Trapani, mamme fanno da baby sitter alla bimba dell’ambulante donna sulla spiaggia L'italiano non ha bisogno di grandi gesti, la solidarietà femminile non ha colore o etnia. Ci si aiuta con naturalezza e spontaneità
Trapani, mamme fanno da baby sitter alla bimba dell’ambulante L’Italia quella bella oggi la racconta Desirè Nica, una ragazza di Roma che, in vacanza a Trapani, ha potuto testimoniare come la parte migliore del nostro Paese esiste e non si vergogna di fare la parte da “buonista”. L’episodio, di cui lei stessa è protagonista, è accaduto sulla spiaggia del litorale siciliano. “Sono le 13.00, e arriva sulla spiaggia uno dei tanti ambulanti che cercano di vendere qualcosa”, scrive in un post su Facebook Desirè. “Solo che stavolta è donna. Solo che stavolta è mamma. Ha una cesta enorme che tiene in bilico sulla testa, con dentro tutto ciò che vorrebbe vendere, e dietro, legata sulla fascia, la sua bambina. Avrà 2 anni e mezzo, 3 al massimo. Sta sotto al sole in groppa alla sua mamma mi chiedo da chissà quante ore”. Nonostante in questi mesi ci siamo dovuti abituare a narrazioni in cui l’odio e il razzismo sembrano aver avuto la meglio, c’è una parte del Paese che ha tutt’altra propensione e di fronte alle difficoltà del prossimo – italiano o straniero che sia – prova disagio e desiderio di aiutare.
“Guardo mia figlia e penso che sono 3 ore che mi affanno per farle scegliere cosa mangiare, per coprirle la testa dal sole, per stare attenta che non beva acqua troppo fredda”, scrive Desirè. “Dico a Gabri che vado a comprare qualcosa da quella mamma e che vado a portare un po’ di frutta fresca alla bimba e darle qualcosa da mangiare. Ma non c’è stato bisogno di fare niente. Perché oggi l’Italia bella è stata quella delle mie vicine di ombrellone che tutte insieme hanno detto a quella mamma come loro, di andare a lavorare tranquilla, perché alla sua bambina ci avrebbero pensato loro”. “Ed è proprio così che è andata. La mamma ha continuato il suo giro per le spiagge, e la piccola ha mangiato insieme a tutti i nostri figli sotto l’ ombra del ristorante dello stabilimento, ha giocato sulla riva, ha fatto i gavettoni insieme agli altri bambini della spiaggia. E io oggi sono felice, perché è stato davvero bello vedere tutto questo”. Già, perché l’italiano non ha bisogno di grandi gesti, la solidarietà femminile non ha colore o etnia. Ci si aiuta con naturalezza e spontaneità.
dovrebbe essere la norma visto che
Dopo che la storia è stata diffusa in rete Dall'Ogliastra, un'altra turista, Marina Carta, ha raccontato che "da anni un'ambulante lascia suo figlio a giocare con i nostri", accompagnando anche in questo caso le sue parole con un'immagine di bimbi che giocano sereni tutti insieme sulla spiaggia sarda. E pare che non sia un caso isolato: "Stessa situazione. Golfo di Baratti. La bimba della venditrice ambulante gioca con i miei nipoti mentre la mamma fa il giro della spiaggia. È nata un'amicizia", ha scritto Luisa Giolli. continua qui su https://www.fanpage.it/attualita
Ecco, guardateli. Guardate gli sposi, quel giovane uomo, quella giovane
donna, osservate quanto sono belli, sono belli da far piangere, ad aver
voglia di piangere per la bellezza. Del resto, quale sposa non è bella
il giorno delle sue nozze, e quale sposo non lo è mentre se la rimira
dall'alto del suo radioso orgoglio. Solo che loro sono belli oltre
misura, Rossella O'Hara diresti di lei, un principe diresti di lui, sono
così belli che riescono persino a imporre unicità alla fotografia più
comune tra tutte le immagini di circostanza; quante centinaia di milioni
di immagini come questa dormono in vecchie scatole da scarpe e
centenari album di famiglia sparsi per tutto il mondo. Non questa,
questa è viva, e i due sposi guardano ancora il mondo e dal mondo si
fanno guardare lassù in alto nella scansia tra le focacce e i pandolci
nel negozio di un fornaio. Continuate a dare un'occhiata ai due sposi
per favore, cercate di indagare nei particolari, perché nei particolari
vive una storia ancora più grande e più bella di come possa sembrare.
