31.1.22

Vino vegano: solo una moda o fa davvero bene al pianeta?

 mah  se  fin ora   la produzione  vinicola  ed  il suo indotto   sono rimasti  in equilibrio  con gli animali   secondo me  si tratta  di  una  moda   anche  se completamente   benefica .
Ora   anche se  come  ho  scritto  più volte    sia  a  contatto   con la  campagna  ( facciamo ancora  l'orto  )  per  il lavoro  che faccio    , ed  ho conosciuto la  civiltà contadina  e   dello stazzo    anche se  nella  sua  fase  terminale  ed  il definitivo  passaggio   ad  un  agricoltura  industriale   non ho solide  basi scientifiche     e  biologiche  rispetto a mio padre  e mio fratello laureati in Agraria  ,   lascio  la  parola   agli esperti  intervistati in  quest  articolo  sotto  riportato  . 

Ma  prima   sempre  da  repubblica  chiariamo   con  questo breve  video di Di Lara Loreti  e  di Martina Tartaglino cos'è  il vino vegano   e  come  riconoscerlo  . 

Negli ultimi anni è cresciuta la domanda di vini vegani. Il trend, forte nell'Europa del Nord, si sta diffondendo anche in Italia, soprattutto tra quella parte della popolazione che adotta un’alimentazione e uno stile di vita veg friendly. Ma che cosa sono i vini vegani e in cosa si differenziano da quelli tradizionali? È una questione di additivi: nel processo di vinificazione è possibile impiegare sostanze di origine animale per rendere il vino limpido e pulito. Ma questi coadiuvanti possono essere sostituiti da sostanze di origine vegetale in modo da rispettare la dieta vegana.





ecco  l'articolo   


 da  https://www.repubblica.it/il-gusto/     del  31\1\2022 

Nel giro di una decina di anni, la richiesta in Italia è aumentata parallelamente al diffondersi dello stile alimentare e della sensibilità green. Tra tendenze, marketing, rispetto dell'ambiente e difesa del pianeta, la parola ai produttori e agli esperti


Farina di piselli al posto dell’albumina; polvere di patate invece della colla di pesce; via la caseina, dentro le proteine dei lieviti; caolino e argilla a volontà. E il vino che c’entra? Non tutti sanno che nel processo di vinificazione si possono utilizzare delle sostanze che servono per la chiarifica, dopo la fermentazione, e per la stabilizzazione del prodotto: si tratta di additivi e coadiuvanti come l’albumina d’uovo, la caseina, la colla d’osso, la colla di pesce e la gelatina, elementi che sono di origine animale. Oggi quasi un italiano su dieci (l'8,2% come emerge dal Rapporto Italia di Eurispes 2021) per motivi etici o di salute, sceglie una dieta vegana: niente carne, pesce, latte e in generale alimenti di derivazione animale, sì ai cibi di origine vegetali. Il vino non fa eccezione. Ed ecco che negli ultimi anni si è diffuso – e la tendenza è in crescita – il cosiddetto vino vegano, all’interno del quale vengono bandite le sostanze di origine animale sia in cantina sia in etichetta (si pensi all'uso di colle animali) sia in vigna. Infatti, i protocolli veg vietano anche l’utilizzo di letame, pollina, stallatico e altri concimi/fertilizzanti ottenuti da allevamenti o sottoprodotti industriali di origine animale (per esempio, farine di sangue, carne, corna, pesce, ecc.), inclusi eventuali prodotti fitosanitari di origine animale. Per il momento non esiste una certificazione ufficiale nazionale o europea, ma varie società private hanno colmato il gap, buttando giù dei protocolli con regole da rispettare e rilasciando (a pagamento), previ scrupolosi controlli durante l’arco dell’anno, la certificazione da poter esibire sulla bottiglia. Un via libera per i bevitori vegani che così hanno la possibilità di restare in linea con la propria scelta, anche nel calice.


Le prime certificazioni nel 2014, ma c’è chi è veg da 15 anni


Ed ecco che il vino vegano oggi comincia a farsi notare nelle cantine e sugli scaffali di enoteche e supermercati, oltre che nel commercio on line. Le prime etichette si sono affacciate sul mercato italiano meno di dieci anni fa. Tra le prime (se non la prima in assoluta ad essere certificata) c’è la trentina Cantina Aldeno che, a inizio 2014, lancia il suo Pinot Nero 2013 vegan friendly: è un boom. A metà anno ha già venduto tutte le 15mila bottiglie prodotte, addirittura con prenotazioni fino al 2016. Altre cantine seguiranno quell’esempio.

 La prima etichetta certificata vegana nel 2014 dell'azienda trentina Cantina Aldeno 

Ma se fino a qualche anno fa produrre bottiglie veg veniva visto dai più come una scelta originale, a tratti bizzarra, oggi la richiesta di etichette prive di sostanze animali è in crescita, soprattutto all’estero: in Italia si parla ancora di mercato di nicchia, ma il trend è in forte espansione in centro e Nord Europa e negli Usa. In questa fase, per certi versi ancora di esplorazione, i produttori oscillano tra il desiderio di inserirsi concretamente nel solco di chi attua comportamenti che possono giovare alla salute dell’ambiente, e il marketing nudo e crudo di quelle aziende che vogliono cavalcare l’onda verde che ha invaso il globo, facendo leva sull’ecologismo di facciata (o greenwashing).

Raffaele Boscaini, direttore marketing e settima generazione di Masi, Valpolicella 

Al contrario, per molti viticoltori, vegani della prima ora, non si tratta solo una moda, ma un modo di essere, di pensare, di agire. E di tirare fuori dalla cantina un vino più pulito, più integro, più rispettoso dell’ambiente. Una vera rivoluzione che ha a che fare con benessere e salute del pianeta. Qualche esempio? Raffaele Boscaini, settima generazione della famiglia e direttore marketing della cantina della Valpolicella, Masi, spiega come nella sua azienda si producano vini vegani ormai da oltre 15 anni. Esempio di come, in questo ambito - lo sostiene l’enologo e studioso di vino Gianpiero Gerbi - sia nata prima l’offerta e poi la domanda. 

“Masi ha attivato la produzione di vini veg in modo inconsapevole – racconta il manager - senza porsi il problema del veganismo, ma con l’obiettivo di realizzare prodotti più naturali possibili, che non avessero contatti con additivi che potevano alterarne l’integrità come colla di pesce, caseina e albumina, rilasciando delle particelle: il vino è tale se lo lasci più vicino possibile all’uva. E così oggi nella chiarifica e nella stabilizzazione noi usiamo sostanze naturali, derivate da vegetali, rocce e fossili, che hanno stessa capacità di far depositare nel fondo delle cisterne le impurità e le particelle in sospensione, prima e durante la filtrazione del vino. Non c’è nulla di male ad usare componenti animali, ma quando, negli ultimi anni, si è sempre più diffusa la tendenza a evitarli per questioni etiche, noi eravamo già equipaggiati. Per questo nella primavera 2020 ci siamo certificati e, a mano a mano, stiamo cambiando tutte le etichette”. Una volta per Masi era sufficiente rispondere al telefono alle richieste di quei pochi consumatori vegani che si informavano sul rispetto dei principi veg, oggi vista l’impennata della domanda avere la certificazione è diventata una esigenza. “Non ho dati ufficiali, ma posso dire che se dieci anni fa ricevevamo dieci mail o richieste, ora sono minimo un centinaio”, dice il manager. E il gusto? “Al palato non si sentono grosse differenze”, spiega.

