22.9.21

un estate magica dal punt di vista sportivo non solo il calcio La lezione della Polonia che festeggia il bronzo come se avesse vinto gli Europei di pallavolo e Splendido Hassan Nourdine, il nuovo campione italiano Superpiuma, astigiano di origini marocchine in un’intervista alla “Stampa”, dopo aver battuto in finale Michele Broili, il pugile dai tatuaggi inneggianti alle Ss.

 

Che impresa straordinaria!
L’Italia del volley è campione d’Europa.
Sconfitta in finale la Slovenia al quinto set, in rimonta, dopo un match pazzesco vissuto sempre in apnea, con un Michieletto addirittura devastante nell’ultimo parziale.
Dopo le azzurre, è la volta degli azzurri, per una doppietta che non era mai accaduta nella storia di questo sport.
Questo significa essere campioni e grandi uomini, alla faccia di tutte le critiche, le Cassandre e i profeti di sventura.
Non finisce mai. Non finisce mai quest’estate pazzesca. Non svegliateci!
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 4 persone, persone che giocano a pallavolo e il seguente testo "H msa CAMPIONI D'EUROPA"

  • Incredibile soprattutto per com’è maturata, dopo la cocente delusione olimpica, le cattiverie, le critiche, alcune folli, l’infortunio di Zaytsev, il rinnovamento, una Nazionale giovanissima da 24 anni di media su cui nessuno scommetteva (non fino a questo punto), una finale contro una Slovenia straripante che a tratti sembrava impossibile rimettere in piedi. Ma questa è l’estate 2021, dove tutto (davvero) può succedere. Grazie di tutto ragazzi.

Ma  quello  che mi ha  sorpreso di più   è  il  fatto     che  La Polonia, campione del mondo di pallavolo in carica, accetta il terzo posto agli Europei con gioia. E festeggia la medaglia di bronzo

polonia bronzo video 1

La Polonia, campione del mondo di pallavolo in carica, accetta il terzo posto agli Europei con gioia. E festeggia la medaglia di bronzo come se avesse vinto il torneo. Non era affatto scontato. Il video.La lezione della Polonia che festeggia il bronzo come se avesse vinto gli Europei di pallavolo | VIDEO

Ieri la nazionale di pallavolo polacca è riuscita a vincere la finalina che le ha permesso di conquistare il terzo posto agli Europei di pallavolo. Per i polacchi, che ospitavano il torneo, la vittoria con la Serbia rappresenta una parziale consolazione. La Slovenia era arrivata infatti in finale battendo a Katowice per 3-1 i padroni di casa della Polonia. E nonostante la collezione di terzi posti in Europa si stia facendo sempre più ampia, è la seconda volta consecutiva che accade, la squadra ha dimostrato grande entusiasmo e gratitudine durante la premiazione e la consegna della medaglia. Una scena del tutto diversa da quella che tutti ricordiamo dopo la vittoria degli Azzurri del calcio. Allora molti dei calciatori inglesi, sconfitti dalla Nazionale guidata da Mancini, si tolsero la medaglia d’argento mostrando delusione e poco rispetto. E finendo in un polverone di polemiche.

Ma anche i tifosi polacchi hanno dimostrato la loro grande sportività tifando la nostra nazionale con grande trasporto durante la finale:

Certo non bisogna dimenticare che gli avversari degli azzurri erano proprio quegli sloveni che avevano impedito l’accesso alla finale della squadra di casa. Ma il tifo è fatto anche di questo, o no? 


La cosa più bella di ieri sera, nella notte magica dell’Italia, è stato vedere tutti gli atleti della Nazionale polacca di pallavolo pazzi di gioia ed orgoglio nel ricevere la medaglia di bronzo per il terzo posto (neanche il secondo), davanti a 5.000 persone in delirio.Proprio loro che arrivavano da doppi campioni del mondo in carica, ospitavano gli Europei in casa loro e in molti davano favoriti.Ecco, in un’immagine, tutta la differenza tra i polacchi del volley e gli inglesi del calcio. Tra chi onora lo sport e chi lo ha umiliato, tra chi sa perdere (e vincere) e chi proprio non è in grado. Qualcuno prenda esempio da questo meraviglioso sport.

Il pugile italiano salito sul ring col corpo ricoperto di tatuaggi inneggianti al nazismo

Michele Broili ha combattuto contro Hassan Nourdine per la finale del campionato italiano Superpiuma sfoggiando tatuaggi come il totenkopf dei campi di concentramento e il simbolo delle SS. La Federpugilato l’ha segnalato agli Organi di giustizia federale




Accade che Michele Broili, quello a destra, si presenti al Palachiarbola di Trieste per il titolo italiano di pugilato, pesi Superpiuma, sfoggiando sul petto una serie di tatuaggi inneggianti al nazismo, tra cui il simbolo delle SS e delle guardie dei campi di sterminio.
Solo che dall’altra parte del ring trova Hassan Nourdine, quello a sinistra, campione astigiano nato 34enne in Marocco e immigrato anni fa in Italia in cerca di fortuna.
Per la cronaca, è finita così, con Broili che non solo è stato nettamente sconfitto da Nourdine sul ring ma anche segnalato dalla Federpugilato agli organi di giustizia federale.

