22.9.21

Lo storico Raoul Pupo: Esodo e foibe furono una violenza di Stato ma le polemiche non rispettano quei drammi

 

Basta polemiche. Ne sono fiorite troppe, attorno al dramma degli italiani dell’Adriatico orientale e

litigare ancora, sulle piazze mediatiche e virtuali, non è certo segno di rispetto per chi ha dovuto provare sulla pelle sua e dei suoi cari una delle tante fini del mondo, per gli individui e le comunità, di cui è cosparsa la storia.

Questo non significa che tutti debbano pensarla allo stesso modo: se ciò avvenisse, sarebbe un bel guaio, sintomo probabilmente che nella società e nelle istituzioni qualcosa sta andando storto. Per questo, rabbrividisco nel sentir invocare censure di stato o private su prodotti scientifici, libri di testo e pubblici interventi, a prescindere dal consenso o meno sui loro contenuti.Certo, i parenti di quanti hanno perduto casa, terra e affetti, se non la vita, hanno tutto il diritto di inalberarsi quando sentono qualche gaglioffo proclamare che nelle foibe è stata gettata solo immondizia o che gli esuli giuliano-dalmati sono partiti per far fortuna. Ma cosa diversa è prender pretesto da isole di negazionismo, magari pateticamente jugonostalgico, per bollare come riduzionista, giustificazionista e quanto di peggio, qualsiasi opinione si discosti da una vulgata nazionalista sulla storia del confine orientale che da qualche anno a questa parte è stata rimessa in circolo a profusione. Così il circolo vizioso non fa che alimentarsi, con gran soddisfazione degli opposti estremisti che spesso campano l’uno dell’altro; e finisce pure che le obiettive torsioni cui l’estrema destra sottopone di continuo una ricorrenza pur voluta e celebrata da quasi tutte le forze politiche come il Giorno del Ricordo, alimenti disagi anche fra chi i fatti li conosce e riconosce, instillando dubbi sull’opportunità stessa di mantenere la giornata memoriale. Questa alcuni limiti ce li ha, eccome, ma non vanno disgiunti mai dal grande e tardivo merito di offrire un riconoscimento morale dello Stato italiano a quei suoi cittadini d’Istria, Fiume e Zara che, pur di rimanere italiani, hanno rinunciato a tutto il resto. Guardando tali derive, una sorta di malinconica assuefazione agli abusi politici della storia spingerebbe ad alzar le spalle e passare avanti, ma la tentazione va respinta. Prima di tutto, perché al peggio non conviene mai rassegnarsi e poi perché, assolutamente clamoroso è ormai il divario fra i risultati della ricerca storica e le versioni di comodo in nome delle quali molti ancora preferiscono scambiarsi anatemi. Facciamo solo un paio di esempi.Le foibe, intese come stragi: delle loro logiche sappiamo tutto, perché conosciamo gli ordini, mica tiriamo ad indovinare! Palesemente, quella che si abbattè nella primavera estate del ’45 sulla Venezia Giulia fu la coda occidentale della terrificante ondata stragista che coprì tutti i territori della Slovenia e Croazia appena liberati dai tedeschi per mano partigiana. Stiamo parlando di stime che vanno dai 60 a più di 100mila morti, di cui alcune migliaia in quelle province giuliane che le truppe jugoslave consideravano già annesse fin dall’autunno del 1943 e dove si comportarono come altrove, in casa propria. Le modalità della repressione non è che si somiglino, sono proprio le medesime, perché stiamo parlando di un fenomeno unitario di eliminazione dei “nemici del popolo”.Ovviamente, nella Venezia Giulia del ’45 non c’erano né ustascia né cetnizi e solo qualche domobranzo, ma i “nemici del popolo”, dal punto di vista dei partigiani jugoslavi, abbondavano egualmente: tutti i fascisti, termine dal significato assai ampio; i rappresentanti del potere, che era tutto italiano, nelle istituzioni e nella società; quanti si erano opposti al movimento di liberazione; che in qualsiasi modo avevano partecipato, durante il ventennio, all’oppressione di sloveni e croati; ed anche quanti, antifascisti non comunisti, si opponevano all’annessione alla Jugoslavia.Potenzialmente, si trattava di una quantità enorme di bersagli, fra i quali venne data la priorità a quelli più odiati o più pericolosi: ecco dunque gli arresti di almeno 10/12 mila persone, le fucilazioni sommarie e le deportazioni