Lo so che come me ne avete ..... di vax e no vax , green pass e non grenne pass . Ma a rompere il mio tentativo di non parlare di questo argoento e d'ignorare i variu dibattiti o pseudo tali che ccircolano in rete è l'apprendere poco fa via radio della morte per covid dellla bimba di 11 anni ricoverata a Palermo: era affetta da malattia rara . La bambina era stata ricoverata per Covid nelle scorse settimane. La piccola era risultata positiva alla variante Delta, poi era stata intubata a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni. Non riuscendo a profferire parole come è avvenuto , chi mi segue su fb lo sa , degli incendi siccessi in Sardegna ( lontano da dove abito ed resiedo , ma nella zona dei miei avi da parte materna ) la lascio che a parlarne sia le fonti che ho trovato in rete .
N.b
onde evitare ed prevenire accuse ed commenti \ attacchi personali del tipo riporti solo fonti comuniste o maiustream o menate varie , riporto diverse testate a voi decidere se riempirmi di 💩🤮🗑☠🤬📞🔊👿 .
Il primo articolo proviene da da https://palermo.repubblica.it/cronaca/ 27\7\2021
Morta di Covid bambina undicenne, era affetta da una malattia metabolica rara. Nessun vaccinato in famiglia. La piccola era stata contagiata dalla sorella di ritorno da un viaggio in Spagna
di Giusi Spica
E' morta la bambina di 11 anni ricoverata all'ospedale Di Cristina di Palermo che si trovava intubata dopo aver contratto la variante Delta del coronavirus. Alle 13 il cuore della piccola, affetta da una malattia metabolica rara, ha smesso di battere. Sta meglio invece il neonato di due mesi, anche lui positivo, ricoverato in Terapia intensiva neonatale all'ospedale Cervello.La bambina era stata contagiata dalla sorella maggiore di ritorno da un viaggio in Spagna. Tutti i componenti della famiglia non sono vaccinati e sono risultati positivi al virus. "Sono no-vax", aveva dichiarato il presidente della Regione Nello Musumeci, sottolineando l'importanza delle vaccinazioni per prevenire le forme gravi della malattia."I bambini e i soggetti fragili saranno protetti solo quando si svilupperà l'immunità di comunità - aveva già dichiarato Desiree Farinella, referente sanitario dell'ospedale "Di Cristina"- Ricordiamo che si possono vaccinare tutti i bambini dai 12 anni in su, sia presso la nostra struttura dedicata ai bambini che presso i centri vaccinali. In caso di soggetti fragili che non possono vaccinarsi è necessario che i nuclei familiari siano immunizzati a loro protezione".
il secondo da https://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/
27 LUGLIO 2021 17:16 Covid, bimba di 11 anni con variante Delta morta in ospedale a Palermo | Infettata dalla sorella, tutta la famiglia è no-vax Il presidente della Regione Musumeci: "E' fondamentale vaccinarsi". La ragazza era tornata da una vacanza in Spagna
Una bambina di 11 anni è morta all'ospedale Giovanni Di Cristina di Palermo dopo aver contratto la variante Delta del coronavirus. La piccola, che era affetta da una malattia metabolica rara, era ricoverata da diversi giorni nel reparto di terapia intensiva. Migliorano invece le condizioni di salute di un bimbo di due mesi, anche lui positivo al Covid, ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale Cervello. Il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci aveva parlato nei giorni scorsi dei due casi. Soprattutto di quello legato alla bimba poi deceduta: "E' stata infettata dalla sorella che era stata in Spagna, nessuno in famiglia era vaccinato perché no-vax". La 11enne era da circa dieci anni in cura presso il reparto pediatria del Giovanni Di Cristina proprio per la sua patologia. Due settimane fa il ricovero per le condizioni gravi di salute che erano repentinamente peggiorate dopo aver contratto il Covid-19.
Sesto Pusteria, 7 luglio 2021 – Nasim Eshqi è l’ospite d’onore della quinta edizione della Vertical Arena a Sesto Pusteria. Il rinomato forum specialistico sull’alpinismo, organizzato dall’Associazione turistica di Sesto Pusteria e dalla guida alpina Lisi Steurer, si svolgerà sabato 24 luglio a partire dalle ore 20. Dopo la proiezione del documentario “Climbing Iran”, che racconta la vita piena di ostacoli di Nasim Eshqi, l’unica climber professionista iraniana prenderà parte a una tavola rotonda sul tema “pioniere in montagna”I
In Europa e in molte altre parti del mondo è assolutamente naturale che delle giovani donne si aggrappino a una parete roccia e, con movimenti energici e allo stesso tempo eleganti, salgano verso l’alto, arrampicandosi per metri e metri. In Iran, però, le lancette degli orologi girano a un altro ritmo, anche nel XXI secolo. Lo sport femminile, quindi anche l’arrampicata, è malvisto nella società patriarcale. E quando possono, nella Repubblica Islamica – che conta più di 80 milioni di abitanti – a volte le atlete sono autorizzate a praticarlo, ma soltanto indossando rigorosamente il velo.Nasim Eshqi vive il suo sogno. Oltrepassa questi ostacoli. Nasim Eshqi compie un altro passo in avanti e stimola altre giovani donne in Iran ad arrampicare, per diventare forti e indipendenti, perché: “fa lo stesso se sei ricco o povero, nero o bianco, iraniano o italiano, uomo o donna: la forza di gravità riporta tutti per terra allo stesso modo e questo mi dà una sensazione di libertà e di uguaglianza”, è il credo di Nasim Eshqi.Un documentario premiatoLa vita di questa straordinaria persona è al centro dei 53 minuti del documentario “Climbing Iran” della regista Francesca Borghetti, che ha di recente vinto il premio del pubblico al Trento Film Festival. Questo ritratto di Nasim Eshqi sarà anche al centro della quinta Vertical Arena di sabato 24 luglio a Sesto e sarà proiettato alle ore 20. Al termine della proiezione la protagonista parteciperà a una tavola rotonda sul tema “pioniere in montagna”.Quest’anno la Vertical Arena si svolgerà in inglese (il documentario sarà sottotitolato in italiano) e si svolgerà all’aperto, davanti alla palestra d’arrampicata di Sesto. In caso di maltempo la manifestazione si sposterà nella Haus Sexten. I biglietti per il forum specialistico sono disponibili, al prezzo di 10 euro, fino a venerdì 23 luglio presso l’Associazione turistica di Sesto Pusteria (+39 0474 710310 oinfo@sexten.it). L’iscrizione è obbligatoria e l’accesso sarà consentito soltanto dietro esibizione del Green Pass (presso l’Associazione turistica è possibile informarsi a tal proposito).