Insomma, il karma esiste.
Ora arrivi anche la giustizia sportiva, in modo rapido, netto e severo, perché uno così in una competizione sportiva ufficiale, con questi simboli criminali addosso, proprio non ci può stare.

Michele Broili ha combattuto contro Hassan Nourdine per la finale del campionato italiano Superpiuma sfoggiando tatuaggi come il totenkopf dei campi di concentramento e il simbolo delle SS. La Federpugilato l’ha segnalato agli Organi di giustizia federale

michele broili puglie tatuaggi nazismo

Durante un incontro di pugilato avvenuto ieri al Palachirabola di Trieste valevole per il titolo italiano Superpiuma, il pugile Michele Broili – che sfidava l’avversario Hassan Nourdine – ha sfoggiato a petto nudo diversi tatuaggi inneggianti al nazismo, tra cui il totenkopf che richiama l’unità paramilitare addetta alla custodia dei campi di concentramento della Germania nazista, e il simbolo delle SS. Immagini che non hanno neanche portato bene sul ring a Broili: Nourdine infatti si è imposto nettamente (98-91; 98-91; 96-95) laureandosi campione d’Italia SuperPiuma.

La Federpugilato ha diramato un comunicato in cui spiega di voler “chiarire immediatamente la propria posizione e renderla pubblica”. “Durante l’incontro – si legge nella nota – si sono notati alcuni tatuaggi sul corpo del Pugile Broili inneggianti al nazismo e, come tali, costituenti un comportamento inaccettabile e stigmatizzato da sempre dalla Federazione Pugilistica Italiana, la quale è costantemente schierata contro ogni forma di violenza, discriminazione e condotta illecita e/o criminosa. Ovviamente di tale comportamento è esclusivamente responsabile il tesserato che lo ha posto in essere e, semmai, indirettamente ed oggettivamente la Società di appartenenza che lo abbia avallato e/o tollerato. Alcuna responsabilità può e deve essere ascritta alla Federazione Pugilistica Italiana, la quale non può essere a conoscenza delle scelte personali di ogni singolo tesserato sino a quando non ne abbia contezza”.

La Federazione ha provato quindi a smarcarsi dalle critiche e “condanna e stigmatizza con forza e perentoriamente il comportamento del proprio tesserato e si dissocia da ogni riferimento che i tatuaggi offensivi dallo stesso portati evochino. Tale comportamento è in palese contrasto con le norme sancite dal ‘Codice di Comportamento Sportivo del Coni (art.5)’ che la Fpi recepisce, condividendone spirito e contenuto”. Per questo motivo la Fpi ha annunciato di voler segnalare il caso agli Organi di Giustizia Federali “affinché di tale comportamento sia valutata nelle sedi opportune la contrarietà rispetto allo Statuto ed ai Regolamenti Federali e vengano adottate le opportune misure sanzionatorie anche a tutela dell’immagine della Federazione Pugilistica Italiana. Riservandosi, altresì, ogni opportuna azione”.


“C’è stato anche più gusto a vincere”: la felicità di Nourdine per aver messo ko il pugile con i tatuaggi nazisti

Quando sono saliti sul ring lo sgomento è stato generale, poi Nourdine lo ha battuto ed è diventato il campione nazionale pesi piuma. Solo oggi il j’accuse alla federazione

Nopurdine pesi piuma pugilato nazismo

E’ stato un match impari quello valevole per il titolo italiano pesi piuma di Pugilato, perchè Hassan Nourdine è più intelligente di Michele Broili. E il mondo dello sport è uno di quei posti dove il più grosso può vincere una gara, rimane il più intelligente però a vincere i titoli. Così è stato anche questa volta, l’occasione è però delle più emozionanti perché Nourdine, marocchino di 34 anni e piemontese da 28, ha detto che battere il suo avversario è stato molto più bello. Soprattutto per via di quegli orribili tatuaggi che portava sul petto. Broili negli ultimi giorni era balzato agli onori delle cronache per simboli, disegni e scritti inneggianti ideologie razziste e naziste.  Un 88 tatuato sul petto, poi la svastica. Sono solo alcuni dei simboli incredibili marchiati a fuoco sul pugile.

“C’è stato anche più gusto a vincere”: la felicità di Nourdine per aver messo ko il pugile con i tatuaggi nazisti

Sulle colonne de La Stampa si legge una bella intervista di Enzo Armando proprio al pugile marocchino. Nella sua storia esiste qualcosa che va presa comunque come un’insegnamento, e dopo tutta la retorica e la litania della felicità va messo sul tavolo il tema dei controlli. Come ha fatto un’atleta che veicola quel genere di messaggi a salire sul ring della finale? Quei tatuaggi sono uno slogan. Al peggior capitolo dell’umanità. “Ho trovato quelle scritte oscene. La Federazione doveva accorgersi dall’inizio che questo pugile aveva simpatie naziste – ha commentato il pugile marocchino. Ignoranza? Non ci sono giustificazioni. Chi ha fatto almeno le scuole medie sa cosa ha fatto il nazismo e chi non ha potuto frequentare sa cosa sia stato l’Olocausto. Incitare all’odio è punito dalla legge. Ma, vista la situazione, c’è stato anche più gusto a vincere”.

