di Enrico Fierro
Il faro del blindato ha illuminato con una luce accecante la macchina sulla quale viaggiavano Giuliana Sgrena, Nicola Calipari - entrambi seduti sul sedile posteriore - un maggiore dei carabinieri seduto davanti e un iracheno collaboratore del Sismi alla guida del veivolo. Non è un fuoristrada blindato, ma una macchina come le tante che circolano a Baghdad. Il gruppo non voleva dare nell’occhio, per questo qualcuno di loro aveva indossato abiti arabi. Dalla proiezione del fascio di luce sparato dal blindato americano - un Humvee corazzato - alle raffiche di mitra non sono passati miniuti, neppure secondi. Solo attimi. Accendere la luce, premere il grilletto: si è trattato di una azione unica. Tre-quattrocento colpi, non solo di calibro pesante, ma anche di armi leggere, hanno investito la macchina degli italiani, quasi fino a spaccarla in due.
Questo raccontano a caldo le «fonti» dei servizi accorse sulla strada per l’aeroporto civile di Baghdad dopo la sparatoria che è costata la vita a Nicola Calipari, il ferimento di due agenti del Sismi e della giornalista Giuliana Sgrena. Questo ha dichiarato la stessa Sgrena interrogata ieri dai magistrati romani Franco Ionta e Pietro Saviotti, che indagano sulla «tragica fatalità» di venerdì sera. L’ipotesi di reato è omicidio volontario aggravato e triplice tentato omicidio, il fascicolo, ovviamente, è ancora vuoto, non ci sono indagati. Abbondano, però, le versioni contrastanti, i tentativi di insabbiamento. Sostengono gli americani che l’auto con a bordo l’ostaggio italiano appena liberato viaggiasse a velocità sostenuta. «Non è vero - dichiarano la Sgrena e l’agente del Sismi ai pm romani - : la nostra auto aveva una andatura regolare e non suscettibile di equivoci». E non è vero che la macchina non sia fermata ad un chek-point. «A spararci addosso - dicono i due - è stata una pattuglia che ha sparato dopo averci illuminato con un faro». Gli americani, invece, parlano di «procedure rispettate» e dicono che i militari di pattuglia «hanno tentato più volte di chiedere all’autista di fermarsi». Non è andata così, stando ai racconti dei superstiti. Dice Giuliana Sgrena: «Stavo parlando con Nicola Calipari, lui mi raccontava cosa era successo in Italia nei giorni del mio sequestro. All’improvviso ci è arrivata addosso una pioggia di fuoco...». Le regole di ingaggio per i militari americani impegnati in pattugliamenti e posti di blocco prevedono che se un automezzo ignora le richieste di rallentare o di fermarsi, i soldati rispondono con spari di avvertimento. Solo se la macchina decide di non fermarsi, arriva l’ordine di sparare direttamente sul velivolo. Venerdì sera a Baghdad non è andata così. I mitra pesanti del blindato e i fucili mitragliatori dei soldati sono stati puntati direttamente sull’automobile che trasportava agenti e ostaggio italiani.
«E’ stata una cosa terribile, il fuoco continuava, il nostro autista non riusciva neanche a spiegare che eravamo italiani», racconta la Sgrena. Hanno sparato all’impazzata e poi hanno circondato quell’auto con un morto e tre feriti a bordo impedendo a chiunque di avvicinarsi, è il racconto di chi è accorso subito sul luogo della sparatoria. I soldati americani non si sono fidati fino all’ultimo, tanto che ai feriti è stato impedito l’uso dei telefoni satellitari e dei cellulari che avevano a bordo. Alcune fonti sostengono che gli apparecchi sono stati sequestrati, altre che che ai tre italiani sia stato imposto di spegnerli. Perché gli americani hanno sparato sulla macchina degli agenti segreti italiani? Perché nessuno, né il Dipartimento di Stato, né il comando Usa e l’intelligence presenti a Baghdad, sapevano dell’operazione condotta dal Sismi, è la tesi. Il Washington Post cita una fonte ufficiale del Dipartimento di Stato e scrive che «gli italiani non hanno informato né l’ambasciata americana a Baghdad né il comando militare Usa del rilascio della Sgrena, nonostante un coordinatore americano sulla questione degli ostaggi avesse lavorato con loro sul caso». Tesi sostenuta anche da alcune fonti del governo iracheno citate ieri da Aki-Adnkronos-international. Parla un alto esponente del governo di Baghdad: «Gli italiani non avevano avvertito noi né gli americani perché temevano che gli avremmo impedito di portare avanti le trattative con i terroristi. Temevano un intervento militare proprio al momento della consegna dell’ostaggio». Un esponente del ministero dell’Interno iracheno si spinge a parlare anche di un eventuale