Durante una serata del Trento Film Festival, “Climbing in Iran e libertà. Come la gravità porti all’uguaglianza”, abbiamo potuto conoscere NASIM ESHQI, l’unica climber professionista
iraniana che pratica l’arrampicata all’aperto, un’alpinista capace di aprire vie su roccia con all’attivo già una settantina di ascese.Una pioniera dell’arrampicata sportiva outdoor. Le montagne da scalare però, come sapete, in Iran non sono solo fisiche ma anche barriere sociali culturali e religiose. Nasim, è l’unica donna in Iran a fare dell’arrampicata all’aperto la sua professione: su 80 milioni di abitanti sono solo 300 le donne che praticano l’arrampicata in palestra con orari separati dagli uomini e solo una decine quelle che lo praticano outdoor, ma nessuna è al livello di Nasim. Nasim ha 36 anni, è cresciuta e nata a Teheran la capitale dell’Iran in un contesto popolare e tradizionalista. Ex atleta di kickboxing, scala da 13 anni, ha all’attivo diverse vie in Armenia, Georgia, Turchia ed è riuscita a raggiungere il livello di scalata 8b in parete.Facendo un passo indietro, già da piccolissima Nasim era una bambina ribelle, iperattiva, maestre e genitori non sapevano più come fare a contenerla. Lei soffriva perchè la fecevano sentire una bambina “anormale”. Crescendo non pensava certo al matrimonio, ma a praticare sport, prima il kickboxing, poi è stato amore a prima vosta con l’arrampicata. Uno sport che ha dovuto imparare praticamente da autodidatta, visto che in Iran è proibito per una donna scalare con un uomo, soprattutto se questo è molto religioso o sposato.Una passione “folle” dicevamo per l’arrampicata. Ha rinunciato, infatti, a tutto: ha lasciato il lavoro, ha iniziato a studiare Scienze Motorie e ha cominciato a viaggiare per migliorarsi. Nessuno ha fatto tutto questo in Iran.La gravità per lei è una “sorta di divinità imparziale”, perchè non fa differenza tra uomini e donne. “Quando arrivi ai piedi di una parete, nessuno ti chiede il passaporto. Davanti alla montagna siamo tutti uguali”.
Per lei, dicevamo, perseguire questa sua passione in Iran, è pericoloso. Deve sempre stare attenta a quello che dice e alle interviste che rilascia. La società, infatti, la vorrebbe sposata, sempre con il capo coperto e un lavoro normale. I suoi genitori sperano che metta la testa a posto e metta da parte soldi per comprarsi una casa e un’auto.Ma lei va avanti per la sua strada, e lo fa in modo originale. Quando scala, infatti, mette lo smalto rosa shocking, anche se sa benissimo che arrampicando verrà via. “Se alla sera vedo che è rimasto poco smalto, sono contenta: vuol dire che ci ho dato dentro con l’arrampicata” scherza Nasim.Ha tanti sogni nel casetto, oltre che aprire una nuova via a cui dare il proprio nome sul monte Behistum, un enorme promontorio che si erge nel deserto, oggi patrimonio dell’Unesco, poco fuori Teheran, vorrebbe andare in Yosemite, anche se per il momento questo pare un obiettivo lontano.In Iran, in generale, fare sport è difficile, è considerata una perdita di tempo. In Iran, nonostante il talento, nessuno ti prende sul serio. Soprattutto se sei una donna.La condizioni della donna è cambiata dopo la Rivoluzione islamica del 1979. Ci sono foto che ritraggono atlete negli anni Settanta indossare uniformi simili a quelle Occidentali e con il capo scoperto. Mentre alle Olimpiadi di Rio del 2016, le atlete iraniane avevano testa, braccia e gambe coperte con tessuti tecnici. È proprio notizia di pochi giorni fa, che 5 donne sono state costrette a travestirsi da uomini per poter andare allo stadio eludendo la sicurezza. È quindi per questo che parte del tempo Nasim lo dedichi ad insegnare alle bambine: vuole che diventino scalatrici indipendenti.