Masi, vigneto Monte Piazzo in Valpolicella 

Per Boscaini questa scelta oggi diventa anche sociale, ma non giudica chi non la sposa: “Avere un vino vegano è un’operazione che ha a che fare con inclusività. Noi l’abbiamo fatto in nome di una maggiore qualità e non ci si schiera. Ma se, in questo modo, andiamo incontro a anche chi ha fatto una scelta etica, ben venga. Non è necessario essere integralisti se si soddisfa chi integralista lo è: io produco vino vegano e questo non mi limita nel promuoverlo, se adatto, all’abbinamento con la carne. Sta a chi lo beve fare le sue scelte, in libertà”.
Tra i vegani ante litteram c’è anche Gabriele Baldi, contitolare dell’azienda di famiglia a Costigliole (Asti) che porta il nome del padre, Pierfranco Baldi (di Burio). Nel 2014 Gabriele ha lavorato alla stesura di un protocollo per vino vegano. “Collaborando con un conoscente dello Studio Borio Longo di Igiene e tecnologie alimentari ci siamo accorti che non c’erano delle regole sul vino vegano: e allora perché non farla noi? E così ci siamo rivolti alla Société Générale de Surveillance (SGS), noto gruppo svizzero specializzato in certificazioni, e la nostra è stata un’azienda pilota. Avevamo iniziato poi anche per un motivo pratico: in primis evitare l’uso di chiarificanti di origine animale che sono anche allergeni, cercavamo quindi di evitare prodotti disturbanti per qualcuno, a prescindere dalla dieta vegana. La prima prova l’abbiamo fatta nel 2013 usando i derivati di piselli e patate, e poi allungando l’invecchiamento del vino cosicché potesse raggiungere da solo la stabilità”. Esperimenti che hanno portato a risultati molto interessanti: la qualità del vino non ne risentiva, anzi: “C’è stata differenza peggiorativa solo sulle fecce: questa operazione produce un deposito che può essere filtrato ma stiamo parlando dello scarto, che vale 50-70 cent al litro”, dice il vignaiolo. Il problema è stato più di carattere commerciale. “Abbiamo realizzato 4 etichette certificate vegane nelle vendemmie 2014-15 -16. Ma non abbiamo trovato terreno fertile: a suo tempo, non c’era un gran mercato – racconta Baldi - Oggi il vino lo facciamo allo stesso modo: 60mila bottiglie tutte vegane, abbiamo però abbandonato la certificazione perché è onerosa. Ma i nostri clienti sanno che non usiamo sostanze di origini animali, tra loro c’è anche un ristorante veg torinese, “Idem con patate”, e privati. Chi è interessato al prodotto vegano sulla certificazione è disposto a soprassedere”.  Farina di piselli al posto dell’albumina; polvere di patate invece della colla di pesce; via la caseina, dentro le proteine dei lieviti; caolino e argilla a volontà. E il vino che c’entra? Non tutti sanno che nel processo di vinificazione si possono utilizzare delle sostanze che servono per la chiarifica, dopo la fermentazione, e per la stabilizzazione del prodotto: si tratta di additivi e coadiuvanti come l’albumina d’uovo, la caseina, la colla d’osso, la colla di pesce e la gelatina, elementi che sono di origine animale. Oggi quasi un italiano su dieci (l'8,2% come emerge dal Rapporto Italia di Eurispes 2021) per motivi etici o di salute, sceglie una dieta vegana: niente carne, pesce, latte e in generale alimenti di derivazione animale, sì ai cibi di origine vegetali. Il vino non fa eccezione. Ed ecco che negli ultimi anni si è diffuso – e la tendenza è in crescita – il cosiddetto vino vegano, all’interno del quale vengono bandite le sostanze di origine animale sia in cantina sia in etichetta (si pensi all'uso di colle animali) sia in vigna. Infatti, i protocolli veg vietano anche l’utilizzo di letame, pollina, stallatico e altri concimi/fertilizzanti ottenuti da allevamenti o sottoprodotti industriali di origine animale (per esempio, farine di sangue, carne, corna, pesce, ecc.), inclusi eventuali prodotti fitosanitari di origine animale. Per il momento non esiste una certificazione ufficiale nazionale o europea, ma varie società private hanno colmato il gap, buttando giù dei protocolli con regole da rispettare e rilasciando (a pagamento), previ scrupolosi controlli durante l’arco dell’anno, la certificazione da poter esibire sulla bottiglia. Un via libera per i bevitori vegani che così hanno la possibilità di restare in linea con la propria scelta, anche nel calice.

Vino vegano: che cosa è e come riconoscerlo

Le prime certificazioni nel 2014, ma c’è chi è veg da 15 anni Ed ecco che il vino vegano oggi comincia a farsi notare nelle cantine e sugli scaffali di enoteche e supermercati, oltre che nel commercio on line. Le prime etichette si sono affacciate sul mercato italiano meno di dieci anni fa. Tra le prime (se non la prima in assoluta ad essere certificata) c’è la trentina Cantina Aldeno che, a inizio 2014, lancia il suo Pinot Nero 2013 vegan friendly: è un boom. A metà anno ha già venduto tutte le 15mila bottiglie prodotte, addirittura con prenotazioni fino al 2016. Altre cantine seguiranno quell’esempio.

 La prima etichetta certificata vegana nel 2014 dell'azienda trentina Cantina Aldeno 

Ma se fino a qualche anno fa produrre bottiglie veg veniva visto dai più come una scelta originale, a tratti bizzarra, oggi la richiesta di etichette prive di sostanze animali è in crescita, soprattutto all’estero: in Italia si parla ancora di mercato di nicchia, ma il trend è in forte espansione in centro e Nord Europa e negli Usa. In questa fase, per certi versi ancora di esplorazione, i produttori oscillano tra il desiderio di inserirsi concretamente nel solco di chi attua comportamenti che possono giovare alla salute dell’ambiente, e il marketing nudo e crudo di quelle aziende che vogliono cavalcare l’onda verde che ha invaso il globo, facendo leva sull’ecologismo di facciata (o greenwashing).

Raffaele Boscaini, direttore marketing e settima generazione di Masi, Valpolicella 

Al contrario, per molti viticoltori, vegani della prima ora, non si tratta solo una moda, ma un modo di essere, di pensare, di agire. E di tirare fuori dalla cantina un vino più pulito, più integro, più rispettoso dell’ambiente. Una vera rivoluzione che ha a che fare con benessere e salute del pianeta. Qualche esempio? Raffaele Boscaini, settima generazione della famiglia e direttore marketing della cantina della Valpolicella, Masi, spiega come nella sua azienda si producano vini vegani ormai da oltre 15 anni. Esempio di come, in questo ambito - lo sostiene l’enologo e studioso di vino Gianpiero Gerbi - sia nata prima l’offerta e poi la domanda.
“Masi ha attivato la produzione di vini veg in modo inconsapevole – racconta il manager - senza porsi il problema del veganismo, ma con l’obiettivo di realizzare prodotti più naturali possibili, che non avessero contatti con additivi che potevano alterarne l’integrità come colla di pesce, caseina e albumina, rilasciando delle particelle: il vino è tale se lo lasci più vicino possibile all’uva. E così oggi nella chiarifica e nella stabilizzazione noi usiamo sostanze naturali, derivate da vegetali, rocce e fossili, che hanno stessa capacità di far depositare nel fondo delle cisterne le impurità e le particelle in sospensione, prima e durante la filtrazione del vino. Non c’è nulla di male ad usare componenti animali, ma quando, negli ultimi anni, si è sempre più diffusa la tendenza a evitarli per questioni etiche, noi eravamo già equipaggiati. Per questo nella primavera 2020 ci siamo certificati e, a mano a mano, stiamo cambiando tutte le etichette”. Una volta per Masi era sufficiente rispondere al telefono alle richieste di quei pochi consumatori vegani che si informavano sul rispetto dei principi veg, oggi vista l’impennata della domanda avere la certificazione è diventata una esigenza. “Non ho dati ufficiali, ma posso dire che se dieci anni fa ricevevamo dieci mail o richieste, ora sono minimo un centinaio”, dice il manager. E il gusto? “Al palato non si sentono grosse differenze”, spiega.