Difficile, capisco, l'immagine è rozzamente riprodotta con la fotocamera
di un telefono, i dettagli che contano sono materia nascosta e anche se
fosse evidente, ignota. Il vestito della sposa è di seta, la seta di un
paracadute di un reggimento aerotrasportato inglese, il vestito dello
sposo è di pesante stoffa di lana, la stoffa di una divisa del corpo
delle SS naziste; e il bouquet di fiori della sposa, quel grande bouquet
di così vividi colori, è fatto di fiori di carta, la carta velina della
modulistica dell'ufficio amministrativo del campo di concentramento e
lavoro forzato di Helmstedt, Bassa Sassonia. Il matrimonio è stato
celebrato e certificato il 3 luglio 1945 dal comandante dei
paracadutisti inglesi che lo hanno liberato, confermato due giorni dopo
con rito religioso amministrato da un prete cattolico.
Il forno si chiama da Gianchettu, Bianchetto, perché questo è il nome
del fornaio, e il suo negozio è nel carruggio di un borgo della Riviera
di Levante dove vado a fare i bagni da tempo immemore. Mi piace portarmi
a mare la mattina presto, mi piace essere il primo piede a scompisciare
la spiaggia di ghiaietta che i bagnini hanno appena finito di
pettinare, mi piace nuotare fino a non poterne più, asciugarmi in fretta
e poi passare da Gianchettu a prendermi una fetta di focaccia lunga un
braccio e larga mezzo, mangiarmela su una panca all'ombra scarsa di un
oleandro, leccarmi le dita dell'olio che è olio buono e buttarci dietro
mezzo bicchiere di un qualche vermentino del bar di fronte. Si fa presto
a dire focaccia, ma impastare, lievitare e cuocere una focaccia di
Riviera nell'aria madida di salmastro e non farne venir fuori una
flaccida, aspra, rugginosa lasagna, ma una sfoglia tenera e croccantina,
non è faccenda che ci riescono in tanti. Gianchettu, sì, e quella
focaccia è un gran sollievo alle inappetenze della calura, ai gastrici
dinieghi della macaia. Chissà se lui lo sa che il suo forno è una cura e
un riparo, lui se ne sta là dietro in canottiera e berrettino a
rimestare e infornare. Ma ogni tanto viene di qua per sorridere a sua
moglie che sta al banco, le sorride per riposarsi un po', e gli deve
piacere così tanto che gliene avanza anche per sorridere alla coda che
aspetta scontrosa e sudaticcia la sua fetta di focaccia cadauno.
Gianchettu è un fornaio sorridente, una rarità in assoluto, un'unicità
tra i fornai rivieraschi; lo vedo sorridere a sua moglie da quando passo
dal forno, diciamo vent'anni. E fa bene Gianchettu, non foss'altro
perché la signora Teresa ha due occhi azzurri bellissimi e distanti, e
uno sguardo in quei suoi occhi di quelli che ti viene da pensare che un
principe straniero potrebbe da un momento all'altro prendersela e
portarla chissà dove. Gli occhi della signora Teresa sono gli occhi
della sposa del campo di Helmstedt.
È per via di quegli occhi, e, certo, anche un po' per quella focaccia
così buona, per via del fornaio di Riviera singolarmente sorridente, che
al termine di un ventennale tirocinio mi son preso la confidenza di
chiedere alla Teresa chi fossero mai quei due sposi lassù dietro al suo
banco. Quei due sposi sono suo padre Tullio e sua madre Theresa. E
questo mi ha raccontato Teresa, la moglie del fornaio, nata Leocadia e
detta Lola, che però si chiama Teresa perché ha voluto prendersi il nome
di sua madre che non ha mai conosciuto perché è morta mettendola al
mondo; tutto quello che sa di lei glielo hanno detto le fotografie e le
storie di suo padre.
Dunque mi ha raccontato che sua madre Theresa è nata nella città polacca
di Pabianitz da una cattolicissima famiglia di commercianti. Pabianitz è
una città colpevole, ha inutilmente e sanguinosamente resistito alle
truppe germaniche d'occupazione, e dunque è severamente punita con la
deportazione in massa dei civili; Theresa è prelevata dalle SS
all'uscita da scuola, ha appena finito il corso di dattilografia, ha
ancora da compiere quattordici anni, è destinata al campo di Helmstedt.
Il campo è su una miniera di salgemma, ben in fondo nella miniera ci
sono i laboratori per la fabbricazione di componenti del prototipo di
un'arma segreta della Luftwaffe; il lavoro nella miniera è per i
deportati politici più pericolosi, quello nel laboratorio per i più
specializzati, gli uffici sono destinati alle ragazze come Theresa.