da repubblica del 25\7\2021
A chiederle cosa si senta, se un’eroina, un simbolo o che altro, Nasim Eshqi sorride: «Eroina suona come una droga, decisamente no. Simbolo non so di che cosa. Diciamo che sono una persona che ha aperto molte vie su roccia, ma non solo su roccia, mi piace aprire diversi modi di pensare». Doverosa precisazione, perché Nasim è una climber, in italiano si potrebbe tradurre arrampicatrice, ma la parola ha uno spiacevole retrogusto di opportunismo e rampantismo. Lei invece si arrampica sulle montagne, scala pareti anche verticali con chiodi, cordae trapano, arriva in cima e scavalca là dove sembrava impossibile. Ed è la più brava che c’è in Iran, anche perché nel suo Paese le alpiniste sono poche, anzi in generale sono pochi gli alpinisti. Tante di queste vie le ha aperte altrove, anche in Europa e in Italia. «Il mio meraviglioso Iran è pieno di montagne, sarebbe un paradiso per la gente come me, ma un paio di scarpe da arrampicata costano come un mese di stipendio, la gente se va in montagna preferisce fare passeggiate e godersi il paesaggio. Bellissimo, ma ci si perde parecchio se non si sale in quota».
Sulle corde Nasim Eshqi, 39 anni, durante una scalata. In Iran sono pochissime le donne impegnate in questa disciplina
Lei non si è voluta perdere niente, e da 23 anni dei 39 che ha ora ha seguito le proprie passioni fino a farne un lavoro. Prima il kickboxing, di cui da ragazzina è stata per anni campionessa nazionale: «Questo sport mi ha dato una preparazione mentale importante, la determinazione ad andare avanti senza mollare fino alla fine anche quando tutto sembra perduto. Ma alla fine ho cambiato perché ho capito che il kickboxing è solamente una sfida con un’altra persona, l’arrampicata è una sfida con te stessa, contro i tuoi limiti, qualcosa di molto più difficile e appagante». E poi appunto le montagne, raggiungendo risultati così importanti, sia in assoluto sia per il fatto di essere donna, da meritarsi l’attenzione di Francesca Borghetti, regista italiana, che su di lei ha realizzato il documentario Climbing Iran prodotto da Nanof, premiato al Festival di Trento, stasera in onda a Speciale TG1 sulla Rai e a settembre finalmente in giro nelle sale. «Me l’avevano proposto altri, ma volevano solo fare soldi, mostrare il fenomeno, Francesca ha voluto mostrare la persona». E quando, giovedì, le due l’hanno visto per la prima volta assieme in un cinema, a Sondrio, invitate dalla Fondazione Bombardieri del Cai, hanno chiuso con la pelle d’oca: «Abbiamo ripensato anche alle difficoltà, ci sono voluti quattro anni». Anche per motivi che spiegano molto. I soldi sono stati raccorti col crowdfunding, ma quando la piattaforma — americana — ha visto la parola Iran nel titolo ha bloccato tutto, «e abbiamo dovuto ricominciare da capo». E poi certo, il fatto di essere donna che segue i propri sogni in Iran non è facile: «Certamente ci sono difficoltà sul mio percorso, limitazioni da parte della società e della cultura dominante che riguardano le donne. In città rispetto le regole, ma in montagna dobbiamo ascoltare la natura per vestirci nella maniera corretta».
D’altronde lei stessa, checché ne dica, sa di essere anche un esempio: ora è insegnante e ha pure allieve a cui prova a inculcare la voglia di dare il massimo, superare le paure e le convenzioni. «Ma soprattutto la libertà fisica e mentale. Quando scalo una roccia, mi sento bene, mi diverto, respiro profondamente, assaporo il contatto con la natura. Arrampicare apre la mente E quando poi giro l’Europa e il mondo — assai poco, nel periodo, e non solamente per il Covid: pensi che stavolta l’Italia mi ha dato un visto solamente di 120 ore — i timori sull’Iran svaniscono. Anzi, alla fine tutti sono interessati a conoscere meglio il mio Paese. Tra l’altro, se ha notato, si parla di "catene" montuose. Le vette sono legate tra loro, la natura non conosce confini. Esattamente come dovrebbe essere tra gli uomini. E le donne, ovviamente. Perché poi sa quali sono le lezioni più importanti dell’alpinismo, in fondo? Sono due. Primo, devi superare i tuoi stessi limiti, osare, prenderti qualche rischio, che fa parte dell’avventura, ma senza azzardi sciocchi perché la vita è solamente una. Secondo, che tu sia italiano, inglese, iraniano o tedesco la forza di gravità ci schiaccia tutti a terra nello stesso modo».
E ride felice, coprendosi poi la bocca con le mani dove spicca lo smalto rosa: «Oh certo, lo uso ogni giorno, mattina e sera, anche prima e dopo aver scalato una parete. Ma sono una donna, no?».