Come dargli torto? Ora per Hassan Nourdine ricomincia l’altra vita. Il pugilato non è il calcio, non ci sono così tanti soldi in giro. Lui continuerà a fare il muratore, fosse solo perché ha un figlio di appena un anno da crescere. Ha molto da insegnargli ancora, soprattutto a non aver paura di chi ha una svastica sul petto. Loro solitamente sono quelli che perdono.

razzismo negli stadi . il caso di Mike Maignan, portiere del Milan insultato da imbecilli juventini




Domenica sera durante il riscaldamento prima della partita Juventus-Milan il portiere rossonero Mike Maignan è stato tempestato di irripetibili insulti razzisti da alcuni pseudo-tifosi juventini al grido di “neg**” e “scimmia”. come testimonia un video ormai diventato virale sui social.




Storie Silenti

@StorieSilenti


Ancora una volta frasi razziste nel calcio. Insulti razzisti
@mmseize
del
@acmilan
, durante il prepartita prima della sfida di ieri sera con la
@juventusfc
, valida per il 4 turno del campionato di
@SerieA
#JuventusMilan Il secondo video nei commenti #Juventus #Milan











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IL numero uno ha deciso di rispondere attraverso la sua pagina Instagram con parole potenti e precise. Indirizzate non ai razzisti ma agli indifferenti, agli ipocriti, a chi non ha mai fatto nulla per risolvere il problema.“Cosa volete che dica? Che il razzismo è sbagliato e che quei tifosi sono stupidi? Non è questo, non sono il primo né sarò l'ultimo a cui succederà. Finché queste cose vengono trattate come “incidenti isolati” e non viene intrapresa alcuna azione globale, la storia è destinata a ripetersi.Cosa facciamo per combattere il razzismo negli stadi? Crediamo veramente che ciò che facciamo sia efficace? Nelle stanze che governano il calcio sanno cosa si prova a sentire insulti e urla che ci relegano al rango di animali? Sanno cosa fa alle nostre famiglie, ai nostri cari che lo vedono e non capiscono che possa succedere nel 2021?Non sono una "vittima" del razzismo, sono Mike, in piedi, nero e orgoglioso. Finché potremo usare la nostra voce per cambiare le cose, lo faremo".C’è solo da inchinarsi di fronte all’intelligenza e alla dignità di quest’uomo. Che qualcuno lo ascolti . Ora 
Non è ancora certo chi sia la persona che urla contro Maignan dalla curva della Juventus allo Stadium anche se si vocifera che qualcuno si sia dichiarato sui social, orgogliosamente. Se fosse confermato sarebbe incredibile, anche perché la Juventus ha reso noto che sta verificando i filmati delle telecamere di sorveglianza per poterlo individuare. Speriamo     che  da   un semplice  sdegno  si passi ai fatti . ed sarebbe ora visto che Proprio di recente un altro giocatore del Milan, Bakayoko, era stato vittima di un episodio molto simile durante Milan-Lazio. Allora il calciatore pubblicò un post su Instagram per ribadire di essere fiero del colore della propria pelle:

20.9.21

l'autunno non è solo malinconia ed tristezza Tanti falsi miti, altrettante leggende e una soria ricca, quella del frutto più sensuale e versatile dell'estate e dell'autunno




Leggi anche   

In genere  oltre  alle   varie  varietà    (   vedi primo url  sopra  )   che  solo in italia  sono 24\25   senza  contare  quelle  estointe   perchè    estranee   alle regole della grand e distribuzione  o  (  dimensioni ,   forma  , no  fuori stagione , ecc  )   si hanno due tipi di fichi: i fioroni, che maturano a inizio estate  cioè maggio\  giugno , e i fichi veri, che giungono a maturazione tra   giugno\  luglio  fino a settembre\  ottobre   . 


FICO

Fico, foto da Digital Library

Arbusto o albero di piccole dimensioni alto fino a 10 metri, con chioma espansa, larga ed irregolare. Fusto spesso tortuoso e contorto, ramificato principalmente dalla base. Corteccia liscia, grigiastra. Foglie grandi di 10-20 cm, semplice, caduca, lobata con 3-5 lobi, color verde scuro, pubescenti e scabre superiormente, verde-grigiastro e tomentose inferiormente. Nervature prominenti, latiginose. Fiori unissessuali piccolissimi racchiusi nella parte interna del ricettacolo (fico) carnosi, piriforme, glabro, di colore vario, ricco di zuccheri con una piccola apertura apicale. Semi minuti.