E mi ha raccontato che Tullio è nato nel '17 a Monterosso, in Riviera di
Levante, da una famiglia di sarti e barbieri dove i maschi sapevano
fare l'uno e l'altro mestiere assieme e anche dipingere e scrivere
poesie e anelare alla rivoluzione socialista. Tullio è partito alla
guerra da marinaio e dopo l'8 Settembre se n'è tornato a casa; quando i
fascisti sono andati a prenderlo per arruolarlo nella Repubblica
Sociale, lui si è fatto trovare in casa, era una testa calda. Lo hanno
deportato a Fossoli; di quel campo non ha mai voluto parlarne, solo,
morendo, ha lasciato sul comodino dell'ospedale un biglietto in cui
diceva di un orrore che non poteva dimenticare, per il resto ha solo
raccontato che a salvarlo dalla morte è stato il suo mestiere, un sarto è
sempre di grande utilità in un posto dove ci sono tanti uomini in
divisa, specialmente poi se è anche un barbiere.
Il campo di Helmstedt non è un campo di sterminio anche se c'è
l'edificio per le eliminazioni, il vitto è uguale per tutti, un filone
di pane da dividere tra i sedici componenti della baracca e una patata
con l'acqua di bollitura a testa al giorno; nel campo tutto era proibito
tranne eseguire gli ordini, Tullio ha portato per tutta la vita le
cicatrici delle percosse che ha ricevuto disobbedendo alla regola, il
suo nome era un numero, o altrimenti "tu, merda". Tullio ha raccontato
che il primo ricordo che aveva del campo era il canto di un gruppo di
polacchi, cantavano inni sacri polacchi mentre le guardie lì
picchiavano, prendevano le bastonate e continuavano a cantare, cantare
era proibito, era proibito anche pregare a voce alta. Era proibito
festeggiare anche il Natale, e per questa ragione Tullio ha conosciuto
Theresa; quella polacchetta era una testa calda e nel Natale del '44 era
diventata famosa in tutto il campo perché s'era risaputo che,
rischiando la morte, aveva rubato un rametto da un albero e con la carta
colorata rubata negli uffici aveva allestito un alberello natalizio
nella sua baracca, era furbissima e riusciva a nasconderlo alle
ispezioni giornaliere. Così Tullio si è intestardito di conoscerla la
testa calda polacca, e ci è riuscito trovando il modo di arrivare
all'ufficio dove dattilografava. L'ha vista, era bellissima e piena di
fascino ribaldo, e si è innamorato; e siccome era anche lui un uomo
molto bello e molto affascinante, anche Theresa si è innamorata, così,
in un lampo. Tullio ha raccontato che la cosa strana in quel campo dove
nessuno pensava a altro che a sopravvivere, dove essere buoni d'animo
era come suicidarsi, fu la gran complicità generale per quegli
innamorati, così che riuscirono a scambiarsi persino dei biglietti, e a
promettersi, e a sopravvivere fino alla liberazione.
Naturalmente il vestito della sposa e il suo lì ha tagliati e cuciti
Tullio. Che ha preso la sua sposa e se l'è portata in Riviera, e alla
stazione c'era tutto il paese ad aspettarli, in testa la cara, vecchia
mamma, che per prima cosa si è schiantata sul figlio con uno schiaffone
tremendo, perché, con tutto quello che gli era successo, Tullio si era
dimenticato di aver lasciato al paese una promessa sposa, nientemeno che
la nipote del parroco, e queste cose non si fanno. E poi sono vissuti
felici e contenti, tanto da fare una figlia e poi un'altra, e l'altra è
la signora Teresa che non ha mai conosciuto sua madre e quello che sa di
lei sono le fotografie e i racconti. Che è quello che so io e che ora
sapete voi. E tutti quanti sappiamo da quelle fotografie un'altra cosa,
sappiamo che persino nella più vigilata fortezza dell'inumanità, nel più
schifoso tabernacolo del sadismo, nel tempo dove niente di buono è
ammissibile e plausibile, ecco che anche lì non tutto è perfettamente e
eternamente predisposto e stabilito. Questo nel caso che al tempo
presente dovessimo sentirci deprimevolmente impotenti.
Una squadra della 36° Brigata Garibaldi (1944 - 1945). Credit: Fototeca Gilardi
I ragazzi che fecero la Rivoluzione
L’ordinamento repubblicano affonda le radici nei
principi dei tanti giovani che scelsero la Resistenza e la libertà. Una
storia che non si può dimenticare
di ALBERTO ASOR ROSA
Quando ho letto le prime trenta-quaranta pagine di questo libro di Giuseppe Filippetta, - L'estate che imparammo a sparare (Feltrinelli, pagg. 302, euro 22) - mi sono detto che sarei andato avanti fino alla fine come un treno. Si tratta, come risulta evidente anche dal titolo, della ricostruzione precisa e circostanziata, ampia ma anche facilmente interpretabile nei suoi significati più profondi, della lotta partigiana in Italia, dalle sue drammatiche e insieme esaltanti origini nel settembre 1943 alla sua conclusione, altrettanto esaltante, fra la primavera del 1945 e il lungo svolgimento del 1946.