dalle quali alcune migliaia di italiani non fecero ritorno. Una cifra esatta delle vittime non l’avremo mai, ma un ordine di grandezza fra i 4 ed i 5.000 è attendibile. Chi dice 10.000 o non ha idea di come si trattano le fonti oppure mente sapendo di mentire.Le medesime fonti ci parlano con assoluta chiarezza di una violenza di stato, decisa dai massimi vertici politici jugoslavi fin dall’estate del 1944 e poi pianificata ed eseguita da un organo dello stato, cioè la polizia politica, il cui operato venne certo facilitato dal clima di rivincita nazionale e politica diffuso fra sloveni e croati, che gonfiò l’onda delle denunce. Tuttavia, anche se i quadri dell’Ozna indulsero mica di rado all’equazione italiano = fascista, gli ordini escludevano esplicitamente la matrice etnica della repressione. Se un leader come Edvard Kardelj ingiungeva di “epurare non sulla base della nazionalità ma del fascismo”, noi non siamo autorizzati a baloccarci ancora con categorie di fantasia, come quella di “pulizia etnica”, malamente copiate da altri contesti. Il colmo dell’assurdità viene raggiunto quando si tenta di equiparare le foibe alla Shoah. Al fondo ci sta un grande equivoco, fra pietà e giudizio storico. Con lo sguardo della pietà tutti i morti sono uguali, tutti i dolori degni di rispetto. Sul piano storico-critico i giudizi invece sono diversi. Comparazioni utili sono quelle tra fenomeni della stessa famiglia: ad esempio, le stragi delle foibe possono venir paragonate – con somiglianze e differenze – agli eccidi nazisti, alle violenze del “triangolo della morte” nel 1945, ovvero ad episodi analoghi lungo tutto il fronte orientale. La Shoah – dove le vittime si contano a milioni e non a migliaia – rimanda invece ad una categoria completamente diversa, quella dei genocidi. Anch’essi possono venir fra loro confrontati, ma nessuno si sognerebbe mai di paragonare le stragi di mafia con lo sterminio degli armeni. Anche alla storia va applicato il buonsenso.Per l’esodo, fenomeno assai articolato, il discorso è più complesso. Limitiamoci dunque a notare come l’incrocio, finalmente possibile, delle fonti italiane con quelle ex jugoslave, ci consente di sciogliere alcuni dubbi interpretativi. Non risulta esser proprio mai esistito alcun progetto di espulsione totale degli italiani dall’Istria, Zara e Fiume. Al contrario, è esistito un progetto di integrazione selettiva concordato fra comunisti jugoslavi ed italiani in cambio del sostanziale appoggio del PCI alle rivendicazioni jugoslave. Tale integrazione, conosciuta come politica della “fratellanza italo-slava”, riguardava però solo una minoranza della componente italiana, con l’esclusione degli italiani di origine slava, dei “fascisti”, degli “imperialisti” che preferivano il mantenimento della sovranità italiana e dei “borghesi”. Pochi restavano quindi e per giunta quella politica, elaborata ai vertici, venne applicata da una classe politica locale estremista sotto il profilo nazionale ed ideologico, che non ci credeva affatto. Mettiamo poi nel conto i traumi legati alla costruzione accelerata del socialismo senza risorse ma con molta violenza, ed infine la crisi del Cominform che trasformò di colpo i comunisti italiani da “onesti e buoni” in “nemici del popolo”. Ce n’è abbastanza per dire che la causa fondamentale della fuga degli italiani non furono le mai documentate pressioni della propaganda italiana o il desiderio di benessere, bensì le politiche attuate sul territorio dal regime di Tito, rispetto alle quali l’esercizio del diritto di opzione costituì una valvola di sfogo e via di salvezza.Insomma, senza andare anche qui a scomodare categorie estemporanee, quello dei giuliano-dalmati fu un “esodo”, cioè una particolare forma di spostamento forzato di popolazione, che si distingue dalle deportazioni e dalle espulsioni perché il potere non caccia direttamente i membri del gruppo bersaglio, ma crea le condizioni ambientali che spingono i membri del gruppo medesimo a “scegliere” di andarsene.Fin qui la storia, ovviamente con molti più dettagli e sfumature, su cui liberamente e proficuamente discutere. Sarebbe simpatico se anche l’uso pubblico ne tenesse conto.

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