Masi, vigneto Monte Piazzo in Valpolicella 

Per Boscaini questa scelta oggi diventa anche sociale, ma non giudica chi non la sposa: “Avere un vino vegano è un’operazione che ha a che fare con inclusività. Noi l’abbiamo fatto in nome di una maggiore qualità e non ci si schiera. Ma se, in questo modo, andiamo incontro a anche chi ha fatto una scelta etica, ben venga. Non è necessario essere integralisti se si soddisfa chi integralista lo è: io produco vino vegano e questo non mi limita nel promuoverlo, se adatto, all’abbinamento con la carne. Sta a chi lo beve fare le sue scelte, in libertà”.
Tra i vegani ante litteram c’è anche Gabriele Baldi, contitolare dell’azienda di famiglia a Costigliole (Asti) che porta il nome del padre, Pierfranco Baldi (di Burio). Nel 2014 Gabriele ha lavorato alla stesura di un protocollo per vino vegano. “Collaborando con un conoscente dello Studio Borio Longo di Igiene e tecnologie alimentari ci siamo accorti che non c’erano delle regole sul vino vegano: e allora perché non farla noi? E così ci siamo rivolti alla Société Générale de Surveillance (SGS), noto gruppo svizzero specializzato in certificazioni, e la nostra è stata un’azienda pilota. Avevamo iniziato poi anche per un motivo pratico: in primis evitare l’uso di chiarificanti di origine animale che sono anche allergeni, cercavamo quindi di evitare prodotti disturbanti per qualcuno, a prescindere dalla dieta vegana. La prima prova l’abbiamo fatta nel 2013 usando i derivati di piselli e patate, e poi allungando l’invecchiamento del vino cosicché potesse raggiungere da solo la stabilità”. Esperimenti che hanno portato a risultati molto interessanti: la qualità del vino non ne risentiva, anzi: “C’è stata differenza peggiorativa solo sulle fecce: questa operazione produce un deposito che può essere filtrato ma stiamo parlando dello scarto, che vale 50-70 cent al litro”, dice il vignaiolo. Il problema è stato più di carattere commerciale. “Abbiamo realizzato 4 etichette certificate vegane nelle vendemmie 2014-15 -16. Ma non abbiamo trovato terreno fertile: a suo tempo, non c’era un gran mercato – racconta Baldi - Oggi il vino lo facciamo allo stesso modo: 60mila bottiglie tutte vegane, abbiamo però abbandonato la certificazione perché è onerosa. Ma i nostri clienti sanno che non usiamo sostanze di origini animali, tra loro c’è anche un ristorante veg torinese, “Idem con patate”, e privati. Chi è interessato al prodotto vegano sulla certificazione è disposto a soprassedere”. 
Tra vino vegano e vino biologico c’è una relazione?
Non per forza. Ci sono vini convenzionali certificati vegani, vini biologici e vini biologici vegani. “La certificazione bio e quella vegana sono due cose distinte – spiega Gerbi – la gente fa confusione perché la narrazione del veganismo è a tratti confusa. Ma stiamo parlando di due aspetti diversi: il biologico riguarda il tipo coltivazione, il non utilizzo di concimi chimici in vigna e il rispetto della natura, il veganismo invece riguarda l’uso delle sostanze di origini animale nel processo produttivo, che per lo più riguarda la fase della chiarifica”. Quanto al futuro del vino veg, l'esperto ha un'opinione chiara e netta: "Il vino vegano è una moda destinata a non durare".

L'enologo Gianpiero Gerbi 

Non tutti la pensano allo stesso modo e c’è chi porta il dibattito su un piano filosofico. Come Stefano Girelli, vignaiolo trentino titolare delle aziende agricole siciliane, entrambe bio: Cortese Santa Tresa (Vittoria, Ragusa), 230-240mila di bottiglie nei 70 ettari vitati totali. “Essere biologici ti apre una porta in un mondo nuovo: cominci a interpretare il vigneto e a vederlo come un partner non come una cosa da sfruttare. E oggi più che mai l’attenzione si sta spostando sul terreno: mentre una volta ci si concentrava sulla produzione (con rese doppie e triple rispetto a oggi) nel corso degli anni si guarda di più alla qualità. Al centro dell’attenzione c’è il vitigno e il lavoro che si fa in cantina è sempre inferiore perché non deve rovinare ciò che si fa in vigna”. Girelli concentra le sue energie sul nutrimento del terreno e per far questo sperimenta pratiche biodinamiche all’interno della coltivazione biologica.

Il Nero d'Avola dell'azienda Cortese 

“A Santa Tresa, che gestisco da 21 anni, siamo bio da 15 anni: in vigna usiamo favino e non la chimica, poco zolfo e poco rame, e in cantina impieghiamo tecniche che mantengono alta la qualità: in questo arco di tempo ho visto cambiare la qualità dell’uva, la buccia è più spessa e le caratteristiche dell’uva più affini al territorio. Il Nero d’Avola di Cortese (cantina presa nel 2016 già bio) rispecchia le caratteristiche del terreno più calcareo: il vino è muscolare e corposo; a Santa Tresa, dove il suolo è ricco di sabbia rossa con strato calcareo, i vini sono più minerali ed eleganti.

 La terra rossa delle vigne dell'azienda Cortese 

Lo scopo è convivere con l’ambiente e preservarlo, anche perché da noi c’è un microclima pazzesco per la crescita di qualsiasi vegetale”. In questo contesto Girelli 4-5 anni fa cambia registro anche nella stabilizzazione dell’uva, all’interno del processo di vinificazione: via le sostanze animali usate storicamente, dentro proteine vegetali, dalla farina di patata e quella di piselli. “Così facendo abbiamo visto che avevamo stesso risultato con qualità superiore, senza cambiare il vino: il sapore è più autentico, meno raffinato, più vicino alla tipicità varietale, senza essere sfacciati. Ogni volta che filtri e metti additivi togli anche del buono e sottrai naturalezza”, dice Girelli. Ma non è tutto: “Essere vegano non è solo non mangiare carne, vuol dire anche ridurre l’impronta idrica, combattere la deforestazione e tutto ciò che sta intorno alla produzione di carne: fra 30 anni con la popolazione in aumento avremo poca acqua, pochi prati e poche foreste dove vivere. È chiaro che la crudeltà contro gli animali è importante, ma lo è anche il rispetto dell’ambiente. Da quest’anno abbiamo avviato anche la fitodepurazione delle acque in cantina. Cerchiamo di avere meno sprechi: nel corso degli anni ci siamo resi contro che la salinità dell’acqua dei pozzi aumentava. Ora usiamo l’acqua piovana”.

Marina e Stefano Girelli 

Aver eliminato le sostanze di origine animale comporta un aumento di costi intorno al 10%, ma il viticoltore ha eliminato la spesa relativa alla certificazione, pur inserendo l’informazione veg in etichetta: “Noi consideriamo il bollino una moda: al livello europeo non esiste, e così per noi non ha senso”.

Certificazione sì o no? Moda o necessità di informare il consumatore?