Corologia:
Specie originaria dell’Asia occidentale, da dove si è diffuso nei paesi mediterranei e caldi in genere. Tipo corologico: Medit.-Turan.
Fenologia:
I minuscoli fiori crescono all'interno di una struttura carnosa, chiamata ricettacolo, da cui in seguito si sviluppa il frutto. Si sviluppano contemporaneamente alle nuove foglie e maturano nel periodo estivo-autunnale quelli della parte basale e nella primavera quelli della parte terminale.
Habitat:
Specie termofila, che allo stato selvatico, si adatta a qualsiasi substrato. Non tollera bene climi molto rigidi e gelate intense e prolungate. Vegeta dal livello del mare fino agli 800 metri di altitudine.
Forma biologica:
Microfanerofita o mesofanerofita.
Curiosità:
E’ una pianta ad accrescimento rapido nei primi anni. Il legno, di colore bianco giallognolo, senza netta distinzione degli anelli annuali, è tenero, poco consistente idoneo solo per piccoli lavori; è di modestissimo valore anche come combustibile. Il cosiddetto frutto del fico è considerato un buon lassativo, delicato e non irritante; è anche un buon emolliente pettorale, lenitivo per le affezioni del cavo orale. Gli enzimi presenti nel fico sono simili, come valore digestivo, al succo pancreatico. In Sardegna veniva distribuito insieme ad altri frutti in occasione delle festività di novembre.
   Nell'articolo   qui sotto     preso da repubblica  del  20\9\2021  ulteriori  dettagli 

Fichi: amati, dolci e poco capiti

Tanti falsi miti, altrettante leggende e una soria ricca, quella del frutto più sensuale e versatile dell'estate






Settembre, tempo di fichi. È il mese in cui questo frutto, che poi botanicamente frutto non è, dà il suo meglio. Certo, a inizio estate ci sono i fioroni, belli grandi, e in autunno i cimaruoli, tipici delle zone molto calde. Ma adesso è il momento dei fòrniti, i fichi propriamente detti, che portano con sé la dolcezza del sole più caldo.
 Diffusa in tutti i paesi caldi, la pianta del fico punteggia soprattutto le nostre regioni meridionali, in particolare Puglia, Calabria e Campania. Si trova un po’ dappertutto: a ridosso delle spiagge, in campagna, in collina, in città. Non è raro vedere un albero crescere in mezzo alle rocce o direttamente dentro un vecchio muro: all’apparato radicale della pianta, infatti, basta poco per trovare acqua.
Per dare frutti, i fichi hanno bisogno di un processo di impollinazione che coinvolge piante maschio e piante femmina oltre all’aiuto di una piccola vespa che porta il polline dalle prime alle seconde; le piante coltivate sono però quasi tutte partenocarpiche e quindi non necessitano di impollinazione. Caratteristica comune è il tipico profumo che fa capire di essere vicino a un fico prima ancora di averlo visto. A quel punto basta alzare gli occhi e cercare i frutti maturi, perché non c’è niente di meglio che mangiarli appena colti, magari all’alba, dopo che la notte li ha naturalmente rinfrescati e la fuoriuscita del lattice, irritante per le mani, è ridotta. 
Il fico ha decine di varietà, alcune diffuse in maniera eterogenea, altre limitate a piccoli areali. Purtroppo è facilmente deperibile, una volta staccato dalla pianta tende a cambiare velocemente consistenza e a inacidirsi; in più la sua delicatezza mal sopporta il trasporto dalla pianta ai banchi del mercato. È anche questa la ragione che ne ha sempre fatto un frutto ideale per l’essicazione, il modo migliore per preservare la sua ricchezza di carboidrati. A tavola non è mai stato relegato al solo ruolo di fine pasto. Basti pensare all’espressione “Mica pizza e fichi!”, che richiama un pasto povero tipico, secondo alcuni, addirittura dell’epoca romana. E che proprio a Roma trova nel vulcanico Stefano Callegari uno straordinario interprete. Da Sbanco proprio in questi giorni si trova in carta la Cilentana, omaggio a un territorio ricchissimo da cui provengono ricotta di bufala, miele di agrumi, soppressata di Gioi e fichi: una pizza in cui il dolce e il salato si sposano in un susseguirsi di morsi golosi, lasciando ad entrambi il ruolo da protagonista, senza che uno prevalga sull’altro.
Altro abbinamento tradizionale, specialmente in Francia, è quello con il foie gras. Anche in questo caso le radici risalgono forse all’impero romano come lascia pensare Apicio, che racconta di animali nutriti con i fichi proprio per renderne più prelibato il fegato. Secondo alcuni linguisti, addirittura, il fegato, inizialmente chiamato in latino iecur, divenne poi iecur ficàtum (fegato riempito di fichi) e infine semplicemente ficàtum. Questioni etimologiche a parte, è certo che i due alimenti si sposano a meraviglia, con il frutto che può essere utilizzato al naturale oppure leggermente caramellato o ridotto in composta. In Italia rispondiamo con la classicità popolare di prosciutto e fichi accompagnato da focaccia o pane casareccio, con varianti di ogni genere (con aggiunta di pecorino più o meno stagionato, capocollo al posto del prosciutto, fico chiaro o scuro, con o senza buccia).


