In questi giorni
sentirete parlare sui
giornali , su internet e in tv
della festa ( ormai secondo me
divenuta commerciale ) in
maniera retorica e
ampollosa , Sic , al 90% in maniera ipocrita e
strumentale . Ebbene quest’anno eviterò , come l’anno scorso di farvi il pistolotto moralistico,e
vi racconterò la storia di un
personaggio femminile perché molte scoperte scientifiche e
innovazioni culturali , non dimentichiamolo , sono
dovute alle donne
.Buon 8 marzo a tutte le
donne in particolare a
voi che con i vostri pensieri profondi e le
vostre poesie , foto e
quant’altro fate crescere
questo blog . Perché come
dice Umberto Galimberti
su D ( www.dweb.it occorre essere registrati per leggere la
versione cartacea ) di
repubblica del 5\3\2005 : << [---] Perché
la storia che l’uomo inaugura con le sue imprese è appesa al filo che la donna tesse
nell’attesa. Se Penelope avesse smesso di tessere la
sua tela Ulisse avrebbe perso il filo che lo teneva legato alla sua Itaca.
Tutto quello che accade a Ulisse, tutto il suo peregrinare e viaggiare, in una
parola tutta la sua storia dipende dal filo che Penelope tesse. Perché la
storia è iscritta nella natura e guai a quell’uomo, a quella cultura, a quella
civiltà che tradisce questo rapporto e, come l’Occidente, perde l’orma del
mondo naturale. OR-MA TRA-DITA è quel che risulta mescolando tra loro le
sillabe di OR-DITO e TRA-MA. progresso, redenzione.[…]. >>
Racconto ,
riportando un’intervista fattagli
nel febbraio 2003
dal giornale dei Saveriani http://www.saveriani.bs.it/ , la figura
di Leah Tsemel
ex militante della black panthers Israeliane e ora avvocato difensore i
palestinesi accusati di terrorismo .
<< "No, non ho mai pensato di lasciare questo
paese". Leah Tsemel, avvocato e criminologa, quasi si sorprende della
domanda. Una vita professionale e famigliare, lontano da qui, non riesce
assolutamente ad immaginarla. Come lo scrittore David Grossman (v. MO 10/02) e
l'antropologo Jeff Halper (v. MO 1/03), ha la percezione di essere al posto
giusto nel momento giusto. "Proprio perché lo stato di Israele calpesta,
in modo sistematico, i diritti del popolo palestinese, il mio impegno ha un
senso. E la mia presenza è necessaria",dice Solo due avvocati
israeliani, due donne - Felicia Langer (oggi residente a Tübingen, in Germania,
dove ha accettato una cattedra universitaria e si è chiusa in esilio
volontario) e lei - sin dai primi anni '70 hanno accettato di rappresentare in
giudizio dei prigionieri politici palestinesi. Il che ha significato una
tensione e uno stress divoranti giorno su giorno, un lavoro mal pagato, una
carriera stroncata sul nascere. "Anche se una come me poi ce la fa a
vivere, perde comunque la sua reputazione. Per i suoi compatrioti è una
traditrice; negli arabi suscita sospetto". Eppure, ci sono famiglie
palestinesi che da tre generazioni vengono difese da Leah Tsemel. Si deve ad
israeliane/i come lei, se questo paese per certi versi può continuare a dirsi
democratico.
Com'è lavorare come avvocato in un paese che, sistematicamente, viola i
più fondamentali fra i diritti umani?
In un posto di questo genere, c'è bisogno di avvocati più che in
qualunque altro... Il lavoro è molto e di grande rilevanza. Data la situazione,
siamo continuamente coinvolti in nuove battaglie legali. Davanti a tribunali
militari, difendiamo palestinesi come singoli individui. Presso la Corte
suprema di giustizia israeliana, solleviamo questioni di principio. Infine nei
tribunali ordinari, ci battiamo quotidianamente per controversie di ogni tipo.
