. Impara l’arte della tappezzeria e inizia a lavorare. Una donna tappezziera, un’altra eccezione dentro quegli anni. Ma non era più Luciano di Dachau, non era più Carmen, sotto la Mole è semplicemente sé stessa: Lucy.
Nel 1981 si opera a Londra, lo stesso anno in cui viene varata la legge in Italia. Un intervento chirurgico che le ha sottratto il raggiungimento del piacere sessuale, destino condiviso da lei e da molte altre donne trans. Dopo amori finiti o mai iniziati. Adotta una ragazza madre di diciotto anni: «L’ho conosciuta che era una bambina. Il padre lavorava nelle miniere, aveva la silicosi ed è morto presto. La mamma è morta poche settimane dopo. La bimba è venuta da me. Inizialmente faceva dei lavoretti, poi si è innamorata di un idiota ed è rimasta incinta».

Lucy l’accoglie in casa e per non farle mancare niente torna a fare la prostituta. «Era come mia figlia. Poi è morta anche lei a 57 anni». Lucy che per istinto e talento continua a reinventarsi ogni volta, risorgere guardare la luce davanti a sé, non il buio che c’è dietro. Oggi convive a Bologna con Sahid, operaio marocchino praticante musulmano. Sembra siderale la distanza culturale tra lui che prega in direzione della Mecca e lei donna trans, ex prostituta di via Stalingrado. Ma quella con Sahid è qualcosa di più di una semplice relazione tra coinquilini: «Per me è come un nipote» dice lei. Le fa eco lui: «Quando andiamo insieme al supermercato io dico che lei è mia nonna e lei mi tratta da nipote».
È il talento di Lucy quello di tessere relazioni per vivere: c’è Maria, la vicina di casa che va chiederle consigli amorosi. Ci sono Ambra e Simone. E poi la comunità Lgbt, come l’attivista storica del movimento trans Porpora Marcasciano. La vita di Lucy è una fuga verso gli affetti: inizia a Bologna passa da Dachau e fa il giro del mondo. Lucy non è una militante, non lo è mai stata. Eppure, è sempre riuscita a organizzare reti di prossimità e a vincere quella battaglia contro i fondamentalismi di ogni sorta. È una vita piccola, illumina quelle di chi le sta intorno, lontano dalle urla oscene di Parlamento italiano contro le persone transgender, molto vicino alla solidarietà tra gli ultimi.
Nella posta trova ogni anno lettere da Dachau. Sono biglietti di auguri e inviti alle celebrazioni per la liberazione del campo di concentramento del 29 aprile 1945. Inizialmente erano destinati a Luciano Salani. In occasione del cinquantesimo anniversario della liberazione, Lucy si presenta fisicamente a Monaco. L’accoglienza diventa un momento di commozione e ovazione unico per la comunità europea. Da allora le lettere che arrivano sono declinate al femminile. È un frammento di storia che arriva dal Novecento. Eppure, non trova spazio nei libri di scuola, nelle serie tv, nei salotti buoni. Per entrare nella vita di Lucy Salani bisogna attraversare strade, carceri, forni crematori e manicomi. Entrare in quelle fessure di un mondo che da tempo è stato lasciato ai margini, invisibile soltanto perché abbiamo deciso di non guardarlo, non vogliamo. La voce e il corpo di Lucy sono stati ripresi per mesi da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini nel film-documentario “C’è un soffio di vita soltanto”.
 Il film è disponibile su SKY Documentaries e NowTV, in concomitanza con la Giornata della Memoria. Lucy Salani, la “nonna trans” d’Italia sopravvissuta a Dachau prima e all’Italia omotransfobica dopo, oggi ha 98 anni e abita a Bologna. Una storia tutta italiana ma ignota alla narrazione mainstream. «Quello che ho visto è allucinante. Mettere un essere vivente dentro a un forno». Come si fa a convivere con questi ricordi? Su quale mensola della coscienza si colloca l’immagine di quei giorni, per non pensarci più? «È dentro di me. Come quando leghi qualcosa che non scappa. Lo leghi stretto e ti senti schiacciato. Stanotte sarà un’altra notte». Ogni anno non manca il suo pellegrinaggio in quell’inferno, dove si è consumato la fine dell’umano. Di fronte a quello che resta del campo di Dachau una certezza: «È la nostra volontà che comanda il mondo». La storia di Lucy è un soffio di dolore, certo, eppure di luce che esplode nel sorriso di chi non si arrende, non lo farà mai. In un mondo ideale sarebbe celebrata e indicata come una coscienza che ci guida. In Un Soffio di vita soltanto ha raccontato di essersi prostituita. In quegli anni era l’unico modo per le persone transessuali di mantenersi ? «Sì, è stata una necessità perché le persone come me, per colpa dei pregiudizi della gente, non riusciva a trovare un lavoro. Nonostante spesso le stesse persone che criticavano me le ritrovassi la notte come clienti. La prostituzione comunque è qualcosa di umiliante, non di certo una salvezza».