riscatto pagato ai rapitori, «una somma enorme», il tutto tenendo all’oscuro le autorità irachene, «e questo non ci fa piacere». Come sono andate le cose, altre fonti, lo raccontano in modo diverso. Gli americani sapevano che il gruppo di Nicola Calipari era, come si dice in gergo, in «teatro». Sapevano, cioè, che il funzionario del Sismi era in Iraq per dare gli ultimi ritocchi alla trattativa per la liberazione di Giuliana Sgrena. Agli americani, però, non erano stati forniti tutti i dettagli dell’operazione, soprattutto la data e il luogo del rilascio della giornalista. Una misura prudenziale, perché il Sismi temeva che le forze speciali Usa potessero organizzare un blitz per la cattura dei rapitori. Una ipotesi vista come una sciagura, un bagno di sangue con il rischio che Giuliana Sgrena ci rimettesse la vita. E non è un mistero per nessuno che sul terreno iracheno intelligence italiana e quella Usa siano ai ferri corti. Per gli americani con i terroristi e i rapitori non si tratta, per gli italiani, se necessario, sì. Anche i francesi non amano la linea dura. L’esperienza della lunga detenzione dei due reporter francesi, Christian Chesnot e Geroges Malbrunot, rapiti il venti agosto del 2004 e rilasciati dopo quattro mesi, la dice lunga sul conflitto sotterraneo in corso in Iraq tra intelligence alleate. Perché ogni volta che gli 007 parigini riuscivano a localizzare l’area dove i terroristi tenevano prigionieri i due reporter, arrivavano gli americani «saturandola» con operazioni e blitz militari ad hoc che facevano saltare ogni possibile trattativa. Gli americani, quindi, sapevano della presenza degli 007 italiani, ma sono stati informati dell’operazione solo quando la Sgrena era già in macchina. Libera. A trattativa finita e quando i rischi di un blitz erano ormai scongiurati. Una situazione delicata, come si vede, tanto che Nicola Calipari ha voluto gestirla direttamente, senza delegare altri agenti suoi sottoposti.
Per il resto, fonti del Sismi e fonti diplomatiche italiane parlano di una comunicazione tra l’ambasciata italiana a Baghdad e il comando militare Usa nella quale gli americani venivano addirittura informati del passaggio dell’auto. Ci sono poi le telefonate fatte da Nicola Calipari dalla macchina mentre si dirigeva verso l’aeroporto. Almeno tre chiamate, due in Italia, a Palazzo Chigi, una a Baghdad. Se queste informazioni risulteranno vere nel corso dell’inchiesta giudiziaria, vorrà dire che gli americani sapevano - in ritardo per quanto riguarda i dettagli dell’operazione - ma sapevano che su quella macchina viaggiavano agenti segreti italiani e un ostaggio liberato. Se sapevano non hanno informato bene tutte le pattuglie, mobili e fisse ai posti di blocco, che sorvegliano l’autostrada che dalla città porta all’aeroporto civile della capitale irachena. Dove c’era l’aereo italiano che avrebbe dovuto riportare indietro l’intero gruppo. Un altro mistero. Reso ancora più fitto da una frase detta ieri dal ministro dell’Ambiente Altero Matteoli. «Pare che l’arrivo dell’aereo che doveva prendere la giornalista in un’ora così insolita, abbia messo in allarme i soldati americani; pare che uno dei motivi sia questo...». Parole buone per giustificare la gaffe fatta ieri l’altro dal ministro degli Esteri Fini, che a caldo ha parlato di «tragica fatalità», non certo per portare grandi contributi alla chiarezza. Perché, spiegano fonti dell’intelligence abbastanza irritate per la girandola di dichiarazioni governative e per l’atteggiamento del Dipartimento di Stato Usa (che anche ieri parlava di «sfortunato incidente»), «a Baghdad, dove gli aeroporti sono controllati dagli americani, non può atterrare neppure un aquilone senza preavvisi, permessi e controlli rigidissimi». Quindi anche sul perché della presenza di quell’aereo italiano militari e intelligence Usa sapevano.
Troppi misteri, resi ancora più inquietanti dalle dichiarazioni di Pier Scolari sugli «avvertimenti» che Giuliana Sgrena avrebbe ricevuto dai suoi rapitori poche ore prima del rilascio: «Stai attenta perché gli americani ti vogliono uccidere...». Forse si tratta di una suggestione, di una frase capita male, di una forzatura dettata dall’emozione. Ma anche questo è un mistero tra i tanti. Che toccherà all’inchiesta giudiziaria appurare. La speranza è che la morte di Nicola Calipari non subisca l’oltraggio delle vittime di un altro «sfortunato incidente» provocato dalle truppe Usa, quello del Cermis.
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