Ha toccato cime difficili e ha aperto nuove vie anche in Europa
Una regista italiana racconta la sua storia in un documentario "Rispetto l’Islam è la mia religione ma sulla roccia devi ascoltare la natura"
Facevo kickboxing ma è una sfida con un’altra persona, l’arrampicata è una sfida contro te stessa
FELTRE— «Per nostra figlia vogliamo soltanto la pace. La sua vita non è più vita, è pura sofferenza. Samantha non avrebbe mai voluto un’esistenza così, in un letto di ospedale, senza più coscienza, alimentata con una sonda, tormentata dai dolori. Ha trent’anni e nessuna speranza di miglioramento. La nostra bambina non c’è più, lasciatela andare via». Giorgio D’Incà e Genzianella Dal Zot si tengono per mano. Trentasette anni di matrimonio, tre figli, un amore palpabile che non ha più bisogno di
I genitori Giorgio D’Incà e Genzianella Dal Zot
parole. E una battaglia, enorme, che mai avrebbero pensato di dover combattere: ottenere che Samantha possa morire, interrompendo la nutrizione e l’idratazione. Come fu per Eluana Englaro. Ricostruendo le sue volontà. Ad oggi, finora, lo Stato ha risposto: “No”.Genzianella piange, parla e piange. «Quel giorno, era il 12 novembre del 2020, Samantha era uscita di corsa per andare al lavoro, era impiegata in una fabbrica di occhiali. È caduta qui davanti, nel vialetto. La fine è cominciata così», racconta Genzianella, accarezzando un foto in cui Samantha sorride insieme ai due fratelli. La vita di Samantha, detta Samy, oggi ridotta a uno stadio neonatale in un letto dell’ospedale di Vipiteno, cambia per sempre quella mattina, tra i fiori di questa villetta alle porte di Feltre, con il prato curatissimo e i nani nel giardino, orgoglio di una
esistenza di sacrifici, Giorgio fa il carrozziere, Genzianella lavora in una ditta di pulizie.«Sono stato io ad accompagnarla in ospedale, a Feltre. Cadendo si era rotta un femore. Il 12 novembre è entrata, il 13 è stata operata, dopo pochi giorni l’abbiamo riportata a casa ». Non è però l’inizio di una guarigione bensì l’inizio di un precipizio. Invece di recuperare, nonostante la fisioterapia, le gambe di Samantha iniziano a gonfiarsi. Al pronto soccorso, le dicono, semplicemente, di “tenere le gambe in alto”, ricorda Giorgio. Invece qualcosa di gravissimo è già accaduto a Samantha, quel “qualcosa” per cui Giorgio e Genzianella chiederanno giustizia. «Sarà il secondo obiettivo, adesso dobbiamo liberare nostra figlia dalla prigione in cui è costretta».Il 2 dicembre 2020 Samantha, che ormai ha molte parti del corpo sempre più gonfie, viene ricoverata con un’ambulanza all’ospedale di Feltre. Le riscontrano una polmonite bilaterale “non da Covid”. Giorgio scandisce lentamente le parole, trattiene la commozione, ma le lacrime scendono giù sui baffi folti di un uomo semplice che ormai conosce bioetica e sentenze della Consulta.«Il quattro dicembre alle 6,30 del mattino ci chiamano: stiamo portando Samantha a Treviso, i suoi polmoni sono collassati». I medici la salvano, ma la figlia che Giorgio e Graziella si ritrovano davanti è un corpo inerte, non parla più, non si regge più, non li sente più, non li vede più. «Il suo cervello per troppo tempo non aveva ricevuto ossigeno. La nostra Samy era entrata in ospedale per una frattura, ne è uscita come un vegetale. Intorno alla nostra famiglia è sceso il
buio».Cosa è successo? Dove è successo? Chi ha sbagliato? «Hanno isolato un batterio che forse, dicono, potrebbe essere stato la causa della tragedia ». Chissà. Giorgio è cauto. Ma le sue parole sono acciaio fuso. «Dovrà sapere il mondo intero quello che ti hanno fatto figlia mia — dice — qualcuno pagherà».Genzianella sale al primo piano e mostra la cameretta di Samantha, l’unica dei tre figli che era ancora casa con loro. «L’azzurro era il suo colore preferito, adorava il mare, la musica e fare amicizia.
Progettava di andare a vivere da sola. Era aperta, socievole, aiutava chiunque avesse un problema. Ogni cosa è rimasta come il giorno in cui l’hanno ricoverata, la borsa appesa alla sedia, il suo cellulare, mio marito gli fa la ricarica, è strano, sì, ma è un modo per sentirla vicina, ogni settimana invece io cambio le lenzuola anche se so che non tornerà». Sul letto un orso, i disegni per “zia Samantha” che le hanno dedicato i figli della sorella, due navi in bottiglia, per la sua passione del mare. È all’inizio del 2021, dopo un tristissimo Natale, che inizia la battaglia di Giorgio e Genzianella per “dare dignità a Samantha”. Perché c’è un punto nodale in questa storia che si intreccia pur con alcune differenze, con la battaglia per il fine vita e l’eutanasia legale. Oggi per Samantha, che respira da sola ma è nutrita con una “Peg”, ossia un sonda gastrostomica, sarebbe possibile smettere di soffrire se i medici interrompessero la nutrizione e l’idratazione, accompagnandola con una sedazione profonda. Lo prevede la legge 219 del 2017, ottenuta grazie alla durissima e tragica battaglia di Beppino Englaro padre di Eluana.Samantha però non ha lasciato scritto nulla, sono pochissimi finora gli italiani che hanno depositato un biotestamento. E forse anche perché a trent’anni chi ci pensa a una tragedia così grande? Questo è il punto di contatto con Eluana: Giorgio e Graziella D’Incà chiedono che sulla base di quello che era il pensiero di Samantha sul fine vita, Samy venga lasciata morire.Giorgio: «Spero che non ci vogliano diciassette anni di calvario come fu per Beppino. Samantha aveva seguito la vicenda di Eluana anche se era molto giovane, così come la storia di Dj Fabo. Ammirava la forza della madre e della fidanzata. Ci ha sempre detto di non voler dipendere da nessuno. È quello che ho fatto presente al comitato etico dell’ospedale quando mi hanno detto che volevano mettere la Peg a Samantha. Perché prolungare le sue sofferenze?».Giorgio e Genzianella, insieme agli altri due figli provano ad opporsi. Il tribunale però nomina un amministratore di sostegno (rifiutando di incaricare il papà di Samantha, perché “troppo coinvolto”) che firma e la sonda viene applicata nello stomaco di Samantha. Il tribunale infatti ha deciso che prima di prendere una decisione definitiva per Samantha debba tentarsi una riabilitazione in un reparto specializzato all’ospedale di Vipiteno.«Purtroppo noi abbiamo una perizia firmata dal prof Leopold Saltuari di Innsbruck, lo stesso che ha curato Schumacher e Zanardi, secondo il quale il massimo a cui Samy potrebbe arrivare, se mai la riabilitazione funzionasse, è la coscienza di un neonato di due mesi».Giorgio e Genzianella si abbracciano. «Nemmeno questo sta succedendo. Nessun progresso. Nostra figlia soffre ogni giorno di più. I medici, i giudici devono ascoltarci». Genzianella: «A volte mi sembra di picchiare la testa contro muri di cemento. Bum bum, nulla accade. Perà ho promesso a Samantha: il giorno in cui andrai via, il mio cuore si spezzerà, ma tu sarai libera».