Il libro è talmente ricco da esser quasi impossibile una sua sintesi, sia pure rapidamente argomentata e ragionata. Dirò perciò più semplicemente quali sono stati i suoi aspetti che mi hanno colpito di più. Il primo riguarda la presenza prioritaria nel racconto di figure di partigiani autentici, identificabili con nome e cognome, e storie proprie nell'ampio arco della resistenza nazionale, dalla Maiella in Abruzzo alle Alpi, di rango superiore e dirigenziale, oppure, forse anche più spesso, della massa dei militanti comuni, di ogni censo e condizione. Questo vuol dire che, con attitudine anche narrativa estremamente efficace, Filippetta coglie e valorizza nell'originaria scelta partigiana una sorta di rivendicazione, spontanea, della propria identità individuale popolare, contro l'affermazione bruta del diritto alla violenza e alla sopraffazione. Si vedano ad esempio, nelle pagine di esordio, le biografie di due partigiani di zone diversissime d'Italia, Vincenzo Cozzani diMontepulciano in Toscana, e Mario Grisendi di San Polo d'Enza nel Reggiano. Scrive Filippetta: "Nelle scelte di Cozzani e di Grisendi non c'è traccia di Stato e di regni, c'è la decisione sovrana di uomini che, venuto meno ogni ordine, scelgono loro quando, contro chi e per quale scopo fare la guerra e diventano partigiani con l'obiettivo di porre fine alla paura e all'ingiustizia del presente e di aprire a sè e agli altri il futuro".
Quando viene meno l'ordine costituito, - quello bene o male rappresentato in Italia dalla tradizione monarchica, a un certo punto persino intrecciata con un disordine istituzionalizzato e brutale come quello del fascismo, - una quota consistente di giovani italiani non sta lì ad aspettare, inerme, subalterna e servile, che un'altra potenza esterna costruisca un nuovo ordine, cui assoggettarsi, ma prende le armi per costruirlo a modo proprio. Del resto, la ricostruzione storica e il discorso argomentativo di Fileppetta non si fermano qui: tutt'altro. Il segnale della traccia che l'autore segue è indicata con precisione dal sottotitolo dell'opera: "Storia partigiana della Costituzione". E cioè: senza tradire il rispetto delle priorità rappresentate in questa storia dalle scelte di Cozzani e di Grusendi, Filippetta dimostra come, attraverso una scalarità di scelte e di tendenze, si arrivi in quei lunghi mesi di lotta a formulare i primi lineamenti del processo costituente, il voto per la Costituente, i tratti fondamentali della nostra Costituzione. Su questi punti Filippetta non potrebbe essere più chiaro: "La Costituzione repubblicana è il risultato di processi storici e giuridici che investono un arco di tempo più vasto di quello della Costituente e gli ordinamenti creati nel territorio dalle bande partigiane, le zone libere e le repubbliche sono tutti ordini giuridici instaurati in vista della creazione stabile e definitiva di un nuovo ordine costituzionale". Altrove parla della "Costituzione dei fucili".
"La Costituzione dei fucili"! Nella ricostruzione di Filippetta c'è indubbiamente la traccia di altri autorevoli interpreti di quel passato, da Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, da Guido Quazza a Giovanni De Luna; ma, se non erro il nostro autore porta fino alle ultime conseguenze il discorso. Un tratto significativo, - ma anche commovente - del suo rapporto con questa materia è consegnato alle ultime pagine del libro. Filippetta ricorda che già nel 1946 un maestro del diritto amministrativo, Giovanni Miele, aveva puntato il dito accusatore contro quei numerosi giuristi che tranquillamente si erano adattati al cambiamento dei regimi, dedicando il suo saggio Umanesimo giuridico a due suoi studenti dell'Università di Pisa, caduti nella Resistenza: Francesco Pinardi e Rurik Spolidoro. Sono gli stessi cui ora, - evidentemente con scelta non casuale, - Filippetta dedica il suo libro. Come mai? Anche qui Filippetta è di un'estrema chiarezza. Perché "nella lunga stagione del 1943-1947 il nuovo diritto repubblicano nasce innanzi tutto dalle vite costituenti dei tanti che, insieme a Rurik e Francesco, attraverso le bande partigiane affermano e instaurano con le loro scelte e le loro azioni... I principi e le regole dell'ordine democratico della libertà... Dimenticarlo significherebbe rinunciare al progetto di liberazione e di emancipazione umana che la Costituzione del 1947 ci ha affidato e privarci del nostro futuro di cittadini repubblicani". Sono le ultime parole del libro. Talvolta, quando ci accade anche inconsapevolmente di misurare quelle scelte e quelle giovani vite di combattenti partigiani con il nostro presente di oggi, ci viene da piangere.