La questione della certificazione divide i produttori e c’è chi, pur considerandola una spesa in più, sostiene di poterne più fare a meno perché necessaria per i clienti all’estero. È il caso di Mimmo De Gregorio, direttore tecnico delle Cantine Settesoli/Mandrarossa a Menfi (Agrigento), cooperativa con 200 soci e 6mila ettari vitati (di cui 1,2 in regime biologico e gli altri con coltivazione convenzionale). “Siamo certificati vegani da 3-4 anni, anche se già da un anno avevamo eliminato le sostanze di derivazione animale. La spinta c’è arrivata dal mercato estero dove c’è più attenzione verso questo tipo di consumo, principalmente Inghilterra e Nord Europa, e ora anche Svizzera, Germania, Usa e Giappone”.

Mimmo De Gregorio 

Una cosa sembra certa: presentarsi sul mercato con la certificazione vegana vuol dire darsi una chance in più di vendita. “A parità di categoria e prezzo, generalmente il consumatore preferisce l’etichetta vegana perché è recepita come valore aggiunto anche dai non vegani. Molti pensano: “male non mi fa” – riflette Raffaele Boscaini di Masi - In più, in questo modo abbiamo una finestra aperta sul mondo di chi vuole solo vegano. Sta accadendo un po’ la stessa dinamica che qualche anno fa avveniva col biologico: prima era relegato a una nicchia di consumatori molto attenti, ora s’è aperto a tanti altri consumatori. Del resto, oggi sempre più persone sono portate a dare un’occhiata alle etichette del vino come pure del cibo. Il problema arriva quando si diffondono delle false credenze sulla salute, basta citare l’esempio dell’olio di palma”.

Le vigne di Settesoli  a Menfi (Agrigento) 

E la certificazione è necessaria o è un trend? “Secondo me al momento è un po’ una moda, che non so se passerà o evolverà. Non ne vedo una effettiva esigenza: noi l’abbiamo presa perché ce l’hanno chiesta i distributori in giro per il mondo: in tutto il Nord Europa, soprattutto in Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca, i wine lover sono più sensibili, e c’è una buona richiesta di vini veg anche da parte delle compagnie internazionali di volo. In Italia la richiesta riguarda ancora una nicchia. E in generale credo che la certificazione non sia una necessità: sono convinto che il consumatore trovi in una marca ciò che lo fa sentire appartenente e quindi si affida. Se una persona si trova bene con Armani non si chiede se sia sostenibile e/o vegano, gli interessa che gli stia bene, che il capo duri nel tempo e lo faccia sentire meglio. La gran parte dei consumatori si approccia così. A optare per i vini vegani sono soprattutto i giovani che mettono in discussione i paradigmi affermati dei genitori proponendone di nuovi, e che mettono al centro la naturalità”.

Costi un po' più alti 

La certificazione va fatta di anno in anno e ha un prezzo, che per alcune cantine pesa. “Per un’azienda come la nostra da 350mila ettolitri di prodotto all’anno (quindi medio grande) si parte da 3.500 euro annue – dice De Gregorio – Costo a cui si aggiunge l’aumento di circa il 20-30% delle spese legato all’uso di proteine vegetali come sostitute di quelle animali quali albumina, cornunghia e così via. La qualità è rimasta la stessa e così il vino è più intatto”. Nessuno svantaggio?  L’unico sforzo in più l’abbiamo fatto all’inizio – risponde l’esperto siciliano - per raggiungere lo stesso risultato abbiamo dovuto fare delle prove di laboratorio per vedere come il vino reagiva, e alla fine abbiamo constatato che il vantaggio maggiore tecnicamente è che usando sostanze vegetali il vino non viene deturpato. Noi siamo soddisfatti: i clienti apprezzano che il nostro vino sia vegan, le catene della grande distribuzione estere ormai chiedono solo o quasi prodotti vegan. In Italia c’è ancora pochissimo interesse, arriverà, ma molto lentamente. Ma un giovane che oggi mette su un’azienda vitivinicola non può ignorare questa tendenza: deve puntare su biologico e vegano”.

La famiglia Matta fra le vigne ai piedi del Castello di Vicchiomaggio 

Largo ai giovani: approccio a 360 gradi. Dall'Italia a Portorico

Due obiettivi, questi ultimi, che sono dei punti fermi per la giovane produttrice Vittoria Matta, in Chianti Classico, che con i suoi fratelli aiuta il padre John nella gestione dell’azienda di famiglia, nel castello di Vicchiomaggio, attiva dagli anni Settanta e dagli anni Ottanta arricchita anche un agriturismo e un ristorante, tutti gestiti con i principi biologici. In quest’ottica i viticoltori hanno inserito nella produzione un vino veg, il Chianti Classico Riserva Vicchiomaggio Vegan certificato con Bioagricert. Papaveri e fiori di campo nell’etichetta disegnata da una illustratrice. “È vegano dalla vigna al packaging – dice orgogliosa Vittoria Matta – e ne facciamo 6-7mila bottiglie: il costo è di circa 10-15% in più della riserva non vegana a causa dei costi di realizzazione e della certificazione. Tutta l’attività nel vigneto è realizzata usando prodotti bio e non di derivazione animale. Inoltre, nel marzo 2021 siamo entrati nel progetto Viva per le aziende vitivinicole sostenibili, che abbraccia tutte le attività aziendali, ristorante e agriturismo compresi”. Chianti Classico Riserva Vicchiomaggio Vegan è richiesto soprattutto all’estero, Norvegia e Olanda. “Tra i nostri clienti c’è anche Vegan wines, brand californiano che si sta espandendo anche in Portorico perché la proprietaria è portoricana – dice Matta – è un ex wine club che sta diventando una importante società visto il successo dei prodotti vegan”.

Il Chianti Classico Riserva vegano Vicchiomaggio: l'etichetta disegnata da un artista ritrae papaveri e altri fiori di campo 

L'importanza del cibo: le nuove frontiere della tavola

Punta sulle nuove frontiere della alimentazione, oltre che sulla tutela dell’ambiente, Massimo Sensi, produttore toscano che ha inserito nella produzione: il Chianti Superiore Docg Vegante: “Ho fatto una etichetta vegana perché pur non essendo vegano ritengo che l'approccio filosofico dei vegani sia rispettoso anche verso l'ambiente e – dice il produttore – A livello scientifico lo stimolo verso un veganismo anche non estremo aiuta ad esplorare nuovi modi per alimentare alcune fasce sociali che sono da millenni troppo radicate su un’alimentazione carnivora. Infatti, ci sono sempre più esperimenti in questo senso per avere a livello sensoriale un gusto più saporito con alimenti vegetariani, segno che la creatività ha anche applicazioni a livello organolettico e stimola ad esplorare nuove frontiere dell'alimentazione”.

Vegante, il Chianti superiore di Sensi 

Roberto Cipresso: "Non togliamo bellezza al vino"

Il vino vegano è una moda, e il rischio è che troppa disciplina e rigidità, spinte all’estremo, tolgano bellezza e creatività al vino”: è quanto fa notare Roberto Cipresso, nome autorevole del mondo del vino, enologo di fama mondiale e produttore vitivinicolo a Montalcino nel suo Poggio al Sole, che interviene nel dibattito mettendo al centro il vino. “Quando i mercati arrivano ad essere saturi e la domanda è più bassa dell'offerta, scatta la “strategia dell'oceano blu”: in sintesi per poter competere devi avere e saper proporre progetti e idee autorevoli ed emozionanti che ti portano all'unicità. Questa regola, portata nel mondo del vino, si chiama terroir – dice l’esperto - Abbracciare il mondo dei vini vegani, biologici, biodinamici e tutte quelle realtà in cui si cerca di avvicinare una nicchia, anche per smarcarsi dagli altri concorrenti, è una strategia debole che propone una falsa soluzione. È vero che coinvolgi una parte di pubblico, ma il rischio è che venga mortificata la genialità dell'uomo e l'emotività di un bicchiere di vino capace di raccontare le storie. Sei originale ma non autorevole". Sul futuro dei vini veg Cipresso la pensa come Gerbi: "Qui siamo di fronte a una moda che, come tale, è passeggera”.