Il fico non si usa in cucina solamente quando è maturo. A Magliano Sabina la chef Laura Marciani, del Ristorante degli Angeli, cucina i ficoccetti, cioè i fichi appena spuntati sulla pianta, ancora totalmente acerbi. Un’antica ricetta delle campagne sabine che può essere realizzata solo per un brevissimo periodo, una ventina di giorni ad Aprile. I ficoccetti vengono spaccati a metà e saltati in padella con aglio e olio, a volte anche con l’aggiunta di asparagi selvatici. Il preparato può essere utilizzato per una squisita frittata oppure per condire gli strozzapreti, che poi sono arricchiti da una grattugiata di pecorino semi stagionato. Anche le foglie del fico sono utilizzate in cucina, ad esempio per gli involtini di riso, di carne o di verdura piuttosto comuni tra Grecia, Turchia e Medio Oriente, oppure impiegate nella stagionatura dei formaggi, specialmente pecorini di produzione umbra e toscana. Ma recentemente è stato Mauro Uliassi, chef tra i più grandi del Paese, a nobilitarle con un utilizzo davvero sorprendente. Dietro al piatto dal nome più semplice, pasta al pomodoro, si nascondono anni di lavoro per cercare di carpire il profumo dei raspi, quello che si sente, inconfondibile, entrando in un orto e che fatalmente svanisce nel momento in cui quei pomodori arrivano a tavola. La soluzione al rebus l’ha finalmente suggerita Hilde Soliani, artista dell’olfatto e del gusto, invitando lo chef a trovare quelle stesse molecole odorose in altre piante. E così Uliassi arriva alle foglie giovanissime di fico che mette in infusione nel burro, in un bagnomaria tenuto a sessanta gradi. Con quel burro condisce la pasta, e poi sopra, senza bisogno di mantecare, ci appoggia i pomodori vesuviani, appassiti in forno a bassa temperatura e poi setacciati per ottenere una polpa setosa e carica di gusto. Al momento dell’assaggio tutto torna, il pomodoro e la sua pianta si ricongiungono in un solo boccone, e ancor prima nell’effluvio che arriva dal piatto.



La stessa idea di mettere tutta una pianta in un solo piatto l’ha avuta Federico Cari, pastry chef del ristorante Luigi Lepore di Lamezia Terme, locale che coniuga al meglio territorio e fine dining dove viene proposta la “scirubetta” con gelato di foglie di fico e mosto cotto di fichi. Quest’ultimo è uno sciroppo molto denso, ottenuto dalla bollitura dei frutti maturi: il liquido che ne risulta viene filtrato e ridotto fino a ottenere una consistenza e una dolcezza che ricorda appunto quella del mosto cotto (di vino). La “scirubetta” è invece la granita dei poveri, che nelle montagne calabresi si prepara utilizzando la neve. Ovviamente Cari, che ad agosto la neve proprio non riesce a trovarla, prepara una classica granita a partire da un infuso di foglie di fico che poi arricchisce con il mosto cotto di fichi. Anche il gelato prevede un’infusione, questa volta in latte e panna (circa dodici ore a sessanta gradi). Il risultato finale racconta di aromi vegetali, note amare, freschezza, dolcezza appena accennata: un pre dessert perfetto per la sua capacità di pulire il palato e predisporlo alla parte finale del pranzo.
Il fico è protagonista anche di sorbetti e granite. In quest’ultimo caso tappa obbligata in Sicilia, al Bambar di Taormina oppure da Alfredo, nella splendida isola di Salina. Per i sorbetti, invece, non deludono né la scuola romana, ad esempio Fata Morgana, né quella milanese, come nel caso dei fichi neri pugliesi di Gnomo Gelato. Nella pasticceria classica, invece, i frutti freschi hanno spazio più come elemento decorativo che come veri e propri protagonisti dei dessert, dove invece troviamo spesso i fichi secchi. In inverno apriremo anche questo capitolo, per il momento godiamoci gli ultimi scampoli d’estate.

concludo riportando un a delle tante leggende riguardanti tali frutti




IL FRUTTO DELLA LONGEVITÀ È IL FICO NERO SARDO

da   http://www.itenovas.com/in-tavola/
Scritto da Effe_Pi




La varietà che si trova nella zona di Chia sarà al centro di un progetto di ricerca sul rapporto tra alimentazione e vecchiaia.











I fichi con le loro proprietà organolettiche aiutano e non poco a tenersi in buona salute, sono dolci, gustosi, ricchi di proteine vegetali, fibre, sali minerali e vitamine. Per questo le caratteristiche della specie endemica del Fico Nero di Chia, nel comune di Domus de Maria, così come i benefici delle acque sorgive, saranno al centro di un ampio progetto di ricerca sulla relazione tra alimentazione, stili di vita e vecchiaia. Lo porterà avanti la Comunità Mondiale della Longevità (CMdL), presieduta da Roberto Pili, grazie ad un accordo sottoscritto con il Comune che fa parte cintura dei Comuni della Longevità coordinata dalla Cmdl.   .....  segue  sul sito 

Storia di Stefano e Marco: il loro destino si incrocia grazie a Ebola e Covid. il primo lo salva dall'ebola il secondo dal covid


Leggi anche   
David Quammen: "La salute dei cittadini è un tema di interesse nazionale. No agli pseudo-esperti"


Storia di Stefano e Marco: il loro destino si incrocia grazie a Ebola e Covid
                                        di Fiammetta Cupellaro
                                       repubblica  20\9\2021 
i diue amici  insieme  
 
Stefano Marongiu fu curato per Ebola allo Spallanzani. Dove cinque anni dopo ha ritrovato Marco, il colonnello del C 130 malato di Covid che gli salvò la vita portandolo in aereo da Sassari a Roma