Una militanza fatale
Novecento. «Un
amore partigiano», il libro di Mirella Serri che racconta la storia
oscura di Gianna e Neri, uccisi dai loro stessi compagni e scomparsi nel
nulla
Quella di Gianna e Neri è una storia oscura della Resistenza. La ricostruzione appassionata che ne fa Mirella Serri (Un amore partigiano, Longanesi, pp. 217, euro 16,50) consegna al lettore un’empatia forte con i due protagonisti: lei, all’anagrafe Giuseppina Tuissi, che diventa partigiana dopo che i fascisti uccidono il fidanzato, torturata a sua volta in una prigione di Salò, addetta all’inventario del cosiddetto «oro di Dongo» sequestrato ai gerarchi, accompagnatrice di Claretta Petacci nel suo ultimo viaggio (e l’amante di Mussolini viene dipinta come una donna antisemita, ambiziosa e priva di scupoli, smontando ogni stereotipo assolutorio); lui, vero nome Luigi Canali, a capo della Brigata Garibaldi che arrestò il Duce, secondo qualcuno l’uomo che diede il colpo di grazia al gran capo del fascismo (ma per le cronache l’esecutore materiale fu un altro partigiano, Walter Audisio, che a più riprese ha raccontato come avvenne l’esecuzione). L’autrice ne sposa la causa e aderisce all’idea che tra i due ci fosse più che una comunanza politica, un’ipotesi suffragata dalle parole della vedova di Canali quando, nel 2002, il Comune di Como ha inaugurato una scalinata intitolata ai due combattenti per la Liberazione dal nazifascismo: «Per quel che mi riguarda, Gianna è la donna che mi ha portato via un marito che mi amava». Ma è soprattutto una storia dal tragico finale, che racconta delle opacità e delle durezze di quell’ultima fase della guerra partigiana e soprattutto di quei mesi di interregno seguiti al 25 aprile del ’45. Ne scrisse sul manifesto Rossana Rossanda, nel 1985, ben prima che due lettere del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e poi Walter Veltroni da segretario dei Ds arrivassero a chiudere una ferita rimasta aperta per settant’anni: «Mi sfilavano davanti le immagini dei compagni uccisi… Questo ricordo, vivo come i colori freddi d’una giornata d’aprile del Nord, e quello immediatamente successivo del Neri e della Gianna, uccisi dai loro, dai miei compagni per una storia oscura e della quale mi si avvertì energicamente che non mi dovevo occupare, fece sì che non mi è riuscito di dire ‘Ai bei tempi della resistenza’». Rossanda ha ripreso la vicenda nella più recente autobiografia La ragazza del secolo scorso. Racconta di quel «comandante favoloso» e di «una ragazza spericolata», della loro condanna e della fucilazione, non crede al collegamento con la scomparsa dell’oro di Dongo, come pure Mirella Serri, e scrive che «nel 1945 nulla di quella storia mi convinse. Ma non mi venne in mente di abbandonare. Non me ne vanto, non me ne pento». Come morirono Gianna e Neri? E per mano di chi? Fu una vicenda «locale», un regolamento di conti all’interno delle bande partigiane comasche o la gravità dei fatti non consente di archiviarla come tale? Erano «traditori», come aveva deciso il Tribunale della Resistenza diramando ai Gap l’ordine di ucciderli, oppure no, come avevano pensato da subito i compagni del Neri, riaccogliendolo nella loro brigata dopo la fuga dal carcere? Soprattutto, perché dare esecuzione a una sentenza di morte quando tutto era ormai finito? «A Milano domandai un’inchiesta. Urtai contro un muro. Tutti coloro che la chiesero urtarono contro un muro. Forse non si volle ammettere l’errore, forse lo si comprese inescusabile», scrive Rossanda. Mirella Serri aggiunge qualche sospetto in più, lasciando intravvedere delle rivalità preesistenti: chi fece la soffiata che fece arrestare entrambi a Lezzeno, sul lago di Como? L’ipotesi è che il comandante Neri, comunista, fosse inviso ad alcuni personaggi della Resistenza comunista comasca, in primis Dante Gorreri, ex Ardito del popolo, collaboratore di Guido Picelli nella resistenza antifascista di Parma nel 1922, segretario del Pci di Como, dopo la guerra componente dell’Assemblea Costituente, poi arrestato con l’accusa di essere il mandante degli omicidi di Gianna e Neri, scarcerato nel 1953 perché eletto deputato per il Pci e infine amnistiato. E poi a Pietro Vergani, anch’egli senatore nel dopoguerra e poi amnistiato, che da comandante delle Brigate Garibaldi della Lombardia aveva fatto sospendere la condanna a morte dei due partigiani. L’accusa nei confronti di Neri, poi smentita dai fatti, fu quella di essere una «spia» del nemico, fatto fuggire dal carcere per arrestare i compagni. La partigiana Gianna, anch’ella comunista, fu invece sospettata di aver parlato, sotto tortura, rivelando gli indirizzi di alcune basi partigiane e provocando diversi arresti. Fu uccisa e gettata nel lago il 22 giugno del 1945, giorno del suo ventiduesimo compleanno, probabilmente perché non si era arresa alla scomparsa nel nulla di
Luigi Canali, avvenuta il 7 maggio. I loro corpi non saranno mai
ritrovati.