Quello che Jeff Halper (v. MO 1/2003) ha recentemente raccontato ai vostri
lettori in merito al tentativo di difendere i palestinesi cui sono state rase
al suolo le abitazioni, ha naturalmente un secondo capitolo, di carattere
giudiziario: dalle strade ai tribunali, la lotta prosegue.
Le è mai capitato di difendere uno dei firmatari della petizione
"refusenik" contro il servizio militare nei Territori occupati?
Sì, naturalmente. Ma fra le cose che faccio,
questa è una delle più semplici. Dico "semplice", perché l'imputato
non è un arabo. E dunque non è qualcuno che per la lingua che parla, per il
colore della sua pelle, per l'area culturale da cui proviene, ecc. è
considerato un terrorista. Quando è un palestinese ad essere coinvolto,
scattano automaticamente una serie di pregiudizi. Sin dall'inizio mi relaziono
con qualcuno che è considerato un "nemico dello stato"; e devo
insistere sul diritto di quel "nemico". Che non è cosa facile.
Un refusenik è, dopo tutto, un ebreo israeliano che va
nell'Esercito, ma consapevolmente rifiuta il servizio nei Territori. Fino a
questo momento, la posizione dello stato è stata molto lineare. Per me, ripeto,
sono dei casi semplici: possono andare a trovarli in carcere, mentre nel caso
del palestinesi questo è un diritto che mi viene molto spesso negato. Ancora:
il mio cliente, se è palestinese, è sottoposto a torture durante gli
interrogatori; le sue condizioni di prigionia sono difficilissime. A confronto,
un detenuto israeliano gode di privilegi.
Quanto tempo passa prima che lei possa incontrare un suo cliente
palestinese dopo l'arresto?
Legalmente posso vederlo, nei Territori occupati, 18 giorni dopo l'arresto. Non
è mai capitato, in tutta la mia carriera, che ciò avvenga prima. La famiglia
deve attendere un mese.
Per quale ragione ha scelto di fare proprio la criminologa?
Risale a trent'anni fa, questa decisione. Allora pensavo (e tuttora penso) che
i cosiddetti "criminali", quelli che stanno peggio, che dalla nascita
sono socialmente svantaggiati, avessero maggior bisogno di tanti altri di un
buon avvocato. Pochissime persone, all'epoca, erano disposte ad assumersi casi
così: era decisamente impopolare; si veniva attaccati in maniera pesante.
Dunque, bisognava essere molto coraggiosi per fare i criminologi. Non è mai stato
facile.
Si ricorda qualche storia in particolare?
Moltissime. Di una stessa famiglia, mi è
capitato di rappresentare il padre, il nonno, il figlio e oggi il nipote. È una
lunga lotta.
Veniamo alle elezioni del 28 gennaio. Chi pensa che le vincerà?
Molto probabilmente Sharon e, con lui, la
destra. Che forse dà una descrizione esatta dello stato in cui ci troviamo. La
maggioranza degli israeliani, oggi, è di destra. Si considerano dei
"patrioti". Non pensano ad alcuna reciprocità tra se stessi e i
palestinesi. Non pensano ad un futuro per entrambi. Hanno invece gettato le
basi per una relazione simile a quella che lega un padrone ad uno schiavo. Non
riconoscono il diritto all'indipendenza, all'autodeterminazione dei
palestinesi. E l'obiettivo principale resta quello di liberarsi del maggior
numero possibile di loro e di occuparne i territori. Questa è l'atmosfera che
si respira oggi in Israele.
Che cosa pensa di Ariel Sharon?
La
mia opinione è molto negativa. Penso che non stia solo guidando gli israeliani,
ma che li stia plasmando secondo il suo carattere, la sua natura. Intendo dire
che Ariel Sharon è Israele oggi. E Israele è lui. Su ciò non dobbiamo farci
illusioni. Questa è la vera faccia del nostro paese. Se si prende Sharon, l'intera
storia della sua vita, è l'immagine reale di quello che siamo. Molto più di
Rabin o di chiunque altro. Con questo non voglio dire che Rabin fosse un santo…
Eppure, c'è qualcosa di positivo nel fatto che sia lì ad occupare il posto di
premier. Perché fa esattamente ciò che Israele vuole che faccia. Lo fa alla
luce del sole. Non so dove tutto ciò ci porterà… Ma quel che è certo, è che non
ci sono maschere oggi sulla faccia.