Marco salva la vita a Stefano e 5 anni dopo è Stefano a salvare Marco. E' una storia di destini incrociati quella che ha per protagonisti due uomini sopravvissuti, uno all'Ebola e l'altro al Covid-19. Come in un patto non scritto, ognuno dei due deve la vita all'altro. Due virus li hanno uniti per sempre.
Stefano Marongiu, infermiere sassarese di 37 anni, nel 2015 venne contagiato dal virus dell'Ebola e l'unico che accettò la sfida di portarlo in salvo in aereo fu il colonnello medico Marco Lastilla, che insieme al pilota puntò dritto sull'ospedale Spallanzani di Roma, evitandogli una morte sicura. Cinque anni dopo è Marco ad entrare proprio allo Spallanzani in gravi condizioni a causa di Covid-19. E ad accoglierlo è Stefano, l'uomo che gli è rimasto riconoscente per sempre e lo ha curato per ventinove giorni restandogli sempre accanto. Stefano che è a capo delle Usca-R, l'Unità speciale di continuità assistenziale della Regione Lazio che riunisce circa 800 infermieri, coordinate dall'Istituto di malattie Infettive Spallanzani e che è stato insignito dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con l'Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
E' maggio del 2015 quando Stefano Marongiu, in quel momento in servizio al 118 di Cagliari, si sente male. E' appena rientrato da una missione in Sierra Leone dove ha prestato servizio come volontario di Emergency. Tra i suoi pazienti in Africa anche una donna cinquantenne che proprio il giorno prima della sua partenza per l'Italia si presenta negli ambulatori con una febbre emorragica. Il referto non lascia spazio a dubbi: la donna è stata contagiata dal virus dell'Ebola ed è lui ad averla presa in carico al suo arrivo. Una malattia che Stefano conosce bene visto che la Sierra Leone è uno degli stati in cui l'epidemia è estesa. Per questo motivo, quando i primi sintomi del contagio, febbre alta e malesseri simili all'influenza, cominciano a manifestarsi lui sa subito cosa fare. Si autoisola nella sua casa e avvisa le autorità sanitarie.
stefano  con la moglie 


La progressione dell'infezione è rapida e la gestione di questa malattia è estremamente complicata, in quanto non esiste una terapia antivirale specifica e nemmeno un vaccino. Ricoverato d'urgenza all'ospedale di Sassari, le analisi confermano: "E' Ebola", ma per avere qualche possibilità di salvezza l'infermiere deve essere subito trasferito a Roma, all'istituto nazionale malattie Infettive Lazzaro Spallanzani, l'unica struttura in Italia dove c'è un team di medici in grado di affrontare una situazione così grave e complessa.
Scatta immediatamente l'operazione di trasferimento sanitario aereo da Sassari a Roma, ma le procedure
Marco Lastilla 
sono delicate, visto che il trasporto di pazienti infettivi, se effettuato con procedure comuni, espone al rischio della diffusione del contagio e anche il personale deve essere altamente qualificato. Marco Lastilla, colonnello medico dell'Aeroutica militare, accetta la sfida e vola in Sardegna. A bordo di un C130 viene caricarata la barella per il biocontenimento con a bordo l'operatore di Emergency le cui condizioni continuano a peggiorare. Ricoverato allo Spallanzani, 29 giorni più tardi, l'infermiere viene dichiarato guarito. Ma il destino cambia ancora la sua vita e quando i colleghi dell'ospedale romano, vista la sua esperienza con Emergency, gli chiedono di restare a collaborare non ha dubbi: rimane a Roma e ritrova Roberta Chiappini, capotecnico di Microbiologia, la donna che diventerà sua moglie, conosciuta in Sierra Leone, anche lei inviata in Africa dal suo ospedale, partita appena un mese prima di Stefano.
Entrambi in prima linea contro il Covid-19 allo Spallanzani, Stefano e Claudia un giorno all'inizio di dicembre 2020 ricevono la telefonata del colonnello Marco Lastilla, ora cinquantenne, con cui in questi cinque anni sono rimasti in contatto. Dal 2015 tra i due uomini si è infatti stabilito un legame di amicizia profonda. Il militare confida all'amico di non sentirsi bene e un tampone svelerà che è stato contagiato da Sars-CoV2. Qualche giorno dopo le condizioni di Marco Lastilla peggiorano e viene ricoverato proprio allo Spallanzani. A quel punto la vita di Stefano e Marco si incrociano di nuovo, ma le parti sono invertite: è il militare che lo ha assistito su quel C130 ad aver bisogno delle cure di Stefano che, per tutto il ricovero dell'uomo che gli ha salvato la vita mettendo a rischio la sua, gli rimane accanto. Le condizioni del colonnello, tra l'altro, sono serie, non viene intubato ma ha avuto il bisogno del casco, la maschera full face per la ventilazione forzata. E siccome i numeri in qualche modo ci aiutano ad intepretare la realtà, Marco lascia l'ospedale Spallanzani dopo un ricovero di 29 giorni. Lo stesso periodo che è servito al suo amico per guarire cinque anni prima dal virus dell'Ebola. "Le storie nascono da un numero infinito di elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardo di miliardi", scriveva Italo Calvino nel suo Castello dei Destini Incrociati.

 unione  sarda 
  21 marzo 2021 alle 11:37 aggiornato il 24 marzo 2021 alle 10:48
                           Nicola Pinna