Anche i noir \ gialli a puntante sui giornali ( come un tempo ) sono avvincenti ed intensi specie se l'autore sa scrivere bene . Leggere l' incipit de "L'animale più pericoloso" di Luca D'Andrea con ottime illustrazioni di Agostino Iacurci pubblicato dal 10 agosto ad oggi 25 agosto sul quotidiano la repubblica . Sedici capitoli, di quattro pagine l'uno, con una copertina speciale per ogni puntata: nella prima ci sarà un'aquila perché in ciascuna delle cover realizzate da Agostino Iacurci ci sarà un animale diverso
Incipit L'ansia la costrinse a uscire in anticipo, la rabbia a lasciare il mazzo di chiavi in bella vista al centro del tavolo in cucina. Chiusa la porta, tornò a respirare. Superò il panificio della signora Kircher, il bar di Alois, il Despar, la filiale della Volksbank e il negozio di articoli sportivi del signor Wegener con la statua di Sepp Innerkofler testa bassa, sudando sotto la tuta da ginnastica di una taglia più grande che indossava non per il freddo [... ]
alla faccia di chi reputa il metodo antico e da nostalgici e delle paure del giovane autore
L'unico modo che conosco io è ficcarmi nei guai. Cercare stimoli, spunti. Sfide. Con la pubblicazione del mio ultimo romanzo, "Il respiro del sangue", avevo la sensazione di aver concluso qualcosa, forse una tappa del mio percorso, e quel sentore di Sehnsucht mi era rimasto incollato addosso più del solito. Poi è arrivata la telefonata. "Ci piacerebbe avere un tuo romanzo a puntate, un feuilleton. Sei dei nostri?". Come dire: Achab sa resistere a uno sbuffo all'orizzonte? Solo una volta chiusa la comunicazione mi sono reso conto in che guaio ero andato a cacciarmi. Non solo per le differenze fra romanzo e feuilleton, in pratica quelle che intercorrono fra un film e una serie tv. Non solo per gli spazi, visto che un feuilleton conta le battute, un romanzo le pagine se non i capitoli. Ma soprattutto per i tempi. Il feuilleton è figlio dei giornali e la redazione di un giornale è un formicaio impazzito in cui le notizie diventano lettera morta nel giro di pochi minuti, gli articoli si allungano, si accorciano o si eliminano in un battito di ciglia. Lo studio di uno scrittore è una specie di tempio a gravità zero senza incenso e con il ticchettio della tastiera al posto del suono delle campane tibetane. Quello che il formicaio chiedeva al tempio senza incenso erano sedici puntate da ventimila battute ciascuna in... era la seconda metà di giugno e la puntata numero uno sarebbe "andata in onda" ai primi di agosto, calcolando i tempi tecnici (inventare, scrivere, riscrivere, controllare, sacramentare, riscrivere...) quattro, forse cinque settimane di lavoro contro i soliti otto, nove mesi. Volevo una sfida? Eccola servita: un nuovo modo di ragionare le storie, un nuovo ritmo con cui tenere incollati lettori (i quali, mi faceva notare una vocina ansiosa e saccente, non avrebbero scelto una mia storia, ma che l'avrebbero trovata fra le pagine del proprio quotidiano preferito...) e nuovi modelli in cui cercare, se non ispirazione, almeno conforto. Non Dumas, ma Chandler, Hammett e il mio preferito: Jim Thompson. Ecco perché dovrebbe esserci del jazz in sottofondo.