Quanto l'Amministrazione americana sta influenzando quella israeliana?
Mai come oggi Washington e Tel Aviv sembrano marciare allo stesso passo…
Innanzitutto, dovremmo stabilire chi
influenza chi. Perché nemmeno questo è chiaro. A volte sembra che sia "la
coda a muovere il cane" e non il contrario. Certo è che, mai come oggi,
c'è stata una convergenza di interessi così perfetta fra le due parti: gli
americani vogliono mettere le mani sul petrolio iracheno; mentre gli israeliani
vogliono approfittare di questa situazione, aiutando gli Usa dietro una ricca
contropartita. Ambiscono, infatti, a diventare la base degli interessi
americani in Medio Oriente, o il loro ufficiale sostituto. Una nuova guerra
contro l'Iraq, più che mai, mette Tel Aviv nella condizione di agire con un
balzo in avanti ai danni della popolazione palestinese: eliminarli, occuparne
le terre è di sicuro "più facile", se c'è un conflitto in corso.
L'influenza americana, a suo avviso, sta in qualche modo distruggendo la
cultura israeliana?
È
molto difficile parlare di una "cultura israeliana". Forse una
"dis-cultura"… Quella israeliana è una cultura colonialista, fatta di
razzismo, che ricorda da vicino il regime sudafricano ai tempi dell'apartheid.
Dove vigeva la legge del più forte.
C'è una lotta in corso anche fra voi avvocati? La magistratura
israeliana, come tutte le magistrature, è percorsa da correnti politiche di
destra e di sinistra?
Naturalmente, in Israele ognuno è interessato
alla politica. È come se, vivendo qui, fosse impossibile restarne fuori, non
schierarsi. Se c'è però anche una lotta anche fra gli avvocati stessi? Non
proprio. C'è chi, come me, ha scelto di rappresentare i palestinesi davanti
allo stato; e, dunque, ha dibattiti con gli avvocati che difendono lo stato.
Questo cerca perennemente di giustificare le proprie violazioni: dalle
demolizioni delle case alle confische di terre, all'uso della tortura. E noi
non siamo riusciti ad organizzare un vasto movimento d'opinione pubblica.
Come mai?
Non sono nella corrente di maggioranza. Non
sono una sionista. Non posso promettere alla maggioranza sionista una soluzione
per loro praticabile. Contemporaneamente, la gente è influenzata da ciò che
essa chiama "terrore": il senso di insicurezza è profondamente
radicato negli israeliani. Di questo, essi incolpano i palestinesi; evitano di
guardare dentro se stessi. Quindi, è difficile. Non ho una vera alternativa da
offrire.
Qual è la reazione dell'opinione pubblica israeliana davanti all'alto
tasso di suicidi anche fra giovanissimi, denunciato recentemente dal quotidiano
Ma'ariv?
Sono spaventati da questa volontà di morte
che pervade la società israeliana. Ma non riescono a capire che sono essi
stessi gli artefici, tramite le tante rioccupazioni, le rappresaglie ai danni
dei palestinesi, di tanta disperazione: se i teen-ager si uccidono, è perché il
presente è un inferno. E il futuro non può essere tanto diverso.
Lei ha un sogno?
Certo, che ce l'ho. Ma sembra allontanarsi
ogni giorno di più. Vorrei che riuscissimo a vivere nell'equanimità, senza
repressione. Ma come ho detto: anziché realizzarsi sembra scomparire per
sempre. Non so quanto realistico sia sognare oggi…
Ha mai pensato di lasciare Israele?
No.
Il mio impegno ha più efficacia lì che altrove.