Uno dei momenti più felici della sua vita?
«Sicuramente i momenti con Patrizia, mia figlia. Non era mia figlia biologica, ma un’adolescente rimasta orfana che è venuta a vivere a casa mia. L’ho cresciuta io. Lei mi chiamava “mamma” e per me era come una figlia. In tutte queste vite, sono stata anche madre».

Quanti amori ha vissuto?
«Ho avuto diversi fidanzati, sia da giovane, sia quando ero più grandicella. Conservo molti bei ricordi. Poi qualcuno mi ha lasciata, io ho lasciato a volte, qualcun altro è morto. È la vita».

A 96 anni, come si vede nel documentario, è tornata a Dachau. Che significato ha avuto tornare in quel luogo, molti decenni dopo, da sopravvissuta?
«È sempre difficile rivedere Dachau, quel luogo sa di sofferenza. Ci sono tornata tre volte e, ogni volta, rivedo davanti ai miei occhi quelle orribili scene. Ma non posso e non voglio dimenticare perché ho molto rispetto per la Memoria».

Oggi 27 gennaio è la Giornata della Memoria. Che cos’è per lei?
«La memoria è un dono, un’eredità di cui dovremmo far tesoro. L’ho fatto io in passato e ora molte persone lo stanno facendo con la mia storia e questo mi dà speranza. Senza la memoria la nostra comunità commetterebbe ancora più facilmente gli errori del passato».

La memoria purtroppo non ha valore per tutti: un assessore toscano nei giorni scorsi ha paragonato le regole anti Covid stabilite dal governo al nazismo.
«Finché certi discorsi verranno fatti ancora in luoghi istituzionali, saremo molto lontano dall’avere una speranza. Mi auguro che la memoria e il lavoro delle nuove generazioni potrà salvare la nostra comunità».

Dopo quello che ha visto a Dachau, pensa che valga sempre la pena vivere?
«Oggi, arrivata a quasi cento anni forse no, per me non vale più la pena, ho visto già tutto sia nel bene che nel male, ed è tempo per me di esplorare altri mondi».

Quante vite ha vissuto, Lucy?
«Decine di vite diverse: sono stato bambino, figlio e figlia, soldato, disertore e prigioniero, madre, prostituta e amante. Ma qualsiasi persona sia stata, posso dire con convinzione di essere stata sempre me stessa».