Il wine maker entra nel merito della questione: “L'albumina è una sostanza naturale, è vero, è di origine animale, ma se vogliamo andare sul tecnico anche il lievito è una sostanza molto vicina al mondo animale. Se ci infiliamo in queste discussioni, smontiamo tutto, ci allontaniamo dalla poesia. La ricerca di prodotti originali toglie bellezza al mondo del vino, è un impoverimento. E così facendo ci addentriamo in aspetti così leggeri che poco hanno a che fare con la bontà e la salute. Il pericolo è che si crei confusione. La cosa che rende il vino unico è il terroir, e se per raccontare un prodotto devi ricorrere ad argomenti nuovi in modo da conquistare un pezzetto in più di mercato, questo rende fragile il tuo prodotto. Detto questo nel mondo e nel mercato, per fortuna, c’è spazio per tutti”.

11 settembre 2001 ed i complottisti

 premetto  che  sono  si critico   verso la  versione  ufficiale  del  11  settembre  2001  , ma usare  foto o  immagini  estratte  dai  video   in modo  cosi strumentale   mi ripugna   . Io ogni volta che le vedo torno indietro di 21 anni. Ho visto il  crollo  della  2  torre  e    sentito  dell'aereo  fatto  cadere  sul  sul  pentagono   in diretta , ho provato un orrore senza fine per quella povera gente, terrorizzata ne  cas0  di questa  immagine   al punto di buttarsi giù da un grattacielo. Ed  ogni  volta  che  vedo quelle   immagini o  foto   o  i  film  \  documentari  su tale   evento  non riesco a  trattenere   le  lacrime  .  Usarle ci vuole per   tali scopi   è   segno  di una disumanità e un disprezzo della vita senza pari, oltre a nessuna conoscenza di scienza delle costruzioni. Ma questo trattandosi di complottisti non mi stupisce più di tanto  .Posso solo     dire riposino   in pace, povere vittime innocenti. Perdona questi esseri indegni .

concordo      con   Eugenio De Angelis  : <<  Vomito, é quello che provocano questi post/commenti senza rispetto per quelle vite spezzate e il dolore di chi è rimasto.>>

30.1.22

genitori , madri e figli spariti la ricerca si fa sui social . c'è la pagina social ti cerco

   Nuova  sardegna  del  24\1\2022  

  di  Silvia  Sanna  


SASSARI
Bambini adottati che cercano la loro madre naturale e i loro fratelli. Gemelli separati alla nascita, qualcuno dato per morto e invece consegnato a un'altra famiglia. Fratellastri e sorellastre, mai riconosciuti dai genitori e spuntati per caso grazie a una fotografia ingiallita. Ancora: cugini e zii, amici d'infanzia, tate, madrine e padrini, ma anche persone conosciute per caso in circostanze particolari e di cui negli anni è rimasto un dolce ricordo e la voglia di riabbracciarle. È un condensato di speranza, amore e nostalgia la pagina

Facebook "Ti Cerco, appelli di persone che cercano le loro origini e i propri cari", un contenitore di storie, spesso molto dolorose, che cercano un lieto fine. Come l'abbraccio tra un padre e un figlio, separati all'improvviso e che grazie al tam tam sui social, alla condivisione degli appelli riescono a ritrovarsi. Questo concentrato di umanità solidale nato nel 2016 per volontà di tre amiche, una delle quali sarde, vanta oggi più di 263mila follower: persone che fanno a gara per aiutarsi a vicenda, tirando fuori indizi, ricordi, foto in bianco e nero, nomi ed eventi indispensabili per rimettere insieme i pezzi di puzzle intricati. "In quella strada abitava tizio", "a quell'indirizzo c'era un negozio di alimentari", "la signora che cerchi aveva una sorella, si chiamava Maria" , in una catena di informazioni preziose per chiudere il cerchio e centrare l'obiettivo. Tra i tantissimi appelli, molti arrivano o partono dalla Sardegna: sopra alcuni compare la parola "chiuso" e significa che il lieto fine agognato è arrivato, molti di più invece quelli ancora aperti. Vuol dire che bisogna cercare, scavare, per riuscire a riannodare i fili di storie spezzate e regalare gioia a chi aspetta con il cuore in gola.

Ecco  tre  vicende  di cui  si occupa  il sito  


 I primi dubbi da ragazzina, le domande alla mamma, poi la scoperta: Cinzia è stata adottata quando non aveva ancora compiuto 3 anni. Oggi, che di anni ne ha 60, cerca di ricostruire le sue origini. «È un desiderio

che ho sempre avuto - Nonostante la mia famiglia non mi abbia mai fatto mancare niente, mi sento incompleta, una sensazione difficile da descrivere». E allora, per colmare il vuoto, Cinzia ha fatto un appello nel gruppo Facebook, con il prezioso sostegno di sua figlia Elena. «Mia madre è nata a Sassari in via Rosello il 9 agosto del 1961. È stata battezzata con il nome Cinzia Albani: quando i miei nonni la adottarono decisero di lasciare lo stesso nome, il suo cognome è invece Sanna. Il battesimo fu celebrato l'indomani della sua nascita nella chiesa di San Giuseppe da don Sebastiano Era. La sua madrina fu l'ostetrica. Abbiamo saputo che entrambi sono morti». Cinzia è stata adottata da una coppia di Oniferi, in provincia di Nuoro, e qui ha trascorso la sua vita. «Mia madre aveva già provato a fare delle ricerche - racconta Elena - ma si è scontrata con la resistenza di mia nonna, sua madre adottiva. Poi c'era il diritto alla riservatezza che tutelava i genitori biologici. E chi poteva fornire informazioni era già morto. Mia nonna è stata una buona madre per la mia - spiega Elena - ma non voleva che cercasse i suoi genitori biologici: mia madre ricorda di aver visto una foto che ritraeva lei da piccola all'interno dell'orfanotrofio e altri documenti che ora non si trovano più. Sicuramente mia nonna ha fatto sparire tutto. Per quanto riguarda la privacy, la legge è cambiata, abbiamo il diritto di conoscere le origini biologiche. Noi per ora proviamo tramite social, con la speranza che qualcuno si faccia sentire». Ci sono vari indizi e nomi che possono aiutare a ricostruire la storia. Una figura chiave è quella di Peppina. «Era un'amica di mia nonna, anche lei di Oniferi, ma abitava a Sassari. Fu Peppina a fare da tramite tra l'orfanotrofio e mia nonna. Peppina sicuramente sapeva tante cose, ma mantenne il segreto. Solo quando mia nonna morì, Peppina cercò mia madre: le disse che doveva parlarle. Ma morì prima di poterlo fare. L'unica cosa che mia madre riuscì ad ottenere, grazie a uno dei figli, era una lettera indirizzata a Peppina. Datata 7 gennaio 1963, c'era scritto che due famiglie di Oniferi potevano andare a vedere le bambine richieste al brefotrofio. Il cognome di una famiglia era Sanna. Il mittente della lettera era Francesco S., l'indirizzo riportato via Bellini 10». L'altra informazione è il cognome del direttore dell'orfanotrofio: si chiamava Piana. «Mia madre è stata affidata a mia nonna il 4 febbraio del 1964, fu mia nonna a raccontarlo. Andò lei a prenderla a Sassari e quel giorno nevicava: i pullman non viaggiavano, non poterono fare subito rientro in paese e le ospitò una famiglia di Oniferi residente a Sassari». Dopo la condivisione su Facebook, sono arrivati indizi importanti. «Tra i pochi appunti in mano a mia madre c'è scritto "Salette, via delle Conce". Mamma pensava fosse il nome e la via dell'orfanotrofio, invece risulta essere il nome di una signora che aveva un negozio di alimentari nella via in cui è nata mia madre (via Rosello), e viveva in via delle Conce. Il marito di Salette si chiamava Tonino faceva la guardia carceraria». Chi è la signora Salette? Potrebbe essere la madre biologica di Cinzia? O forse sa qualcosa? Lei aspetta, forse il rebus è a un passo dalla soluzione. 