Un noir che ti tiene incollato alla pagina isolandoti dal mondo e dai richiami familiari
Negro di m.": a Roma scritta razzista sull'auto di medico della Croce Rossa
L'insulto contro un dottore trentenne originario del Camerun dell'Area salute del comitato nazionale della Cri. Era andato a cena fuori e aveva parcheggiato al Pigneto. Un anno fa a Cantù una paziente rifiutò di farsi curare da lui perchè di colore
Un medico della Croce Rossa italiana (Cri) ieri sera è stato vittima a Roma di una aggressione a sfondo razzista. A raccontare la dinamica dell'accaduto all'Adnkronos è proprio la Cri. Ieri sera Andi Nganso, un medico 30 enne originario del Camerun impiegato nell'Area salute del comitato nazionale della Cri era andato a cena fuori e aveva parcheggiato al sua auto personale al Pigneto. Terminata la cena il medico è tornato alla macchina e ha trovato la frase incisa forse con una chiave
Andi Nganso, 31 anni
sul cofano. Sull'auto era ben visibile l'adesivo della Croce Rossa sul parabrezza. Il 30enne ha subito sporto denuncia. "Non bastavano gli insulti al volontario di Loano - dice Francesco Rocca il presidente nazionale Croce Rossa - ieri notte un nuovo episodio esecrabile a Roma. È ora di fermare questo clima di razzismo, odio e intolleranza che sta crescendo nel nostro paese. Ribadiamo con forza e passione che 'Siamo tutti fratelli e tutti con Andi". Nel gennaio di un anno fa mentre era in servizio nell'ambulatorio della Guardia medica di Cantù, in Lombardia, subì un'altra offesa: una donna rifiutò di farsi assistere da lui, perchè di colore. Lui rispose ironicamente sui social: "Ti ringrazio. Ho un quarto d'ora in più per bere un caffè"
Ora Partendo da questo estratto ( qui il post integrale ) di Andi Nganso del protagonista dell'ennesimo atto di razzismo citato prima
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A voi, concittadini sensibili alla battaglia antirazzista: Ci viene facile continuare a pensare che il razzismo in Italia sia degenerato negli ultimi mesi con il precedente governo. È una falsità.NON SIAMO DI FRONTE AD UN’ EMERGENZA, né tantomeno di fronte un'emergenza la cui sola responsabilità è da imputare al governo dimissionario.Siamo, invece di fronte a un persistente problema culturale del rifiuto del diverso che non possiamo più liquidare con delle semplici frasi ad effetto.Non è più sufficiente denunciare il razzismo e basta. L'antirazzismo è una lotta che, per essere combattuta, necessita vera onestà intellettuale e un impegno che non sia solo radicamento retorico spolverato di umanità.Vivo in Italia da 13 anni e non mi ricordo un periodo nel quale non sia stato testimone di atti di razzismo. I ragazzi nati e cresciuti qua non hanno mai avuto il privilegio di poter dire che hanno passato periodi con meno aggressioni verbali e fisiche.
[.... ]
Mi ha riportato alla memoria questo che smentisce clamorosamente quelli che : nascondono la testa sotto la sabbia , che sminuiscono i segnali ( già presenti nella nostra cultura e politica vedi i pogrom contro gli slavi ad iniziare dal 1920 e l'italianizzazione forzata in Jugoslavia e al periodo dai divieti contro i matrimoni misti durante l'impresa coloniale in Africa ( 1936 ) e le leggi razziali ( 1938 ) che vennero abolite solo 1947 .
E le politiche della Lega
30 anni fa l’omicidio di Jerry Masslo. Quando scoprimmo di essere razzisti
VILLA LITERNO – Trenta lunghissimi anni. Era il 25 Agosto del 1989 quando nelle campagne di Villa Literno veniva ucciso Jerry Essan Masslo, da una banda di balordi del luogo, per essere derubato dei pochi spiccioli guadagnati in una giornata intera passata nei campi a raccogliere pomodori.
Dopo quella morte, la morte di un ragazzo sudafricano che a dicembre avrebbe compiuto 30 anni, l’Italia scoprì di essere razzista.Tanto tempo è passato ma ogni volta che arriva questa data, e quest’anno più che mai, tocca fare il punto della situazione in fatto di politiche migratorie che, soprattutto in queste terre, hanno visto scorrere molto altro sangue: basti pensare alla tremenda strage di San Gennaro del 2008 quando la “cieca” mano della camorra sparò nel mucchio di una sartoria per punire l’intero popolo africano.Dalla morte di Jerry ad oggi le politiche riguardanti l’immigrazione sono oltremodo peggiorate. Il sacrificio di Jerry Masslo rappresenta sì la storia di trenta anni fa, ma è anche drammaticamente attuale.Era un rifugiato che scappava dall’apartheid ed oggi è sotto gli occhi di tutti come spesso la politica abbia aizzato all’odio sociale che non risparmia nemmeno i rifugiati. Jerry, all’epoca, lavorava per trecento lire ad ogni cassetta di pomodoro ed ancora oggi c’è caporalato e schiavismo nei campi.«L’omicidio di Jerry Masslo commosse l’Italia – scrive in una nota la Comunità di Sant’Egidio – provocò la prima grande manifestazione antirazzista dell’ottobre 1989 e spinse il governo di allora a emanare i primi provvedimenti per la regolarizzazione dei migranti con la legge Martelli. Da allora in poi molte cose sono cambiate ma resta il gravissimo problema dei braccianti stranieri sfruttati nelle campagne per pochi soldi e costretti a vivere in alloggi più che precari. E restano soprattutto sentimenti di intolleranza e di xenofobia – cresciuti purtroppo negli ultimi tempi – che occorre condannare. L’Italia – prosegue l’organizzazione – se tiene al suo futuro, deve allontanare ogni radice di odio e di discriminazione e puntare su integrazione, diritti e un lavoro dignitoso per tutti».Che la morte di Jerry non sia vana, dunque, e per non dimenticare sabato 24 agosto alle ore 17 al cimitero di Villa Literno una delegazione di italiani e stranieri, provenienti da Roma, Napoli e altre città, darà luogo ad una marcia silenziosa alla fine della quale, la Comunità di Sant’Egidio, i sindacati, le associazioni e alcune autorità locali ricorderanno il sacrificio del bracciante sudafricano senza dimenticare un omaggio alle tombe di migranti, senza nome, collocate accanto a quella di Masslo e che ospitano le spoglie mortali di giovani africani che si trovavano in quelle campagne per il lavoro stagionale dei campi e di cui non si conosce nulla. Ricordando, in questo modo, tutti i migranti che in Italia sono morti nelle campagne, nel raccogliere i frutti della terra, e coloro che hanno perso la vita durante il trasferimento nei campi o mentre facevano ritorno nei luoghi dove alloggiavano.Non dimentichiamo Masslo e non dimentichiamo nemmeno che in questi 30 anni si è moltiplicata in alcuni settori della politica e della società una sorta di “cattiveria” verso i migranti. Una cattiveria che è contro la storia e contro quello in cui credeva Jerry Masslo: la multiculturalità e la convivenza civile. Ripartiamo da qui: ripartiamo da Villa Literno.