>>
alla prossima
In questi giorni
sentirete parlare sui
giornali , su internet e in tv
della festa ( ormai secondo me
divenuta commerciale ) in
maniera retorica e
ampollosa , Sic , al 90% in maniera ipocrita e
strumentale . Ebbene quest’anno eviterò , come l’anno scorso di farvi il pistolotto moralistico,e
vi racconterò la storia di un
personaggio femminile perché molte scoperte scientifiche e
innovazioni culturali , non dimentichiamolo , sono
dovute alle donne
.Buon 8 marzo a tutte le
donne in particolare a
voi che con i vostri pensieri profondi e le
vostre poesie , foto e
quant’altro fate crescere
questo blog . Perché come
dice Umberto Galimberti
su D ( www.dweb.it occorre essere registrati per leggere la
versione cartacea ) di
repubblica del 5\3\2005 : << [---] Perché
la storia che l’uomo inaugura con le sue imprese è appesa al filo che la donna tesse
nell’attesa. Se Penelope avesse smesso di tessere la
sua tela Ulisse avrebbe perso il filo che lo teneva legato alla sua Itaca.
Tutto quello che accade a Ulisse, tutto il suo peregrinare e viaggiare, in una
parola tutta la sua storia dipende dal filo che Penelope tesse. Perché la
storia è iscritta nella natura e guai a quell’uomo, a quella cultura, a quella
civiltà che tradisce questo rapporto e, come l’Occidente, perde l’orma del
mondo naturale. OR-MA TRA-DITA è quel che risulta mescolando tra loro le
sillabe di OR-DITO e TRA-MA. progresso, redenzione.[…]. >>
Racconto ,
riportando un’intervista fattagli
nel febbraio 2003
dal giornale dei Saveriani http://www.saveriani.bs.it/ , la figura
di Leah Tsemel
ex militante della black panthers Israeliane e ora avvocato difensore i
palestinesi accusati di terrorismo .
<< "No, non ho mai pensato di lasciare questo
paese". Leah Tsemel, avvocato e criminologa, quasi si sorprende della
domanda. Una vita professionale e famigliare, lontano da qui, non riesce
assolutamente ad immaginarla. Come lo scrittore David Grossman (v. MO 10/02) e
l'antropologo Jeff Halper (v. MO 1/03), ha la percezione di essere al posto
giusto nel momento giusto. "Proprio perché lo stato di Israele calpesta,
in modo sistematico, i diritti del popolo palestinese, il mio impegno ha un
senso. E la mia presenza è necessaria",dice Solo due avvocati
israeliani, due donne - Felicia Langer (oggi residente a Tübingen, in Germania,
dove ha accettato una cattedra universitaria e si è chiusa in esilio
volontario) e lei - sin dai primi anni '70 hanno accettato di rappresentare in
giudizio dei prigionieri politici palestinesi. Il che ha significato una
tensione e uno stress divoranti giorno su giorno, un lavoro mal pagato, una
carriera stroncata sul nascere. "Anche se una come me poi ce la fa a
vivere, perde comunque la sua reputazione. Per i suoi compatrioti è una
traditrice; negli arabi suscita sospetto". Eppure, ci sono famiglie
palestinesi che da tre generazioni vengono difese da Leah Tsemel. Si deve ad
israeliane/i come lei, se questo paese per certi versi può continuare a dirsi
democratico.
Com'è lavorare come avvocato in un paese che, sistematicamente, viola i
più fondamentali fra i diritti umani?
In un posto di questo genere, c'è bisogno di avvocati più che in
qualunque altro... Il lavoro è molto e di grande rilevanza. Data la situazione,
siamo continuamente coinvolti in nuove battaglie legali. Davanti a tribunali
militari, difendiamo palestinesi come singoli individui. Presso la Corte
suprema di giustizia israeliana, solleviamo questioni di principio. Infine nei
tribunali ordinari, ci battiamo quotidianamente per controversie di ogni tipo.