Cari anti green pass e cari antivacinisti ( acritici e critici ) prima di usare le paroile appuratevi del significato . La vera dittatura sanitaria è un altra cosa . Non è, visto che qui si tratta di provvedimenti emergenziali vista la pandemia quella contro cui voi vi opponete al Green Pass negli irresponsabili vista la mancanza della diastranza di siucurezza e l'uso di mascherina , assembramenti di piazza dei giorni scorsi. La vera dittatura sanitaria viaggia sotto il nome di obiezione di coscienza, viene agita da decenni in tutte le strutture sanitarie e benché metta a rischio il diritto alla salute psicofisica di oltre la metà della popolazione, non fa alcun rumore se non qualche voce isolata . Nessuna istituzione la mette in discussione e anzi è protetta ed esercitata come se fosse intoccabile. In questo Paese è considerato pacifico il fatto che preservare l'integrità di coscienza di poche persone sia più importante che garantire il diritto di milioni di donne a decidere se essere madri o no.ed in alcuni casi curatrsi qual'ora l'aborto sia spontraneo .
Questa dittatura sanitaria ha conseguenze drammaticamente rilevanti sulla vita e sulla salute delle donne, perché le costringe a cercare strade alternative, più costose nei casi fortunati o meno sicure in tutti gli altri, per ottenere quello che in teoria sarebbe codificato come servizio essenziale del sistema sanitario nazionale, quindi garantito. Il caso dell'ultimo medico non abortista del Molise che non può andare in pensione perché nessuno si è presentato per sostituirlo mostra con chiarezza il cortocircuito normativo in cui siamo costrette a vivere in Italia.Stavoltà do ragione alla radical chic \ intellettuale da solotto Miche la murgia quando dice che
[...] Il contesto di questi pensieri è patriarcale, perché considera le donne funzioni del sistema e non persone; per questo Florynce Kennedy amava ripetere il paradosso che se gli uomini potessero rimanere incinti, l'aborto probabilmente diventerebbe un sacramento. Non sapremo mai se è vero o no, ma nel caso del Molise una certezza l'abbiamo già ed è che abbiamo un problema democratico: il diritto a obiettare per i medici è infatti garantito ovunque, mentre una donna che non vuole diventare madre deve avere abbastanza fortuna da vivere nella regione giusta. Se davvero vi indignano le dittature sanitarie, considerate questa, se non altro perché, a differenza dell'altra, è vera. [ ... ] da repubblica comment del 26\7\2921
Infatti Nel nostro sistema ci sono infatti due diritti confliggenti: quello di decidere di non generare e l'altro, quello di sottrarsi a uno specifico compito medico regolato dalla legge. Poiché il secondo diritto è considerato indiscutibile, quando a rivendicarlo è la maggioranza dei medici di un territorio, appare chiaro quale dei due sia davvero prevalente: in assenza di ginecologi che facciano il loro mestiere nel pubblico e per intero, le donne perdono la garanzia di poter scegliere se fare o non fare una delle scelte più importanti e spesso dolorose ( dipende da casao a caso vedi la vicenda di Alice Merlo foto a destra intervistata su queste pagine che non ha provato dolore non l'aver scelto di ricorrere all'interruzione volontaria di gravidanza ) della loro vita. Le più fragili ed esposte tra loro - perché giovanissime, precarie o in relazioni abusanti - pagano conseguenze
che nessuno sembra considerare rilevanti. Su molti dei media che commentano la notizia si sente volentieri la specificazione che il Molise sarebbe una delle regioni a più basso indice di natalità d'Italia, come se i due dati - libertà di scelta e culle vuote - fossero collegati o dovessero esserlo. Eppure è proprio il caso del Molise a dimostrare che, anche in condizioni di quasi impossibilità di interruzione delle gravidanze, chi non vuole diventare madre non lo diventa comunque. Dietro quel pensiero, sostenuto apertamente dai partiti di destra e dai loro esponenti istituzionali, c'è però un ragionamento fallace: se siamo un Paese di vecchi la colpa è delle donne egoiste che non fanno più figli. La soluzione al problema della natalità nazionale per molti sarebbe evidentemente quella di obbligare le donne a riprodursi anche quando non vogliono, trattandole come fattrici di stato, gravide obtorto collo per procura nazionale.Il contesto di questi pensieri è patriarcale, perché considera le donne funzioni del sistema e non persone; per questo Florynce Kennedy amava ripetere il paradosso che se gli uomini potessero rimanere incinti, l'aborto probabilmente diventerebbe un sacramento. Non sapremo mai se è vero o no, ma nel caso del Molise una certezza l'abbiamo già ed è che abbiamo un problema democratico: il diritto a obiettare per i medici è infatti garantito ovunque, mentre una donna che non vuole diventare madre deve avere abbastanza fortuna da vivere nella regione giusta. Se davvero vi indignano le dittature sanitarie, considerate questa, se non altro perché, a differenza dell'altra, è vera.