Dall'Ebola al Covid, i due amici che si salvano a vicenda   Straordinario intreccio di vicende umane tra la vita e la morte


Forse non sono solo coincidenze. Sarebbero troppe, tutte casuali, per poter credere che questa storia sia vera per davvero. E invece non c'è finzione, neppure un briciolo, in questo intreccio di vicende umane che si svolgono costantemente al confine tra la vita e la morte
All'incubo di non farcela si contrappongono altre forze: quella dell'amore e della solidarietà, un'amicizia casuale che poi diventa inossidabile e tanta, tantissima, tenacia da eroi. I protagonisti sono tre e nel bel mezzo della loro serena quotidianità fanno la comparsa improvvisa due nemici che in qualche modo si assomigliano molto: uno persino più spietato dell'altro. Il primo si chiama Ebola, il secondo Covid19. I vincitori di questa sfida che sembra eterna, e che alla fine va avanti per cinque lunghissimi anni, si chiamano Stefano, Roberta e Marco. Storie diverse, incontri casuali e battaglie comuni.


                    Nel 2015 l'infermiere di Sassari viene trasportato allo Spallanzani (foto concessa)

Stefano di cognome fa Marongiu: nasce e cresce a Sassari, è un soccorritore con la divisa del 118 e nel 2015 si ritrova in Sierra Leone, in un ospedale di Emergency, dove finisce per essere contagiato dall'Ebola. È il primo italiano a fare i conti col contagio che rischia di essere globale ma che poi per fortuna viene fermato prima che diventi pandemia. Roberta è una collega che Stefano conosce in Africa, che ritrova nell'ospedale di Roma mentre combatte la sua sfida contro il virus e che finisce per diventare sua moglie.
Il terzo, che però stavolta non è un incomodo, è Marco Lastilla, un colonnello medico dell'Aeronautica militare che per salvare Stefano sfida a viso aperto l'incubo della contaminazione: traporta da Alghero allo Spallanzani l'infermiere sardo e poi sparisce, quasi nascosto, tra gli angeli in divisa che ogni giorno si mettono in volo per soccorrere chi in ospedale ci può arrivare soltanto in aereo perché il tempo di salire in ambulanza non c'è più. Il cerchio di una storia che sembra un romanzo si chiude quando a terrorizzare il pianeta compare il Covid e il colonnello Lastilla fa i conti con la fame d'aria e si ritrova sotto un casco della terapia intensiva. I pesi della vita in questo caso si riequilibrano e nella strada che porta fuori dall'ospedale, nel percorso per ritrovare la normalità e il sorriso, il medico diventato paziente incontra un volto noto: quello di Stefano Marongiu, l'infermiere che aveva salvato e che stavolta ricambia il favore. Con la stessa generosità e la stessa tenacia. Finché non è il momento del lieto fine. Ci si potrebbe soffermare sui sentimenti e si potrebbero approfondire le emozioni di quella che è diventata una famiglia allargata, ma bastano i fatti a rendere stupefacente questa vicenda.
Gli incastri dei tempi e dei luoghi, le insidie delle malattie e le speranze ritrovate in reparto. Perché quando Stefano Marongiu era a casa, con la febbre, rinchiuso in un appartamento della periferia di Sassari, quasi nessuno sapeva come curarlo. I medici dello Spallanzani sì: specialisti all'altezza della fama di centro d'eccellenza che l'ospedale romano ha costruito in giro per il mondo. Ma la Sardegna è lontana e c'è poco tempo da perdere. E nel solito gioco che si fa duro, pure stavolta, scendono in campo gli equipaggi dell'Aeronautica militare: piloti che non perdono tempo e che non hanno paura. Sempre pronti, in una piccola base dell'aeroporto di Ciampino o nel grande hub per C130 di Pisa, in attesa di decollare per correre in soccorso a chiunque abbia bisogno. Quasi ogni giorno sono loro a correre da un capo all'altro dell'Italia, e spesso all'estero, per salvare bambini nati con patologie rare o persone con scarsissime aspettative di salvarsi. Il miracolo si compie quasi sempre. E si ripete il giorno che Stefano Marongiu non sa neanche a quale santo votarsi. A bordo dell'aereo che atterra in Sardegna per portarlo a Roma c'è un colonnello col camice di cui nessuno racconta il nome: si chiama Marco Lastilla e una volta compiuta la missione del giorno ritorna alle incombenze quotidiane di un ufficiale medico. "Mi ero addestrato a salvare un paziente anche in condizioni particolari come quelle di chi è affetto da una malattia altamente contagiosa - racconta oggi il colonello - Dietro la tuta e la maschera ero pronto anche quel giorno che andai a prendere Stefano in quel di Sassari. Le sue condizioni erano critiche da dover prendere una decisione in tempi rapidi. E quella che presi su la giusta". Di quella missione si parla per giorni sui giornali, perché l'infermiere sassarese è il primo italiano colpito dall'Ebola e perché la barella di "biocontenimento" dell'Aeronautica è uno dei pochi esempi al mondo. Si spera serva a poco, si sfrutta durante le esercitazioni e si rivela preziosa con l'invasione del Covid. "Per Marco - ricorda l'infermiere sassarese - ero semplicemente uno sconosciuto: uno sconosciuto che stava male e che lui aveva giurato di salvare ad ogni costo". "Il giorno che ho salvato Stefano - si commuove il colonnello Lastilla - sentivo che non dovevo lasciarlo e dopo cinque anni ho capito che era lui che non doveva lasciarmi. E infatti mi aspettava per prendersi cura di me. Il bene va e ritorna". Tra il 2015 e il 2020 quasi si ci dimentica di quel dramma evitato e della disavventura di Stefano Marongiu. Al quale la vita cambia comunque. Perché durante il periodo di ricovero ritrova Roberta: l'infermiera conosciuta in Sierra Leone che lavora proprio allo Spallanzani e che assiste l'agonizzante compagno di avventure africane. Dalle cure all'amore il passo è breve e così i due si ritrovano dallo stesso reparto allo stesso tempo: marito e moglie, uniti da una storia che di per sé sarebbe già da copertina
L'ultimo capitolo è quello che si apre con la pandemia scatenata dal coronavirus. A beccarsi il Covid è quel dottore in divisa che Stefano e Roberta non avevano mai perso di vista. Le cose pure stavolta sembra che non accadano per caso e così Marco Lastilla viene ricoverato nel reparto in cui lavora proprio Stefano Marongiu, che nel frattempo ha lasciato il 118 di Sassari e si è trasferito a Roma. Ovviamente allo Spallanzani: un luogo in cui si sconfiggono le malattie e dove soprattutto si alimenta la vita. Stefano Marongiu non è arrivato in ritardo: "Marco aveva bisogno di me e io non potevo tirarmi indietro. Ogni sera che andavo in ospedale ripetevamo il nostro rituale, quello di radergli la barba. Un gesto semplice che assicurava maggiore tenuta alla maschera dell'ossigeno ma anche un modo, almeno per me, di potergli stare più vicino. La mattina che mi ha chiamato e mi ha detto di essersi fatto la barba da solo ho realizzato di aver finalmente ritrovato un amico"