Quello che Jeff Halper (v. MO 1/2003) ha recentemente raccontato ai vostri
lettori in merito al tentativo di difendere i palestinesi cui sono state rase
al suolo le abitazioni, ha naturalmente un secondo capitolo, di carattere
giudiziario: dalle strade ai tribunali, la lotta prosegue.
Le è mai capitato di difendere uno dei firmatari della petizione
"refusenik" contro il servizio militare nei Territori occupati?
Sì, naturalmente. Ma fra le cose che faccio,
questa è una delle più semplici. Dico "semplice", perché l'imputato
non è un arabo. E dunque non è qualcuno che per la lingua che parla, per il
colore della sua pelle, per l'area culturale da cui proviene, ecc. è
considerato un terrorista. Quando è un palestinese ad essere coinvolto,
scattano automaticamente una serie di pregiudizi. Sin dall'inizio mi relaziono
con qualcuno che è considerato un "nemico dello stato"; e devo
insistere sul diritto di quel "nemico". Che non è cosa facile.
Un refusenik è, dopo tutto, un ebreo israeliano che va
nell'Esercito, ma consapevolmente rifiuta il servizio nei Territori. Fino a
questo momento, la posizione dello stato è stata molto lineare. Per me, ripeto,
sono dei casi semplici: possono andare a trovarli in carcere, mentre nel caso
del palestinesi questo è un diritto che mi viene molto spesso negato. Ancora:
il mio cliente, se è palestinese, è sottoposto a torture durante gli
interrogatori; le sue condizioni di prigionia sono difficilissime. A confronto,
un detenuto israeliano gode di privilegi.
Quanto tempo passa prima che lei possa incontrare un suo cliente
palestinese dopo l'arresto?
Legalmente posso vederlo, nei Territori occupati, 18 giorni dopo l'arresto. Non
è mai capitato, in tutta la mia carriera, che ciò avvenga prima. La famiglia
deve attendere un mese.
Per quale ragione ha scelto di fare proprio la criminologa?
Risale a trent'anni fa, questa decisione. Allora pensavo (e tuttora penso) che
i cosiddetti "criminali", quelli che stanno peggio, che dalla nascita
sono socialmente svantaggiati, avessero maggior bisogno di tanti altri di un
buon avvocato. Pochissime persone, all'epoca, erano disposte ad assumersi casi
così: era decisamente impopolare; si veniva attaccati in maniera pesante.
Dunque, bisognava essere molto coraggiosi per fare i criminologi. Non è mai stato
facile.
Si ricorda qualche storia in particolare?
Moltissime. Di una stessa famiglia, mi è
capitato di rappresentare il padre, il nonno, il figlio e oggi il nipote. È una
lunga lotta.
Veniamo alle elezioni del 28 gennaio. Chi pensa che le vincerà?
Molto probabilmente Sharon e, con lui, la
destra. Che forse dà una descrizione esatta dello stato in cui ci troviamo. La
maggioranza degli israeliani, oggi, è di destra. Si considerano dei
"patrioti". Non pensano ad alcuna reciprocità tra se stessi e i
palestinesi. Non pensano ad un futuro per entrambi. Hanno invece gettato le
basi per una relazione simile a quella che lega un padrone ad uno schiavo. Non
riconoscono il diritto all'indipendenza, all'autodeterminazione dei
palestinesi. E l'obiettivo principale resta quello di liberarsi del maggior
numero possibile di loro e di occuparne i territori. Questa è l'atmosfera che
si respira oggi in Israele.
Che cosa pensa di Ariel Sharon?
La
mia opinione è molto negativa. Penso che non stia solo guidando gli israeliani,
ma che li stia plasmando secondo il suo carattere, la sua natura. Intendo dire
che Ariel Sharon è Israele oggi. E Israele è lui. Su ciò non dobbiamo farci
illusioni. Questa è la vera faccia del nostro paese. Se si prende Sharon, l'intera
storia della sua vita, è l'immagine reale di quello che siamo. Molto più di
Rabin o di chiunque altro. Con questo non voglio dire che Rabin fosse un santo…
Eppure, c'è qualcosa di positivo nel fatto che sia lì ad occupare il posto di
premier. Perché fa esattamente ciò che Israele vuole che faccia. Lo fa alla
luce del sole. Non so dove tutto ciò ci porterà… Ma quel che è certo, è che non
ci sono maschere oggi sulla faccia.