  

Anche   Raimondo   spera    di  rincontrare  il  suo fratello  gemello     dato per   morto  alla  nascita  

Era stata l'ostetrica a convincerla a non partorire in casa, perché sicuramente uno dei gemelli che aspettava sarebbe nato con gravi malformazioni, probabilmente non sarebbe sopravvissuto. Le spiegò che durante un controllo - l'ecografia al tempo non si faceva - era certa di avere procurato un danno agli occhi a uno dei bambini. Nel sentire queste parole la signora Maria Pilu, di Bono ma residente a Sassari, accettò di farsi ricoverare nella clinica privata Sant'Anna, in viale Mameli a Sassari. E lì il 29 novembre del 1959, partorì dopo il taglio cesareo due maschietti per i quali aveva già scelto i nomi: Giovanni e Raimondo, Pilo il cognome. Ma uno dei due la signora Maria non potè mai abbracciarlo, perché l'ostetrica le disse che - come lei stessa aveva previsto - era nato morto. «Non glielo fecero neppure vedere, nonostante le ripetute richieste - racconta la nuora Vilma, moglie del gemello "sopravvissuto" - mia suocera per tutta la vita pensò che le avessero detto una bugia, che il bimbo fosse nato vivo e che fosse stato affidato a un'altra famiglia. Morì nel 2013 con questo grande dolore». 


Oggi Vilma, insieme al marito «ha entrambi i nomi, Raimondo e Giovanni, tutti lo conoscono come Raimondo ma in famiglia lo chiamiamo Gianni» vuole andare a fondo di questa storia «per capire se l'ostetrica e i medici della clinica dissero la verità oppure se mio marito ha un fratello gemello chissà dove». Per questo qualche giorno fa ha pubblicato un appello sul gruppo Facebook "Ti cerco", nel quale racconta la storia e chiede aiuto. I dubbi sono tantissimi. Il primo è legato «all'insistenza dell'ostetrica, che convinse mia suocera ad andare in clinica, facendo leva sulla sua ignoranza e sul fatto che in precedenza aveva già avuto un aborto e dunque era spaventata. Ma la stranezza maggiore è un'altra. Quando si risvegliò dal cesareo e la portarono in stanza, mia suocera ricevette gli auguri e le congratulazioni delle compagne di stanza. Le dissero "complimenti, hai avuto due bimbi bellissimi", aggiunsero che uno aveva pesato 3 chili e duecento grammi e l'altro 3 quattrocento. Lei era felice e rimase scioccata quando l'infermiera entrò in stanza con un solo bambino. E l'altro? «Non ce l'ha fatta. Non ci pensare, sta bene dove sta». Lei insisteva, pregava di farglielo vedere, almeno per salutarlo e accompagnarlo al cimitero: l'ostetrica e il medico scuotevano la testa «pensi a riprendersi, vada avanti». E così il marito: «Mio suocero aveva lo stesso atteggiamento. Alla moglie diceva cose del tipo "non ci pensare", "sta meglio dov'è" e chiudeva il discorso». Ma una insolita disponibilità economica nei giorni immediatamente successivi al parto, insospettì Maria: «La loro famiglia era umile, mio suocero faceva il portantino alla stazione - dice Vilma - improvvisamente iniziò ad avere soldi. Mia suocera pensò che qualcuno glieli avesse dati in cambio del bambino e che lui l'avesse dato in adozione forse per garantirgli un futuro migliore. Ma mio suocero negò sempre». Nella testa di Maria rimase un chiodo fissò «e nel 2013 chiuse gli occhi pensando a quel figlio che le era stato strappato. Anche mio marito ha sofferto molto, vive con la sensazione di essere stato privato di una parte di sé, del gemello, più di un fratello. Faremo il possibile per scoprire la verità, attraverso il Comune e gli archivi. Ma confidiamo che chiunque ricordi o sappia qualcosa di quel giorno, il 29 novembre 1959, ci aiuti»

  e  una  storia   andata  a   buon fine  è  quellla  di   Giancarlo riabbraccia suo figlio dopo 15 anni

Miriam prova a rintracciare il fratellastro in Sardegna. Edoardo, 78 anni, sogna di rincontrare gli amici di infanzia


SASSARI. Per quindici anni si erano persi, divisi dal tribunale e dal mare. Lui, il padre, non aveva più un lavoro e non poteva mantenere il figlio. La separazione dalla moglie aveva peggiorato il quadro già critico e un giudice aveva deciso che quel bambino aveva diritto a un futuro più sereno dal punto di vista economico e probabilmente più stabile da quello affettivo. Qualche mese fa Giancarlo, di Iglesias, aveva chiesto aiuto con un appello accorato nella pagina: «Mio figlio mi è stato portato via quando aveva 5 anni. Mi manca tanto, penso a lui ogni giorno. Vorrei sapere come sta e riabbracciarlo, se lui vorrà». Le sue parole hanno smosso il cuore della rete e il messaggio è stato condiviso da un capo all’altro d’Italia. Grazie al nome e cognome indicato dal padre e alla pubblicazione di alcune foto da bambino, il figlio di Giancarlo è stato ritrovato e ha voluto incontrare il padre: «Dopo 15 anni l’ho potuto riabbracciare – dice Giancarlo – ed è tutto merito di questo gruppo».
Spera in un lieto fine anche Miriam, che da Brescia cerca suo fratello in Sardegna. Un fratellastro, forse il frutto di una relazione extraconiugale del padre di Miriam «che però ha sempre negato, sino alla morte». La madre della ragazza, invece, ha sempre avuto il dubbio che il marito potesse avere avuto un altro figlio durante un periodo di lavoro in Sardegna e ha spinto la figlia a cercarlo, per capire come sta, che vita ha avuto, e sapere se è a conoscenza dell’esistenza di una sorella. «È chiaro che si tratta di una situazione delicatissima, innanzitutto perché mi muovo un po’ alla cieca, con pochi indizi e zero certezze. E poi perché se questo fratello effettivamente esiste, sicuramente ha una famiglia, la sua mamma e magari un altro papà che potrebbe averlo riconosciuto o adottato. Insomma, si rischia di turbare la serenità delle persone, per questo sono molto cauta. Ma spero comunque che l’appello possa smuovere i ricordi di qualcuno, così da scoprire la verità». E in molti casi donare un sorriso, un tuffo nel passato che scalda il cuore.
Come per il signor Edoardo, 78 anni, che a 14 anni ha lasciato Dolianova per trasferirsi nel Nord Italia con la sua famiglia. Ma gli amici d’infanzia non li ha mai dimenticati. E ora li cerca grazie all’aiuto della figlia, che ha pubblicato una foto in bianco e nero dei suoi compagni di classe alle Elementari e scrive: «A babbo piacerebbe fare una chiacchierata, anche telefonica, con un vecchio amico di infanzia».
Cerca invece la sua tata d’infanzia il signor Silverio: «Non ho mai potuto conoscerla ma ultimamente mi hanno mandato una foto dove lei mi tiene in braccio... era il giorno di Pasqua del 1967..eravamo sul lago Coghinas del comune di Tula, provincia di Sassari. Si chiama Francesca e allora aveva circa 16 anni». Silverio non ha tante informazioni, solo quella foto che gli trasmette un dolce ricordo della sua infanzia e di una persona che gli ha voluto bene e che ora lui vorrebbe riabbracciare.