La forza del perdono il caso di Giuseppina Bakhita - DONNE E TRATTA: L’ALTRA BAKHITA da Diaconia "Santa Maria Egiziaca" in Bresso

 il  gruppo      facebook Diaconia "Santa Maria Egiziaca" in Bresso  riporta  la  storia   Bakhita Fortunata Quascé,


Alla forza del perdono che Giuseppina Bakhita attinge dall’incontro con Cristo si aggiunge il coraggio che Fortunata Bakhita Quascé attinge da Cristo per contrastare ostinatamente la schiavitù. Lei testimonia come una donna schiava che scopre la propria dignità divenga a sua volta “liberazione” per tante altre vittime.

da https://www.combonifem.it/

DONNE E TRATTA: L’ALTRA BAKHITA

Il 25 gennaio 2023 viene presentata a Roma la vita di Bakhita Fortunata Quascé, donna libera contro la schiavitù

Santa Bakhita è una religiosa sudanese dell’Ottocento, rapita da bambina in Darfur e venduta più volte come schiava. Nel 1882 viene comprata a Khartoum da Calisto Legnani, console italiano, che nel 1884, a causa della rivoluzione mahdista, lascia il Sudan e affida la ragazza a un suo amico che vive in Veneto. Lì Bakhita conosce le Suore canossiane di Venezia, si avvicina al cristianesimo, viene battezzata con il nome di Giuseppina Fortunata Margherita, e nel 1893 chiede di diventare 
canossiana per servire “il paron buono” dal quale si sentiva tanto amata: Gesù Cristo
.
Donna semplice, accogliente e libera da rancore, spende il resto della sua vita in Italia lavorando in cucina, in sacrestia e in portineria. Giovanni Paolo II la proclama santa nell’anno 2000, dopo il miracolo di una guarigione avvenuta in Brasile.
C’è un’altra Bakhita, anche lei sudanese, anche lei rapita dagli schiavisti in Kordofan e venduta al mercato. Quando santa Bakhita nasceva, lei era già a Verona, presso l’istituto di don Nicola Mazza, grande educatore di giovani indigenti ma brillanti. Presso le consacrate che lo affiancano come “mamme” dei piccoli nuclei di ragazze, lui dal 1852 accoglie anche bambini e bambine riscattate in Africa dalla schiavitù. La “moretta” Bakhita Fortunata Quascé, grazie alla “zia” Anna Rubelli, studia e diventa maestra, ma non rimane in Veneto. Nel 1873 riparte per l’Africa, alla volta del Sudan. Con altre “morette” educate in Italia, diventa educatrice di giovani africane che la missione cattolica di El Obeid libera dalla schiavitù, proprio nel Kordofan della sua travagliata infanzia.

Nel 1882, quando Giuseppina Fortunata Bakhita viene comprata da Calisto Legnani a Kahrtoum, Bakhita Fortunata Quascé diventa Pia Madre della Nigrizia a El Obeid. La rivoluzione mahadista travolge il Sudan, e nel 1883 anche lei viene fatta prigioniera con altre suore; con loro subisce percosse e maltrattamenti e più di loro, come africana, è esposta a una nuova schiavitù. Riesce a fuggire nel 1885 insieme a suor Maria Caprini, e nel 1888 è di nuovo maestra in Cairo, nella colonia antischiavista Leone XIII. Una donna tenace, mai più schiava, che continua a liberare tante altre ragazze.

Il suo miracolo è stato questo, e a lei si ispirano le Suore missionarie comboniane che da decenni contrastano nuove forme di schiavitù.
Dal 2015, la “Giornata di preghiera e azione contro la tratta” ricorre l’8 febbraio, giorno in cui si ricorda la “nascita al cielo” di santa Bakhita.
Quest’anno c’è anche un’altra Bakhita, deceduta il 12 ottobre 1899 in Cairo.

Alla forza del perdono che Giuseppina Bakhita attinge dall’incontro con Cristo si aggiunge il coraggio che Fortunata Bakhita Quascé attinge da Cristo per contrastare ostinatamente la schiavitù. Lei testimonia come una donna schiava che scopre la propria dignità divenga a sua volta “liberazione” per tante altre vittime.
Oggi, grazie a Maria Tatsos, la sua storia è raccontata nel libro: “Fortunata Bakhita Quascè. Una donna libera contro la schiavitù”, e merita attenzione.

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