Ecco quindi che per continuare a garantire l'aborto in Molise Michele Mariano, 69 anni, foto in alto ad inizio post unico ginecologo non obiettore a praticare le interruzioni volontarie di gravidanza nella regione, ha rimandato la pensione. Per sostituirlo non si è fatto avanti nessuno. L'avviso pubblico per reperire altri medici non obiettori è stato una chiamata nel vuoto. Così per Mariano è arrivata la proroga, che lo terrà in servizio all'ospedale Cardarelli di Campobasso fino alla fine dell'anno. La caccia al sostituto continua, ora è stato bandito un concorso. Intanto, da pochi giorni, l'Azienda sanitaria ha assegnato al Dipartimento Ivg la ginecologa Giovanna Gerardi, che affiancherà Mariano per 18 ore a settimana. Una buona notizia, che però non basta a tranquillizzare i sostenitori della 194.
Dottore, come è possibile? "La nostra è un'anomalia, è vero, ma il problema è nazionale. I medici non obiettori mancano in tutta Italia. E una volta tanto devo spezzare una lancia per l'amministrazione. Magari in passato non ha agito bene, ma stavolta non ha colpe: ha bandito subito un avviso, sta bandendo un concorso. Ora è arrivata anche la collega che ci darà una mano ed è già una piccola vittoria".
La dottoressa Gerardi quanto rimarrà? Prenderà il suo posto? "Non lo so. Non so nulla purtroppo".
Perché non sono arrivate risposte per l'avviso? "Perché chi fa aborti non fa carriera: trovatemi un primario che ne faccia. In Italia c'è la Chiesa, e finché ci sarà il Vaticano che detta legge questo problema ci sarà sempre. Ci sarà sempre un vescovo che chiama il politico di turno e si assicura un primario non obiettore per un pugno di voti. E poi perché la maggioranza dell'opinione pubblica - e dei colleghi - considera chi pratica le Ivg come qualcuno da mettere da parte, ginecologi di serie B, che fanno qualcosa di brutto. Io qui sono "il medico degli aborti": si scordano che faccio anche partorire".
Soffre a essere definito così? "Sono 40 anni che faccio questo lavoro. Non mi sento un sicario, come disse Bergoglio, applico solo la legge. Nessuno si diverte a fare interruzioni di gravidanza. Per strada mi salutano solo le donne che ho fatto partorire, di rado le altre, perché c'è vergogna. Ma sapesse quante mi ringraziano privatamente per averle aiutate a interrompere una gravidanza, specie quelle che lo hanno fatto per ragioni mediche".
Che presentimento ha per il concorso: arriveranno domande? "Prevede l'assunzione a tempo indeterminato, per cui è possibile che arrivino. Ma è anche probabile che chi si presenta lo faccia solo per essere assunto e poi diventi obiettore. La mia speranza è che si presenti qualcuno che davvero desidera continuare il mio lavoro".
Un solo non obiettore per tutta la regione non è comunque poco? "Con il concorso si fa una graduatoria da cui pescare. Può essere assunta una persona, due o tre. La situazione potrebbe migliorare".
Rispetto all'applicazione della 194, quali sono i problemi nazionali cui faceva riferimento? "Prima di tutto l'obiezione di coscienza. La legge la consente, e allora la battaglia va fatta a monte: già all'università, non bisognerebbe permettere a chi vorrà fare il ginecologo di diventare obiettore. Poi bisogna impedire che un ginecologo possa scoprirsi di colpo obiettore dopo essere stato assunto magari con un concorso bandito per garantire l'applicazione della 194. In Svezia, i ginecologi che rifiutano di praticare le Ivg vengono licenziati, perché un aborto è parte del loro lavoro. In Italia no: si fanno assumere, diventano obiettori e arrivederci. La lotta va condotta a livello nazionale, su scala locale si può fare poco. Poi è vero, le amministrazioni territoriali trascurano il problema, ma anche un direttore generale non può mettersi contro una legge che permette ai medici di esercitare un diritto".
Lei in pensione ci vuole andare? "Io no, ne ho di tempo davanti per bighellonare al mattino e la felicità di far nascere bambini mi spinge a continuare. Ma ho la sensazione che, dati i tempi dell'Italia, non si riuscirà a fare questo concorso per quando me ne dovrei andare". Se non c'è un sostituto resterà? "Io ci sono, ma non sono Highlander. Io lavoro e lo faccio per il bene delle persone, ma in un modo o nell'altro dovrà finire. Probabilmente mi prorogheranno ancora".