  

Le   protagoniste  e  curatrici    del  progetto  (   ecco  la loro  pagina facebook     di  cui riporto  il manifesto  


Pagina creata - 12 dicembre 2016
da 3 amiche ,adesso 4 , totalmente gratuita
Questa pagina nasce dalla necessità di troppe persone di ritrovarsi... persone divise dalla vita o dall'ingiustizia...
Un opportunità per lanciare un messaggio un appello ... tra persone adulte , maggiorenni... quindi in grado di poter decidere se rispondere o meno... non ha altro scopo che dar voce a chi soffre ...
Chiediamo un favore a tutti , per far sì che riusciamo a gestire al meglio la pagina...
Quando volete pubblicare un appello cercate sia comprensibile a tutti e mettete tutto quello che sapete , il nome, la città, la provincia ,la data di nascita , diventa un problema per noi dover stare a chiedere ogni cosa e poi rimetter insieme l'appello.
Poi quando invece ci contattate per dare informazioni per an appello, inviateci il link dell'appello a cui vi riferite , con nome o iniziali e data di pubblicazione sarà più semplice per noi contattare chi lo ha messo...
Naturalmente torniamo ancora a chiedervi di segnalarci commenti sgradevoli e fuori luogo, come avete sempre fatto...
Sono piccole cose, ma considerando che siamo solo 3 e che gli appelli sono centinaia ci aiuterete a riuscire a gestire
Grazie di cuore a tutti
ATTENZIONE NOI ABBIAMO SOLO QUESTA PAGINA... DIFFIDARE DI CHI HA COPIATO E MESSO COME DESCRIZIONE DI UN GRUPPO QUESTE NOSTRE PAROLE
I POST VANNO CONDIVISI NON COPIATI E é VIETATO SCARICARE LE FOTO!


Esse sono Una sarda, le altre di Firenze e Milano: sono le ideatrici del gruppo con più di 260mila followers
 Tante amiche che chiedono aiuto, stanno cercando fratelli, sorelle, in moltissimi casi figli, e non sanno bene che fare. La legge è cambiata, la blindatura di un tempo non c’è più anche se resta altamente tutelato il diritto alla riservatezza.  ( vedere     screenshot   sempre  dalla  nuova  Sardegna del  24\1\2022  al lato  )    Ma l’ostacolo maggiore è lo scarso numero di informazioni da cui partire per riuscire a individuare chi si sta cercando.
 L’unione mai come in questi casi fa la forza, anzi le condivisioni di informazioni. Ecco allora l’idea, come raccontano le tre creatrici della pagina Facebook “Ti Cerco, appelli di persone che cercano le loro origini e i propri cari”, nata nel 2016. «Siamo tre amiche, tutte mamme e una di noi anche nonna, una delle tre è sarda, le altre di Firenze e di Milano. Ci siamo conosciute tramite un gruppo facebook che parla di bambini presi ingiustamente dalla giustizia. I casi di bambini fatti sparire erano talmente tanti che ci è sembrato giusto, invece di fare singoli appelli che si perdono nella rete, realizzare una sola pagina che li mettesse insieme». È stata Rossana a dare l’input, coinvolgendo le altre due amiche che hanno subito aderito con entusiasmo. «E così siamo arrivate ad avere 263mila follower e tantissime persone che si cercano. E molte si trovano, questa è la più grande vittoria». Già, perché tra un sos e l’altro, grazie alla rete che amiplifica i messaggi e li trasporta in tutta Italia, è sempre più frequente che l’appello arrivi alle orecchie del diretto interessato che decide di farsi avanti per conoscere chi lo cerca e rimettere insieme una storia che si era spezzata, spesso per i casi della vita, altre volte in maniera non voluta e dolorosa. «Spesso le ingiustizie dividono chi si ama, noi li aiutiamo a ritrovarsi», dicono le tre amiche. Il loro impegno è tanto, verificano tutti i messaggi, stanno attente che non contengano offese e non violino la privacy. E lo fanno a titolo gratuito: l’alto numero di follower fa gola agli inserzionisti, ma loro rifiutano pubblicità. «Per noi è importante che intorno a questo gruppo non giri un centesimo, sono storie dolorose e non sarebbe giusto guadagnare sul dolore. A ripagarci è la felicità di chi riesce a trovare chi sta cercando, regalare un sorriso a chi soffre è per noi la più grande  gratificazione».



Dobbiamo fare di tutto per aiutare ed incentivare queste persone a parlare ed a raccontare le loro storie. Sembra che vicende simili se ne siano verificate moltissime: molto probabilmente, queste signore soltanto adesso, leggendo le altre storie simili, stanno cominciando a maturare la consapevolezza di essere state ingannate o, quantomeno stanno cominciando a nutrire dubbi. Se facciamo commenti un pò inopportuni, giudicando con i mezzi ed il metro di oggi fatti di 50 anni fa, facciamo sentire stupide queste persone e le disincentiviamo a raccontare, così contribuendo al mantenimento dell'omertà e, indirettamente, a rendere un buon servizio ai delinquenti di allora ed un danno alla verità. Aiutiamo queste persone a parlare: qualcuno potrebbe potrebbe ricordare male, qualcuno potrebbe sbagliarsi, ma, nel mazzo, qualcuno potrebbe far emergere qualcosa e speriamo sempre in qualche ricongiungimento.




















Palmadula, sorelle beffano il prete e si ricomprano la loro casa che lui aveva comprato all'asta




Tutti, a Palmadula, sapevano di quella casa finita all'asta giudiziaria. Niente di che, una manciata di metri quadrati segnati dal tempo, crepe nel soffitto, un terreno zeppo di erbacce. Ma, a quelle quattro mura le sorelle Zara erano legate dall'infanzia. «Era di babbo - dicono - veniva qui a piedi dall'Argentiera». L'aveva comprata 80 anni fa il nonno. Poi il proprietario era diventato uno zio, morto improvvisamente nel 1995, senza testamento ma con una lunga scia di debiti. I familiari non trasferirono subito la proprietà e la casa venne requisita dal tribunale. Il valore del bene stimato era di 129mila euro. Così i familiari cercarono di recuperare i soldi, contattarono il curatore fallimentare manifestando l'interesse a riacquistare l'immobile, e nel frattempo aspettarono che, dopo qualche asta deserta, il prezzo diventasse abbordabile. Alla fine, con 35mila euro, l'affare si poteva chiudere. A quell'asta, tra i compaseani, non si era presentato mai nessuno. Perché delle 300 anime di Palmadula, chi avrebbe mai avuto il coraggio di fare un simile torto? Eppure dal curatore fallimentare si fece avanti un acquirente del tutto inaspettato. «Quando l'ho visto non volevo credere ai miei occhi - dice Luca Massetti, figlio di Anna - era padre Alberto Azzeris Moretti, il parroco della nostra borgata». Nella sua busta chiusa c'erano 55 mila euro, contro i 35 della famiglia Massetti-Zara. L'asta partì proprio da quella cifra, e con un paio di rilanci pesanti il sacerdote si aggiudicò il bene per 80mila euro. I diretti concorrenti si arresero a 71mila. «Mai ci saremmo aspettati una simile pugnalata dal nostro prete», dissero. E lui, don Alberto, rispose così: «Io mi sono presentato a quell'asta in qualità di privato cittadino, non di sacerdote e come privato cittadino ho il diritto di investire i miei soldi come meglio ritengo. Senza dare spiegazioni a nessuno. Da quel rudere realizzerò una residenza per anziani che in futuro donerò alla diocesi». Invece, scherzo da una parte, scherzo dall’altra, la storia è andata ben diversamente. Ci sono voluti otto anni per il lieto fine, ma finalmente è arrivato.
Infatti se Il primo a fare lo scherzo da prete, otto anni fa, era stato don Alberto Azzeris Moretti. Si era presentato a sorpresa all’asta giudiziaria, e a colpi di rilancio aveva soffiato la casa di Palmadula agli ex proprietari che tentavano di ricomprarla.