Foto Boschi, Adinolfi le risponde con il selfie della moglie: è sfida tra sexy bikini
È guerra tra scatti in bikini tra Maria Elena Boschie Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia, che ha pubblicato su Facebookuna foto della moglie, Silvia Pardolesi, in risposta a quella pubblicata nei giorni scorsi da . Continuano le provocazioni sui social a suon di foto e selfie. Dopo la risposta della Boschi a Matteo Salvini (foto in pubblicata su Instagramal mare in compagnia di alcune amiche), nella serata di ieri Mario Adinolfi ha pubblicato una foto della moglie in costume. Adinolfi ha commentato la foto con queste parole: “Comunicato stampa della presidenza nazionale del Popolo della Famiglia sulla attuale crisi di governo: Maria Elena Boschi nun te temiamo”.
Sotto la foto si sono susseguiti molti commenti. Qualche utente approva la scelta della foto scherzandoci su: “Il primo post degno di nota sul tuo profilo. Dai, ci sono segni di miglioramento. Confido in te”. Altri utenti, invece, non approvano e rispondono piccati: “Di cattolico hai solo le fesserie con cui ti riempi la bocca”. Ma quelli più belli sono ques'ultimi
Ora Lo so che dovrei smettere di << ascoltare chiunque ogni lamento ( cit ) >> e mandare certe persone a fncl sopratutto quelli che seguono come automi e anziché criticamente ( questi ultimi anche se diversi da me sono i miei preferiti , quelli con cui vado più d'accordo anche se con divergenze nel percorre la strada della vita ) che predicano bene ma razzolano male citando ad minchiam tali canzoni ( o meglio strofe di canzoni ) ed autori su cui nella maggior parte dei casi ci spuntano sopra
(... ) Così una vecchia mai stata moglie
Senza mai figli, senza più voglie
Si prese la briga e di certo il gusto
Di dare a tutte il consiglio giusto(... )
e senza contestualizzare e vedendo a differenza da ciò che all'epoca era trasgressione \ rottura schemi ed oggi che ha perso diventando nella maggior parte dei casi conformismo e convenzione per arrivare in moli casi all'esibizionismo gratuito .
Quindi non è questione d'essere come dicevo qualche tempo fabacchettoni e censori ma di buon senso e d'avere un senso del pudore .
Infatti non si risponde , questo è quello che vuole dire Montanari ( vedere link precedente ) ad atteggiamenti da maschi allupati ( metaforicamente 😆😇 o commenti sessisti abbassandosi a loro livello ma un po' di pudore ..... anche nel trasgredire e nel rispondere la stessa cosa vale per Mario Adinolfi ( e simili ) una delle poche persone che ho eliminato dai contatti , perchè insieme a L.M che ancora tengo fra i contatti anche se con post nascosti visto che la conosco da quando è nato il blog , troppo diverso e carico d'odio .
Allora come rispondere ? i sistemi sono : il silenzio e l'indifferenza tanto Salvini scrive o dice una minchiata ...ehm... fesseria o al giorno pur di rimanere sulla cresta dell'onda del potere ., con una faccina \ gif sorridente . Io avrei usato il primo metodo . Cosi la storia si sarebbe sgonfiata subito evitando di riemoire i media ed i social di una polemica che sa da bega di pollaio e ci saremo evitati di leggere l'intervento di un politico fallito o di cui Si può scrivere un libro intero su uno zero a cui si farebbe troppo onore liquidandolo con una riga.(Karl Kraus)