In Sardegna cane pastore non scappa di fronte alle fiamme per proteggere il gregge, salvato da un veterinario
FULVIO CERUTTIPUBBLICATO IL25 Luglio 2021ULTIMA MODIFICA26 Luglio 2021 15:07
Il suo corpo è ricoperto di ustioni. Le più gravi sul muso e sui polpastrelli. Avrebbe potuto mettersi in salvo da quelle fiamme che stanno devastando la Sardegna, evitarsi queste ferite che segneranno per sempre il suo corpo. Ma lui non è un cane qualunque. Lui è un cane pastore. Lui è quel cane che deve organizzare e proteggere il suo gregge. E così non si è allontanato, non ha abbandonato il suo ruolo ed è rimasto bloccato su un muretto.
Il cane beve acqua in clinica, segnali di speranza dopo le ustioni in Sardegna
Oltre 20mila ettari di territorio, di boschi, oliveti e campi coltivati sono stati ridotti in cenere, aziende agricole devastate, case danneggiate. È pesantissimo il bilancio del gigantesco rogo scoppiato nel Montiferru, nell'Oristanese. E a questo, alle oltre 1500 persone sfollate, si aggiunge anche il dramma degli animali: non si conoscono i numeri, ma stanno arrivando moltissime immagini di animali bruciati vivi o morti soffocati per il fumo inalato.
Rogo Oristanese: strage di pecore nelle campagne
Questo cane, trovato a Tresnuraghes, ce la farà grazie al pronto intervento di Angelo Delogu, il veterinario che lo ha salvato: «Rimasto fermo sul muretto mentre le fiamme lo avvolgevano – scrive su Facebook –. No, non l’ho soppresso perché guarirà. Non ha il chip, dubito che succeda ma se qualcuno dovesse riconoscerlo si faccia sentire».
Ora il povero animale è stato stabilizzato e trasferito nella Clinica Veterinaria Duemari per l’ospedalizzazione. Ce la farà, uno dei simboli di speranza di questo dramma.
Il miracolo di Cabras: due cani si salvano dalle fiamme nascondendosi dentro un ulivo
il suo corpo è ricoperto di ustioni. Avrebbe potuto mettersi in salvo da quelle fiamme che stanno distruggendo la Sardegna. Ma lui, cane pastore, ha preferito restare fermo davanti quel muretto e proteggere il suo gregge a Tresnuraghes, nel Montiferru, la zona più colpita dagli incendi sull’isola. Ora si trova alla clinica veterinaria Duemari di Oristano: “I grandi ustionati non migliorano. Perdono pezzi. Si tratta di vedere quanti pezzi perderà. Se supera una determinata percentuale sarà morto”, fanno sapere a Fanpage.it dal centro. A cura di Biagio Chiariello
Non solo campagne, terreni e migliaia e migliaia di ettari divorati dalle fiamme in Sardegna. Gli incendi nell’Oristanese hanno visto vittime moltissimi animali, alcuni dei quali non sono riusciti a scampare al fuoco. Altri, invece, come un cane da pastore recuperato a Tresnuraghes, al confine con la regione storico-geografica del Montiferru, sono stati più fortunati: sarebbe rimasto fermo davanti al muretto per difendere le sue pecore. L'animale, di cui non si conosce il nome, è diventato il simbolo degli incendi in Sardegna. Ora è ferito con ustioni alle zampe, ai polpastrelli e al muso, i veterinari della clinica veterinaria Duemari di Oristano, dove è ricoverato, non sanno ancora se riuscirà a sopravvivere. "I grandi ustionati non migliorano. Perdono pezzi di pelle. Si tratta di vedere quanti ne perderà. Se supera una determinata percentuale sarà morto – fanno sapere a Fanpage.it dalla clinica – Il rene collassa. E non riesce più ad allontanare la tossicità che derivano dalla necrosi. Un altro cucciolo ha avuto i polmoni ustionati dalla inalazione dell’aria rovente. È sotto ossigeno ma soffre terribilmente". Le fiamme in Sardegna hanno devastato oltre 20mila ettari di territorio, distrutto aziende agricole, danneggiato case, provocato migliaia di sfollati. Questo il pesantissimo bilancio dell'enorme rogo scoppiato nel Montiferru, nell'Oristanese. A ciò si aggiunge il dramma degli animali: non si conoscono le cifre, ma sui social e sui media locali giungono ora dopo ora immagini di animali bruciati vivi o morti soffocati per il fumo inalato.
Il soldato Adler torna in Italia per riabbracciare i tre bambini della sua foto: una colletta per il viaggio
BOLOGNA Un appello, per aiutare il veterano di guerra americano 97enne Martin Adler ad abbracciare i tre bambini sbucati da una cesta a Monterenzio, nel Bolognese, immortalati dalla sua macchina fotografica durante la Seconda Guerra Mondiale e ora ritrovati, grazie ai social media, a distanza di tanti anni. A lanciarlo - raccolto sul suo profilo Facebook dal giornalista Matteo Incerti, autore del libro sulla vita dell'ex militare statunitense 'I bambini del soldato Martin' - è la figlia dell'uomo, Rachelle Shelley Adler Donley.