 
Le due anziane sorelle, Anna e Paola Zara, ( foto sopra  )  che in quelle quattro mura erano nate, cresciute, ci vivevano e ci lavorano, e che col parroco avevano un rapporto di amicizia e fiducia, per poco non ci restarono secche. Otto anni dopo, tra tira e molla in tribunale, sfratti, ufficiale giudiziario e sgombero con svenimento, lo scherzo da prete lo mettono a segno i figli e nipoti Massetti-Zara. «Non ci siamo mai rassegnati a perdere la casa di famiglia – racconta Luca – Quello era un pezzo di cuore». Così, dopo averle tentate tutte, tra litigi col parroco, avvocati, lettere ai vescovi e dopo aver scomodato perfino il Papa, non potendo bussare più in alto, hanno tentato la soluzione fai da te. Voce femminile, accento meneghino: «Buongiorno don Alberto, sono la signora... chiamo da Milano e sarei interessata ad acquistare la sua casa di Palmadula». Il parroco all’inizio non sembra molto entusiasta della proposta, ma dopo altre telefonate vacilla e comincia a mostrare interesse. I Massetti, in verità, ci avevano già provato qualche mese prima, ma l’accento romano non era stato altrettanto convincente. L’acquirente della borghesia lombarda, invece fa breccia. «È stata la compagna di mio fratello. Lui ci è cascato in pieno». Così si mettono d’accordo per il prezzo, consegnano tutta la documentazione al notaio, e finalmente il 26 di gennaio arriva il momento della firma. Don Alberto Azzeris Moretti impugna la penna e mette il suo nome nero su bianco. Non appena la casa cambia proprietario, ecco l’operazione “Carramba che Sorpresa!!!”. Quando “l’imprendiprete”, così è stato soprannominato a Palmadula, esce dallo studio notarile, ad accoglierlo c’è la famiglia Massetti. Luca abbassa la mascherina e dice: «Don Alberto, come va? Mi riconosce adesso? Ha visto? Tutto è bene quel che finisce bene. Alla fine la casa è ritornata ai suoi proprietari».Il parroco a quel punto capisce tutto, ma non fa una piega. Incassa lo scherzo da prete senza scomporsi. Saluta e va via con gentilezza, come se nulla fosse accaduto. D’altronde quella casa l’aveva comprata all’asta per 80mila euro, e adesso l’aveva ceduta per 110. «Sì – dice Luca Massetti – ma a noi non l’avrebbe venduta nemmeno per un milione».

Accolta dai talebani una giornalista neozelandese incinta che non riusciva a rientrare nel suo paese per le regole anti-Covid

   canzone  suggerita
Guns N' Roses - Don't Cry

anche i duri , i fanatici \ fondamentalisti hanno un cuore anche hanno un cuore . Tale gesto sarà pure propaganda per mostrarsi democratici all'occidente ed al resto del mondo , ma è un bel gesto.  

Ed  è  quello     che  è  successo     recentemente   a questa  giornalista   Neozelandese 


Accolta dai talebani una giornalista neozelandese incinta che non riusciva a rientrare nel suo paese per le regole anti-Covid 



Charlotte Bellis in una foto dal suo profilo Instagram
  Charlotte Bellis, collaboratrice del New Zealand Herald ha raccontato la sua paradossale vicenda. Aveva denunciato il trattamento riservato da Kabul alle donne, ma ora è stata aiutata. Unico consiglio: "Non dire che non sei sposata"


 






di   Enrico Franceschini

LONDRA - Una giornalista incinta neozelandese costretta a chiedere asilo al regime dei Talebani in Afghanistan perché le severe norme sulla quarantena le impediscono di tornare nel suo paese. È la paradossale vicenda raccontata dalla protagonista, Charlotte Bellis, in un blog sul giornale a cui collabora, il New Zealand Herald. "Una brutale ironia che, dopo avere criticato i talebani per il modo in cui trattano le donne, io debba rivolgere accuse simili alle autorità del mio governo", scrive la reporter. "Quando sono i talebani a darti rifugio, capisci che la tua situazione è un po' strana".


                    sempre  dal  suo  istangram    https://www.instagram.com/p/CZSRlVysIQF/

La Nuova Zelanda è riuscita a mantenere al minimo la diffusione del Covid, con solo 52 vittime su una popolazione di cinque milioni di abitanti. Ma le regole che impongono anche ai propri cittadini che rientrano in patria una quarantena di 10 giorni in isolamento in alberghi controllati dall'esercito hanno creato una lunga lista d'attesa fra quanti vogliono tornare a casa dall'estero. Come nel caso della cronista in questione

Ora come dimostra questi due   articoli sempre di repubblica :   <<  Afghanistan, i talebani reprimono la manifestazione delle donne usando spray al peperoncino >>  di Pietro Del Re del 17 Gennaio 2022 e    << Nel nascondiglio inglese delle calciatrici di Herat: “I talebani ci odiano volevano lapidarci” >> di Antonello Guerrera del 23\1\2022  non    sono     per  niente  democratici    verso le  donne   ed  il  gesto potrebbe anzi meglio  è solo  propaganda   .  Forse perchè   sempre  secondo  repubblica  del  30\1\2022  

Lo scorso anno Bellis stava lavorando per Al Jazeera, la rete televisiva di news del mondo arabo, seguendo il ritiro delle truppe americane dall'Afghanistan quando attirò attenzione internazionale per le sue critiche ai talebani sul trattamento delle donne. Trasferitasi in Qatar, ha scoperto di aspettare un bebè, descrivendo la gravidanza come "un miracolo" perché i medici le avevano detto in precedenza che non avrebbe potuto avere figli: dovrebbe partorire una bambina nel maggio prossimo.
Allora ha dato le dimissioni da Al Jazeera e con il fidanzato Jim Huylebroek, un fotografo freelance per il New York Times, si è spostata in Belgio, paese di cui quest'ultimo è originario. Ma non aveva un permesso di residenza e così ha scoperto che l'unico paese per il quale avevano entrambi un visto era l'Afghanistan. Così ha presentato richiesta ai talebani che nonostante le sue passate critiche al regime l'hanno fatta entrare a Kabul senza problemi, con una sola avvertenza: "Limitatevi a dire a tutti che siete sposati e se ci sono difficoltà avvertiteci. Non preoccupatevi". Nel frattempo ha presentato 59 documenti al governo neozelandese per ottenere un rimpatrio d'emergenza, ma la richiesta è stata respinta. Dopo la pubblicazione del blog e l'eco che ha suscitato, riferisce il Guardian di Londra, un portavoce governativo l'ha contattata, indicando che la sua richiesta non esaudiva la condizione di un trasferimento entro 14 giorni e invitandola a ripresentarla. A questo punto la pratica sembra essersi messa in moto ed è possibile che potrà rientrare in Nuova Zelanda. Dove nessuno, evidentemente voleva sembrare meno attento dei talebani sui diritti delle donne.