19.9.21

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Èdavvero un concentrato unico di generosità e testardaggine montagnina, la Val di Susa. Dove una comunità popolare forgiatasi nella Resistenza antifascista, rigenerata dalla decennale vertenza contro un’alta Velocità inutile e nociva, non ha voluto disertare neppure l’i mpegno del sostegno logistico ai migranti che tentano di espatriare in Francia. Ne hanno viste di tutti i colori, lassù, additati come il covo della sovversione italiana, ma certo non si aspettavano venisse raggiunto da mandato di cattura internazionale uno dei personaggi più conosciuti e amati della valle: Emilio Scalzo, 66 anni vissuti intensamente fra la Sicilia delle origini e le vette alpine piemontesi.

La Francia ne chiede l’estradizione accusandolo di aver partecipato a scontri con la Gendarmerie alla frontiera di Claviere, durante una protesta contro la vera e propria caccia ai migranti dispiegata oltre confine. Mercoledì scorso tre auto dei carabinieri si sono appostate a Bussoleno per catturarlo appena uscito di casa, quasi si trattasse di un elemento pericoloso. Forse perché intimorite dalla fama di atleta che contraddistingue questo gigante buono, portiere di calcio e pugile dilettante, di mestiere pescivendolo e per vocazione militante No Tav. Di certo ignoravano la sua storia di vita raccontata da Chiara Sasso nel bel libro A testa alta ( Intra Moenia), l’impegno a non lasciarsi risucchiare nella malavita com’è successo ad alcuni dei suoi otto fratelli, senza però mai abbandonarli. In carcere prima di lui era finita a 73 anni Nicoletta Dosio, autrice della post- fazione del volume. Per fare l’en plein mancherebbe solo che arrestino pure il magistrato Livio Pepino, già membro del Csm, oggi impegnato nel Gruppo Abele, che firma la prefazione del volume.

Fatto sta che Emilio Scalzo attende rinchiuso in cella alle Vallette di Torino l’udienza di mercoledì 29 settembre in cui una Corte d’appello esaminerà la richiesta di estradizione avanzata da Parigi. Per scongiurarla, i difensori faranno presente che a ottobre Scalzo dovrà rispondere di fronte alla giustizia italiana di alcuni reati minori, come il taglio delle reti di un cantiere Tav. Così funziona da queste parti: si ritrovano in veste di pregiudicati insegnanti, negozianti, contadini che non mollano la presa.

I compaesani di Emilio Scalzo stasera daranno vita a una fiaccolata a Bussoleno. Loro ricordano la volta in cui tornò a casa scalzo perché aveva regalato le scarpe a un migrante che doveva traversare i boschi innevati d’inverno. Mal sopportano l’ipocrisia di un’opinione pubblica che si commuove per il dramma degli afghani in cerca di salvezza, ma ignora la sorte dei due afghani precipitati giovedì scorso nel lago artificiale di Rochemolles mentre tentavano l’espatrio. Sono sbalorditi dall’ idea che il mandato di cattura internazionale possa applicarsi a un reato minore come quello di cui viene accusato Emilio, un uomo di cui possono testimoniare l’altruismo e il tragitto di vita, sempre insidiato dalla prossimità del male, ma sempre rivolto al bene.

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