Si realizza il sogno del soldato Usa Adler: rivedere i tre bambini conosciuti nel 1944
Il 97enne, si legge sul profilo del giornalista, il 23 agosto da Miami via Londra atterrerà all'aeroporto di Bologna e abbraccerà i fratelli Bruno, Mafalda, Giuliana Naldi, i tre ex piccoli di Monterenzio, ora residenti a Castel San Pietro. Poi per due settimane sarà sull'Appennino bolognese , una tappa in Toscana e Napoli e Roma per incontrare le persone conosciute al tempo della Guerra e che sono rimaste nella sua memoria e nel suo cuore. Durante il suo tour italiano "il veterano - viene spiegato da Incerti - realizzerà disegni che metterà all'asta per beneficenza. A Bologna andranno in beneficenza all'Associazione Genitori Ematologia e Oncologia Pediatrica in memoria di Irene , bimba di 13 anni morta la scorsa settimana che sognava di incontrare Martin". Il viaggio, viene spiegato ancora da Incerti , "avrà costi altissimi vista l'assistenza medica di cui Martin e la moglie hanno bisogno. E' partita la raccolta fondi per dare una mano" e quello che avanzerà andrà al progetto di educazione ambientale e civica della Scuola nel Bosco di Siano, nel Salernitano. Sul suo profilo, Incerti, pubblica integralmente il lungo l'appello della figlia di Adler. "Con il vostro aiuto - scrive in un passaggio prima di ricostruire tutta la vicenda del 'ritrovamento dei tre 'piccolì bolognesi - Martin ripartirà ancora una volta per l'Italia! Questa volta in una missione di pace e celebrazioni, invece che come soldato di unità di combattimento durante la seconda guerra mondiale. Le spese saranno molto alte per i voli di oltre 13 ore e gli alloggi giornalieri. Non sappiamo quale sarà il costo finale. Sarebbe un sogno che si avvera per lui tornare in Italia con sua moglie Elaine che ha bisogno anche lei di assistenza. Martin sogna di riabbracciare Bruno, Mafalda e Giuliana". militare americano, ricorda la figlia in un altro passaggio, "non aveva ancora 20 anni quando arrivò a Napoli il 21 marzo del 1944 mentre il Vesuvio eruttava. Sono passati settantasette anni da quella felice fotografia sull'Appennino bolognese con tre bellissimi bambini: Bruno, Mafalda e Giuliana.Mentre stavano cercando tedeschi nascosti, mio padre John Bronsky (deceduto nel 2011), videro un grande cesto chiuso muoversi e dal quale si udivano rumori. Nessuno uscì, nemmeno dopo essere stato avvertito. Martin dice che è stato Dio a farli esitare nel premere il grilletto e sparare. All'improvviso da quel cesto sono usciti tre bambini. Piccoli e bellissimi. Sollevato e sopraffatto dalla gioia, mio padre abbracciò i bambini. Poi chiese di scattare una fotografia con loro. La loro mamma acconsentì, ma solo dopo che questi si fossero cambiati con i loro migliori vestiti, quelli della domenica. Per settantasette anni, Martin ha amato quella foto e si è sempre interrogato sulla sorte di quei tre bambini". Ora, rintracciati grazie al Web su cui la foto è volata, la possibilità di riabbracciarli.
e poi si vuole vietare l'ingresso dei cani in spiaggia o relegarli in spiagge a loro dedicate
da reubblica
Gli animali ci risolvono (e ci salvano) la vita più spesso di quanto siamo portati a credere. È di una settimana fa il salvataggio di una ragazza di 15 anni sulla spiaggia di Palinuro da parte di due lifeguard d’eccezione: Luna e Igor, i labrador della Sics, la Scuola italiana cani da salvataggio - Tirreno. Ed ecco una nuova potenziale vittima che deve ringraziare un amico dei due eccezionali labrador per averle evitato una morte certa.La costa cilentana, da Santa Maria di Castellabate verso sud, ogni anno scrive numeri a due cifre nel registro degli annegati, a causa di correnti fortissime, che trascinano via i bagnanti – anche i più esperti – senza possibilità di salvezza. A Palinuro, la donna che ha passato un brutto quarto d’ora, stavolta, era una cinquantenne che non pensava – come tutti – che a 60 metri dalla riva si potesse essere presi come da un vortice e portati lontano, mentre, inutilmente, si cerca di nuotare controcorrente.
Cilento, labrador salvano 15enne dalle onde: "Ora sono la mascotte della spiaggia"
Ma è arrivata Neve, una labrador color miele di 5 anni, con il suo conduttore Sebastiano, e, agganciatala, l’hanno riportata a riva sana e salva. Il mare di Licosa, San Marco, Santa Maria è infido e trae in inganno anche i più esperti nuotatori a causa dei bassi fondali: appena "non c’è più piede" cominciano i guai, la corrente trascina in mare aperto e la lotta per approdare diventa strenua. Molti non ce la fanno, e quel tratto di costa detiene un triste record. Con i cani da salvataggio, però, qualcosa è decisamente cambiata. Lo spiega Biagio D’Aniello, professore di Zoologia alla Federico II e con il suo cane Flash (ora in pensione) detentore del record mondiale di salvataggi (20) con la stessa scuola Sics: «Dal 2013 siamo in convenzione con il Comune di Palinuro e collaboriamo con la Guardia costiera. Da quando ci siamo noi nei fine settimana si registrano zero morti. Prima non era così». La Sics, la più grande scuola d’Italia, con più di mille iscritti, ha però soltanto 400 unità cinofile sul territorio nazionale, che sono un vanto italiano: gli Usa ora vogliono dotarsi di cani da salvataggio, e per farlo chiamano i nostri istruttori.