Quanto l'Amministrazione americana sta influenzando quella israeliana?
Mai come oggi Washington e Tel Aviv sembrano marciare allo stesso passo…
Innanzitutto, dovremmo stabilire chi
influenza chi. Perché nemmeno questo è chiaro. A volte sembra che sia "la
coda a muovere il cane" e non il contrario. Certo è che, mai come oggi,
c'è stata una convergenza di interessi così perfetta fra le due parti: gli
americani vogliono mettere le mani sul petrolio iracheno; mentre gli israeliani
vogliono approfittare di questa situazione, aiutando gli Usa dietro una ricca
contropartita. Ambiscono, infatti, a diventare la base degli interessi
americani in Medio Oriente, o il loro ufficiale sostituto. Una nuova guerra
contro l'Iraq, più che mai, mette Tel Aviv nella condizione di agire con un
balzo in avanti ai danni della popolazione palestinese: eliminarli, occuparne
le terre è di sicuro "più facile", se c'è un conflitto in corso.
L'influenza americana, a suo avviso, sta in qualche modo distruggendo la
cultura israeliana?
È
molto difficile parlare di una "cultura israeliana". Forse una
"dis-cultura"… Quella israeliana è una cultura colonialista, fatta di
razzismo, che ricorda da vicino il regime sudafricano ai tempi dell'apartheid.
Dove vigeva la legge del più forte.
C'è una lotta in corso anche fra voi avvocati? La magistratura
israeliana, come tutte le magistrature, è percorsa da correnti politiche di
destra e di sinistra?
Naturalmente, in Israele ognuno è interessato
alla politica. È come se, vivendo qui, fosse impossibile restarne fuori, non
schierarsi. Se c'è però anche una lotta anche fra gli avvocati stessi? Non
proprio. C'è chi, come me, ha scelto di rappresentare i palestinesi davanti
allo stato; e, dunque, ha dibattiti con gli avvocati che difendono lo stato.
Questo cerca perennemente di giustificare le proprie violazioni: dalle
demolizioni delle case alle confische di terre, all'uso della tortura. E noi
non siamo riusciti ad organizzare un vasto movimento d'opinione pubblica.
Come mai?
Non sono nella corrente di maggioranza. Non
sono una sionista. Non posso promettere alla maggioranza sionista una soluzione
per loro praticabile. Contemporaneamente, la gente è influenzata da ciò che
essa chiama "terrore": il senso di insicurezza è profondamente
radicato negli israeliani. Di questo, essi incolpano i palestinesi; evitano di
guardare dentro se stessi. Quindi, è difficile. Non ho una vera alternativa da
offrire.
Qual è la reazione dell'opinione pubblica israeliana davanti all'alto
tasso di suicidi anche fra giovanissimi, denunciato recentemente dal quotidiano
Ma'ariv?
Sono spaventati da questa volontà di morte
che pervade la società israeliana. Ma non riescono a capire che sono essi
stessi gli artefici, tramite le tante rioccupazioni, le rappresaglie ai danni
dei palestinesi, di tanta disperazione: se i teen-ager si uccidono, è perché il
presente è un inferno. E il futuro non può essere tanto diverso.
Lei ha un sogno?
Certo, che ce l'ho. Ma sembra allontanarsi
ogni giorno di più. Vorrei che riuscissimo a vivere nell'equanimità, senza
repressione. Ma come ho detto: anziché realizzarsi sembra scomparire per
sempre. Non so quanto realistico sia sognare oggi…
Ha mai pensato di lasciare Israele?
No.
Il mio impegno ha più efficacia lì che altrove.
>>
Buon 8 marzo all'anno prossimo